>> Login Sostenitori :              | 
header-1

RSS 2.0
menu-1
TUTTI |0-9 |A |B |C |D |E |F |G |H |I |J |K |L |M |N |O |P |Q |R |S |T |U |V |W |X |Y |Z

Archivio Articoli FREE

Un saluto a Tajani, che si sveglia adesso
Stampa
  Text size
In Europa, «siamo di fronte ad un massacro industriale sistemico». Senti senti. Chi lo dice: un Nigel Farage? Un Sapir, un blogger, un altro critico marginalizzato dell’europeismo? No signori, tenetevi forte: lo dice – nientemeno –che il Commissario Europeo all’Industria. Che per giunta si chiama Antonio Tajani.

Questo Tajani io l’ho conosciuto quand’era giornalista. Siamo stati colleghi in un settimanale di Rusconi di breve durata, «Il Settimanale», e poi ancora al Giornale di Montanelli. Io a Milano, lui alla redazione romana. Dove la confricazione col mondo politico produce bei risultati e carriere a chi si sa muovere, e che noi giornalisti di Milano manco possiamo sognarci. Fatto sta che Tajani, in quota berlusconiana, è diventato deputato europeo – dal 1994: fra poco sarà vent’anni – e poi Kommissario, prima ai Trasporti e poi all’Industria.

A leggere la biografia su Wikipedia, palesemente da lui stilata, in quelle cariche di eurocrate Tajani ha fatto grandi cose, fra cui «una campagna sulla nuova rivoluzione industriale in Europa». Me la devo essere persa, perché dell’eurocrate Tajani ricordo soprattutto una cosa: il silenzio. Il tacito consenso alle politiche europee, ai Barroso, ai Van Rompuy, mentre l’Italia veniva devastata dall’ex-Kommissario Mario Monti e dalla Merkel, deindustrializzata dall’euro forte e dalle tasse dementi. Più che silenzio, a me pareva un sonno. Precisamente, il «sonno dogmatico» di tutta la burocrazia europoide, custode dei propri dogmi illuministici arbitrari e che arbitrariamente impone alle società europee.

Così, ora, sono contento che il Kommissar Tajani si scuota dal sonno dogmatico, rompa il silenzio e lamenti che «siamo di fronte al massacro industriale». Anche se noi lo soffriamo già da un tre anni (con un inabissamento nel governo monti), è sempre una presa d’atto salutare, se viene da un Kommissar. Tajani lo ha detto non a un giornale italiano (non è colpa sua: i giornali italiani non si occupano di cose serie), ma al Telegraph, anzi al miglior giornalista del Telegraph, Ambrose Evans-Pritchard. Alle giornate Ambrosetti. (Brussels fears European 'industrial massacre' sparked by energy costs)

Che cosa provoca la deindustrializzazione in europa, Kommissar Tajani? I costi dell’energia, risponde lui. Mentre gli Stati Uniti entrano nella «rivoluzione dello scisto bituminoso» e shale gas, che taglierà i costi energetici americani fino all’80%, l’Europa resta legata dalla «corsa donchisciottesca alle energie rinnovabili che porta i costi dell’elettricità a livelli insostenibili».

Ben detto Kommissar. Sicuramente, ti riferisci agli «obbiettivi europei 20-20-20», ossia all’insieme di direttive cretine ed utopistiche che impongono a tutti i Paesi euro-oppressi di ridurre, entro il 2020, le emissioni di CO2 di un ulteriore 20% e di ricavare energia dalle rinnovabili per il 20%. Anche se la Cina, Stati Uniti, India e BRICS in genere non si sono legati le mani con simile cervellotico programma, e continuano ad inquinare il mondo a tutta forza. Perché cervellotico, il programma, lo è: perché poniamo, non imporre l’adeguamento in Europa per il 2030, ma proprio il 2020? Perché fa bello: 20-20-20 è parso un bello slogan a Bruxelles. Ai Barroso ed agli Almunia piaceva non l’idea (non ne hanno) ma il suono: «Venti-Venti-Venti». Che bello! E l’hanno tradotto in direttive. Draconiane.

A queste dobbiamo gli incentivi «per le rinnovabili» che noi italiani paghiamo sulla bolletta più cara del mondo, e i cui proventi vanno essenzialmente alla malavita meridionale, che ha riempito le Calabrie di pale eoliche, e alle altre mafie del fotovoltaico. Una paturnia eurocratica, che ha aggiunto una palla al piede all’industria italiana.

Ora Tajani, destatosi, si lamenta: «Dobbiamo smetterla, non possiamo sacrificare l’industria europea per raggiungere obbiettivi climatici che non sono realistici, e non sono imposti a livello mondiale». È la voce stessa del buon senso. Non sembra nemmeno un Kommissario, uno di quelli che ha imposto il 20-20-20 per una paturnia ecologista.

Ma leggendo l’articolo si scopre che quello di Tajani non è un atto di ardimento isolato nella Commissione. Anzi, nella sullodata Commissione, ormai «la crisi energetica europea ha rimpiazzato i problemi del debito come principale preoccupazione». Il presidente europeo Herman Van Rompuy ha chiamato alla priorità di tagliare i costi dell’energia in Europa: «Rispetto ai competitori Usa, l’industria europea oggi paga il doppio per l’elettricità e il quadruplo per il gas. Le nostre imprese non trovano compenso per il fatto di essere più efficienti».

Capito? È lo stesso presidente Van Rompuy, il Kommissar dei Kommissari, a pensarla come Tajani, sempreché il verbo «pensare» si applichi ai Kommissars. E sempreché non sia Tajani (antico yes man) a pensarla come Van Rompuy, ossia ad adeguarsi alle posizioni dei vertici eurocratici.

È comunque una buona notizia. Chi avrebbe mai immaginato che i Kommissari cambiassero visione? Invece ne sono capaci. Il punto è scoprire «perché» hanno cambiato visione. Forse la risposta la dà il valoroso Evans-Pritchard. Ad ottobre, la Commissione emanerà una direttiva sullo sfruttamento degli scisti bituminosi; si tratta di consentire il fracking, per il quale premono le compagnie petrolifere nonché Gran Bretagna e Polonia. Dunque c’è un braccio di ferro in corso fra eurocrati ecologisti ed eurocrati petroliferi, e rispettive lobbies. «Personalmente sono a favore del gas da scisto in Europa perché dobbiamo fare di più per l’industria», dice Tajani. Ti pareva.

Ma ha forse dimenticato che esiste un’altra causa per il «massacro industriale» in Europa, o nel Sud-Europa, ed è l’euro sopravvalutato? Ma no. Tajani lo ha appreso proprio ora, e – improvvisamente desto, dopo anni di sonno dogmatico – lo denuncia: « L’euro è davvero troppo forte, e rende duro per le nostre imprese di competere coi cinesi... Abbiamo bisogno di una vera Banca Centrale, come la Federal Reserve o la Banca d’Inghilterra, dotate della volontà di promuovere la crescita». E ormai lanciato, fino al punto di lasciare stupefatto il giornalista britannico («Mai sentito un Kommissar criticare così apertamente un’altra istituzione eurocratica»), Tajani si produce in arditezze programmatiche inaudite: «La BCE dovrebbe prestare alle piccole imprese, proprio come sta facendo la Banca d’Inghilterra. Non possiamo far calare la disoccupazione e tagliare il debito pubblico senza una forte politica industriale che ridia vita alle piccole imprese». A questo punto, Tajani accenna qualcosa riguardo alla restrizione del credito (credit crunch) che la politica troppo stretta della BCE impone alle piccole imprese in Italia, Spagna e nella periferia dell’eurozona. È la sola volta che gli capita di parlare dell’Italia. Complimenti.

Si potrebbe continuare a far dello spirito su questo improvviso risveglio del commissario Tajani, o dei commissari superiori. Magari legarlo al fatto che la Commissione di cui fa parte è a fine corsa, e i suoi membri pensano al loro futuro: Barroso briga per un posto all’ONU, Tajani rischia di tornare in Italia e non trovare più il suo partito, e il fondatore Berlusconi stesso latitante o agli arresti. Ma sarebbe ingiusto ironizzare: dobbiamo comunque essergli grati per la presa di coscienza su due delle più grosse magagne della Unione Europea. Naturalmente, non senza sottolineare – magis amica veritas – che se certe idee penetrano finalmente la dura cervice eurocratica, è perché come al solito vengono dagli Stati Uniti. Il consensus americano-multinazionale era: delocalizzare le manifatture nei Paesi dove la manodopera costa meno, mentre «noi» manteniamo i centri finanziari e la creatività tecnica che escogita prodotti e brevetti. Adesso, in Usa si comincia a capire che quando si mandano fuori e lontano le industrie fisiche, anche la «creatività» industriale e progettuale, know-how ed abilità artigianale e lavorativa, si spengono e si allontanano per stare vicino alla fabbrica; hanno bisogno del processo produttivo come i pesci dell’acqua: com’è accaduto a Taiwan, al Sud Corea e sta accadendo in Cina, passate dalla manifattura su licenza alla progettazione completa. Da qui discorsi sulla re-industrializzazione, prima tabù (chi ne parlava era un protezionista, populista, fascista) diventano ammissibili, anzi lodevoli. Anche Romano Prodi (un altro Kommisar) scrive sul Messaggero: «Rimettiamo al centro la politica industriale», e tiene propositi che ieri lui stesso avrebbe bollato di fascistoidi e protezionistici: «Molti nuovi beni o servizi non trovano origine dal nostro Paese ma debbono essere importati. Non può sfuggire a nessuno il fatto che, prendendo in esame le innovazioni più di successo degli ultimi trent’anni nei nuovi settori, esse non siano mai state prodotte e non siano tuttora prodotte in Italia. Dai computer ai telefoni portatili fino agli infiniti prodotti ad essi correlati, sempre più dipendiamo da tecnologie straniere». Ben svegliato anche a lei, professor Prodi.

Purché non sia troppo tardi. Tre inciampi hanno colpito l’eurozona nell’ultimo anno:

L’euro s’è rivalutato del 30% sullo yen, del 20% sul Real brasiliano e del 25% sulla Rupia indiana; è risalito persino rispetto al dollaro, nonostante la Fed ne stampi a tonnellate... non bene, per la zona economica che meno già per sé cresce al mondo.

I costi del credito (il costo per indebitarsi) sono saliti di 0,7 % da maggio in tutta Europa: non bene, anzi male per le piccole imprese d’Italia, Spagna e Portogallo già nella tempesta del credit crunch e della crisi da oltre tre anni.

Il petrolio è rincarato (Brent) di 15 dollari a barile da giugno, e può salire alle stelle se i Tomahawks cominciano a colpire la Siria. Sarà come un’altra tassa sulla tartassata economia italiana, e di quelle del Sud; il rincaro sottrarrà altro potere d’acquisto al sistema, e aggraverà la deflazione in corso. Deflazione ed austerità, impostaci da Germania, Bruxelles e Banca Centrale Europea, che rendono sempre più vano lo sforzo di ridurre il debito: senza crescita del Pil, il debito meccanicamente aumenta rispetto appunto al Pil. E lungi dal crescere, l’economia d’Italia e Spagna si contrarranno di un altro 2% sul Pil quest’anno, il Portogallo del 3-4, la Grecia di un altro 5-7%. In tutti questi Paesi, guarda caso, il rapporto debito-Pil cresce inesorabilmente: del 15% in Portogallo e Spagna, del 24% in Grecia, dov’è avviato nonostante i tagli draconiani (o a causa di essi) a toccare il 153% del Pil nel 2015; in Italia, veleggia ormai al 130% ed oltre: «già, o vicino, al punto di non ritorno», dice Evans-Pritchard; nel 2014, supererà il 140%, a meno di misure straordinarie (saccheggio dei depositi). Naturalmente occorrerebbe una Banca Centrale che allentasse la stampante, e una Germania che lo permettesse – o che trasferisse ai Paesi del Sud, che ha penalizzato, parte degli introiti del suo surplus, quest’anno pari a un 7%: tasso di crescita «cinese».

Come fanno notare gli amici di Scenari Economici, noi, greci, spagnoli e portoghesi continuiamo intanto – mentre affondiamo – a pagare altissimi tassi d’interesse sui debiti: questi interessi finiscono «nelle tasche dei partners europei, contribuendo a mantenere alti i loro livelli di vita» (1). In pratica, i tedeschi godono di buoni stipendi e di un costo della vita inferiore al nostro perché la differenza gliela paghiamo noi, contribuenti dei Paesi poveri, i cui governanti ci spremono per pagare gli interessi ai creditori tedeschi e nordici. Finché dura. Perché questo mettere l’aggiustamento della zona euro tutta e solo a carico dei debitori, fallirà, «dal momento che la deflazione invelenisce la dinamica del debito, e la disoccupazione di massa avvelena la democrazia. Viene il momento in cui dei leader hanno l’obbligo morale di fare default»: così Evans-Pritchard. Leader di questo genere non se ne vedono in circolazione. (Triple shocks threaten Europe's sickly and deformed recovery)

Commissario Tajani, s’è svegliato tardi. Torni pure a dormire.




1) Ci riferiamo al saggio dal titolo «Diciamola tutta: Monti ha fatto un disastro (e la Germania ringrazia). Ecco perché», al sito di Scenari Economici. È uno studio lungo , magistralmente approfondito, di cui si consiglia caldamente la lettura.



L'associazione culturale editoriale EFFEDIEFFE, diffida dal copiare su altri siti, blog, forum e mailing list i suddetti contenuti, in ciò affidandosi alle leggi che tutelano il copyright.


 
Nessun commento per questo articolo

Aggiungi commento


Libreria Ritorno al Reale

EFFEDIEFFESHOP.com
La libreria on-line di EFFEDIEFFE: una selezione di oltre 1300 testi, molti introvabili, in linea con lo spirito editoriale che ci contraddistingue.

Servizi online EFFEDIEFFE.com

Archivio EFFEDIEFFE : Cerca nell'archivio
EFFEDIEFFE tutti i nostri articoli dal
2004 in poi.

Lettere alla redazione : Scrivi a
EFFEDIEFFE.com

Iscriviti alla Newsletter : Resta
aggiornato con gli eventi e le novita'
editorali EFFEDIEFFE

Chi Siamo : Per conoscere la nostra missione, la fede e gli ideali che animano il nostro lavoro.



Redazione : Conoscete tutti i collaboratori EFFEDIEFFE.com

Contatta EFFEDIEFFE : Come
raggiungerci e come contattarci
per telefono e email.

RSS : Rimani aggiornato con i nostri Web feeds

effedieffe Il sito www.effedieffe.com.non è un "prodotto editoriale diffuso al pubblico con periodicità regolare e contraddistinto da una testata", come richiede la legge numero 62 del 7 marzo 2001. Gli aggiornamenti vengono effettuati senza alcuna scadenza fissa e/o periodicità