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Interesse nazionale, il grande sconosciuto
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Sui torbidi di Tor Sapienza, è ben noto il banalissimo fatto seguente: per gli immigrati sotto protezione internazionale lo Stato spende 40 euro al giorno (il Ministero dice 30). E li hanno messi concentrati – in ben quattro cosiddetti centri d’accoglienza (come dice la neolingua untuosa burocratica) – in un quartiere degradato dove quei redditi come salario sono un sogno. Senza contare a che sette milioni di cittadini italiani pensionati minimi, lo Stato elargisce 500 euro al mese, la metà che a un profugo straniero.

Chi sono i veri profughi? Si è giunti al punto assurdo che a sette milioni di cittadini italiani diseredati – per ottenere il trattamento che è considerato minimo dalla comunità internazionale per una vita dignitosa i bisognosi di soccorso umanitario – converrebbe esser privi di cittadinanza, e presentarsi come «richiedenti asilo».

Ci dicono che c’è un obbligo internazionale di dare un trattamento economicamente dignitoso ai rifugiati; altrimenti incorriamo in punizioni salate della UE. Strano che la UE non pretenda un trattamento umanitario per i sette milioni di pensionati minimi, i 3 milioni di senza-lavoro, i milioni di lavoratori a 900 euro o meno, e magari per i milioni di greci condannati alla fame, alla mancanza di cure, e alle malattie perché si sono lasciati troppo indebitare dalle banche tedesche. Visto che lo pretendono, perché gli altri membri della UE, perché l’ONU non pagano loro la cifra che ritengono umanitariamente decente ai rifugiati che arrivano da noi solo perché l’Italia è il ponte geografico che sappiamo, vicino all’Africa? Macché; per oltre un anno la nostra Marina è andata a prendersi i profughi fin sotto le coste della Libia perché non affogassero nella traversata » creando e promuovendo il ripugnante business dei mercanti di carne umana che ce li abbandonavano a migliaia in barconi praticamente fatti affondare sotto i nostri occhi – e la UE ha fatto finta di nulla. Abbiamo salvato 100.250 esseri umani e speso 9,5 milioni al giorno dalle nostre tasche italiane. Sono 114 milioni di euro in poco più di un anno; singolare coincidenza, il Governo ha deciso di tagliare di 100 milioni il fondo per i non-autosufficienti, privando di sostegno all’assistenza domiciliare i malati di sclerosi laterale amiotrofica.

Adesso finalmente la UE s’è mossa: la costosa operazione Mare Nostrum la sostituisce con la «Triton»: la grande Europa pitocca ci metterà 3 milioni al giorno al posto dei nostri 9,5. La Triton farà – ha assicurato – ricerca e soccorso nei limiti del diritto internazionale della navigazione, ed entro le trenta miglia dalla costa italiana. Mica se li va a cercare quasi in Libia. Ma a noi impone: trattate bene i profughi, altrimenti...

Adesso la povera Italia risparmia un po’. Non a lungo: al prossimo barcone affondato con 400 morti, tutto il boldrinume e il bergogliazzo pretenderanno la ripresa di Mare Nostrum. Già da subito «un cartello si associazioni, tra le quali Arci, Acli e Caritas, ha lanciato un appello al Governo perché non venga interrotta l’operazione» (1). Sono lì, pronti a gridare e piangere sui nuovi salvati... da scaricare a Tor Sapienza, mica all’hotel Santa Marta.

I pensionati minimi a 450 euro e i disabili su carrozzina – in quanto italiani – dovranno aspettare. Non è ancora arrivato il loro turno, per la pietà ufficiale.

Dite quel che volete, ma mi sembra che qui si riveli, nel modo più ridicolmente paradossale e tragicomico, il fatto che abbiamo perso anche l’ultima briciola della nozione di quel che si chiama – o che in altri Stati chiamano – «l’interesse nazionale». Da troppi decenni la nostra vita politica ufficiale, i nostri Governi, la nostra classe intellettuale – mentre al disotto la società si sgretolava come l’economia, l’istruzione, persino la piccola civiltà quotidiana che faceva di questo il Bel Paese – si è dedicata anima e corpo, voluttuosamente – e persino con la nostra approvazione – a qualcosa che non possiamo chiamare se non «l’interesse sovrannazionale».

Fare l’interesse altrui

Abbiamo «fatto», invece, l’interesse sovrannazionale. Per settant’anni siamo stati i più convinti euro-entusiasti. Abbiamo aderito all’Europa senza condizioni. Abbiamo accettato senza limiti il trattato di Maastricht che ci ha reso i prigionieri incatenati dall’austerità che siamo oggi. Abbiamo rinunciato alla sovranità monetaria minima e residuale. Stiamo contribuendo a salvare le banche portoghesi e spagnole quanto e più de tedeschi, prendendoci in cambio solo rimbrotti, derisioni, aria di sufficienza.

La Corte costituzionale tedesca di Karlsruhe, nel 2009, ha ritenuto «compatibile» (bontà sua) il trattato di Lisbona ma con la condizione reale che, in pratica, le normative europee non fossero automaticamente ratificabili dal Parlamento tedesco se non in concordanza con la Legge Fondamentale (la costituzione) germanica. Da quel momento in poi, la Germania è diventata l’unico Stato veramente sovrano d’Europa, o meglio il solo che ha mantenuto la sua sovranità, assoggettando le normative eurocratiche alla sua costituzione... il che è normale in fondo per ogni Corte costituzionale.

Ma noi italiani non abbiamo obiettato. Non abbiamo rilevato che questo cambiava tutto il gioco, che non eravamo tutti più nello stesso status in Europa. Non abbiamo chiesto pari condizione. Noi ci siamo impegnati a ratificare le più assurde, stupide ed odiose direttive europoidi, fino a mettere in costituzione – atto di supremo servilismo – il limite del 3% al deficit di bilancio. Non ci siamo nemmeno accorti di esserci assoggettati non più alla UE (che è già male) ma ad uno Stato estero, la Germania. E perché? Perché da troppo tempo abbiamo perso l’abitudine di porci la questione:

«Qual è il nostro interesse nazionale?»

Fare l’interesse sovrannazionale, ci è stato gabellato come l’acquisto di una larghezza di vedute che avrebbe curato il nostro provincialismo. Finalmente europei! Fare l’interesse sovrannazionale, invece che l’interesse nazionale, l’abbiamo pure noi vissuto come una speranza di liberazione dai nostri politicanti nazionali incapaci, corrotti e localisti; Bruxelles ci governerà meglio di Roma... Naturalmente, è come sperare: adesso arrivano i belgi, i tedeschi, i lussemburghesi, e faranno il nostro interesse meglio di quello che sappiano farlo i Craxi, gli Andreotti.

Così siamo sotto un figuro come Juncker – che ha fatto egregiamente l’interesse nazionale del suo paesotto furbotto, il suo paradiso fiscale in Europa. Anche la Merkel fa il suo interesse nazionale, o almeno quello che i tedeschi percepiscono come tale. Anche gli altri fanno il loro interesse nazionale. Noi no. Noi siamo europeisti della prima ora, pronti a rinunciare a tutto per «il sogno europeo».

Siamo entrati nell’euro senza mai una discussione e con nessuna utilità se non per i nostri politici, che per qualche hanno continuato ad indebitar(ci) per le loro clientele, a costi germanici. Adesso vediamo che l’euro è la palla al piede che ci trascina nel fondo: l’economia italiana dall'inizio della crisi ha perso 11 punti di PIL e ha conosciuto una caduta della produzione industriale del 25%. Come se fossimo dal 2008 soggetti a bombardamenti aerei da seconda guerra mondiale. Un disastro inaudito che a causa delle politiche deflazionistiche della UE di Merkel-Juncker si prolunga in tutto il futuro prevedibile, senza prospettiva di uscita — non si dice di vittoria, ma di cessate-il-fuoco.

Ebbene: abbiamo mai avuto voce in capitolo, come Italia, nella forma che l’unione monetaria ha preso e che è andato assumendo? Abbiamo mai soppesato in qualche sede che cosa ciò comportava per il nostro interesse nazionale?

Mai. Abbiamo accettato tutto. Nella convinzione che i capi tedeschi, francesi, belgi, lussemburghesi fossero onesti anche per noi.

Invece ora scopro, da un articolo apparso su Libero a firma Carlo Cambi che gli stress test – fatti dalla BCE – «sono una porcata», come ha confessato «uno che conta molto nel board di controllo dei cosiddetti protocolli di Basilea arrivato a Siena per sbirciare i conti di Mps».

«La “porcata” sta nel fatto che negli stress test il peso dei derivati e in particolare dei Cds (credit default swap) è assai ridotto rispetto alla valutazione dei cosiddetti incagli (crediti in sofferenza o inesigibili) per cui paradossalmente le banche commerciali sono penalizzate rispetto alle banche finanziarie». Traduco: le banche strapiene di derivati – un nome a caso, Deutsche Bank – sono fatte apparire più sane delle nostre banche meno speculative, che hanno prestato alle imprese e alle famiglie e ora hanno parte di questi crediti in sofferenza causa crisi.

La BCE trucca i conti a nostro danno

E non basta:

«Negli stress test sono stati pesati diversamente i titoli di Stato. Mentre le banche tedesche li valutano a scadenza, le banche italiane li detengono al prezzo corrente. Nel caso delle banche tedesche i titoli vanno a patrimonio migliorando il rapporto ricchezza posseduta/credito concesso, per le banche italiane il rischio Paese viene calcolato come una perdita».

Non oso nemmeno credere di aver capito bene: la BCE usa due pesi e due misure. O forse, due metodi di contabilità dei titoli pubblici che le banche hanno in pancia, secondo la volontà degli Stati. Ovviamente a nostro danno.

Ora, scusate, chi doveva imporre che i tedeschi non facessero il trucco contabile sopra descritto, o pretendere che lo stesso metodo usato dai tedeschi fosse adottabile anche dalle nostre banche? Ho un vago sospetto: forse la Banca d’Italia. Ma i suoi 7 mila strapagati funzionari, ricchi sfondati coi nostri soldi, sono tutti «europeisti convinti»: mai un’obiezione, anzi mai un belato che faccia sospettare la loro esistenza nel consiglio della Banca Centrale – dopotutto – europea, a cui noi contribuiamo a suon di miliardi. Che il tedesco Weidman esista e si opponga ferocemente a Draghi, ci è noto. Che Visco (460 mila euro annui più bonus) abbia mai parlato in Consiglio della BCE non ci è mai stato noto.

Forse si limita a scodinzolare.

Francia, Grecia, Portogallo sono «usciti dalla recessione»; solo l’Italia resta indietro, ci dicono mentendo i media imbeccati di Bruxelles. Esili aumenti del Pil — per la Francia dovuto soprattutto alla crescita degli inventari, ossia degli invenduti. Ma quel che non dicono è che la «crescita» di questi Paesi deriva dal fatto che il loro deficit pubblico è molto superiore al 3% — il limite che invece l’Europa impone rigorosamente all’Italia. E noi ci stiamo. Per noi l’interesse nazionale non esiste. E gli altri ne approfittano, spellandoci.

Anzi, sono addirittura loro, i tedeschi – o almeno certi tedeschi – a dircelo:

«L’Italia deve uscire dall’euro. Non ha motivi validi per restarci», ha scritto sul Die Welt il 13 ottobre Erwin Grandinger.

Grandinger si domanda perché Roma continui a restare nella moneta che la strangola. E fra i motivi, scopre «l’irrazionale assegno in bianco di Berlino per salvare e garantire fiscalmente l’Italia e tutti gli altri Paesi dell’Euro (Trattato ESM)»: insomma che noi diamo fiducia alla Germania, che alla fin fine garantirà il nostro immane debito, come s’è impegnata. Cosa che la Germania ha escluso: e mica di nascosto, ma esplicitamente, anzi gridando. E noi, zitti e scodinzolanti. Sanno meglio loro che noi, qual è il nostro interesse nazionale.

Noi continuiamo ad aderire alla NATO che è diventata l’altra trappola che sappiamo. Ci fosse stata una qualunque nozione di «interesse nazionale», avremmo dovuto metterla in discussione fin da quando fu chiaro – ai tempi della Thatcher e Reagan – che gli anglo la stavano adattando ad operazioni «out of area». Così, cambiavano l’Alleanza da difensiva ad offensiva, per le loro future guerre neocoloniali. Ora, quando un’alleanza bellica cambia così totalmente natura, un Paese-membro fa almeno qualche domanda. Per esempio questa: «Che cosa ci guadagniamo, noi(2).

Ma no, non era educato. Abbiamo firmato un assegno in bianco agli USA: loro ci difenderanno , loro ci hanno liberato dal fascismo o no? Su comando NATO, abbiamo sparso i nostri militari ai quattro angoli del mondo più estraneo ai nostri interessi, l’Afghanistan, il Kossovo, con grandi spese e senza mai chiedere con quali vantaggi. Quando i nostri «alleati» di Parigi e Londra hanno aggredito la Libia di Gheddafi non c’è stato un governante italiano che – sbattendo il pugno sul tavolo – abbia avuto il coraggio di dire nelle sedi NATO: «L’Italia ha in Libia interessi economici primari. Ha garantito al regime il suo appoggio. Vogliamo garanzie che quegli interessi siano rispettati. Altrimenti, usciamo da questa alleanza di aggressori e saccheggiatori».

E così adesso dobbiamo metterci a carico l’Ucraina (colonia americano-tedesca) e romperci con Mosca – che mai ci ha minacciato dal crollo dell’URSS, che il destino manifesto portava all’integrazione con noi – per aggregarci all’espansionismo aggressivo e all’avventurismo neocon.

Miserabilmente, aderiamo alle sanzioni anti-Putin lamentandoci e piagnucolando con Putin che noi non vogliamo, che restiamo amici... che vergogna. Una visione non dico chiara, ma sufficiente, dell’interesse nazionale, doveva imporci di rifiutare – nelle sedi appropriate – non solo le sanzioni alla Russia, ma il concetto stesso di «sanzioni»: questo strumento iniquo che mostra a che cosa serve, veramente, la «globalizzazione» voluta dagli USA e da Londra sotto pretesto della libertà di commercio mondiale: serve – è sempre servita – a stroncare ed affamare gli Stati indisciplinati imponendo loro sanzioni economiche, che al politica dell’interdipendenza (invece che dell’autarchia) rende gravissime e dolorosissime.

Non voglio farla ancora più lunga, ma non posso fare a meno di ricordare il motivo per cui abbiamo le Regioni, questa rovina finale dell’Italia. Anche qui, fu per fare l’interesse sovrannazionale: le centrali di pensiero dell’Europa Unita, massoniche-monnetiane, alla Jacques Delors e Padoa Schioppa, in quella fase avevano progettato la frantumazione degli Stati nazionali in sub-entità sub-politiche, dunque sub-sovrane, su cui la grande cosca eurocratica avrebbe dominato meglio. Nessuna richiesta popolare esigeva da noi le Regioni e autonomie regionali: al contrario. L’industrializzazione stava integrando il Sud al Nord, popolazione con popolazione si mescolava e univa nelle fabbriche; la scarsità evidente di dirigenti competenti che non esistevano certo a mazzi nei capoluoghi, ma concentrati nello Stato Centrale ed accentrato dall’Unità, consigliava di mantenere l’accentramento. L’interesse nazionale avrebbe consigliato una qualche riflessione sulla vera e propria regressione verso arcaismi, abitudini e costumi malefici, subordinazioni, verso le prigioni delle mafie e delle cosche, a cui la regionalizzazione avrebbe condannato – spingendole indietro – popolazioni meridionali che si stavano liberando, risalendo verso la civilizzazione post-pastorale e post-latifondista (3).

Macché. Avemmo le Regioni perché già allora ce lo chiedeva l’Europa. Spingemmo nel passato le popolazioni meridionali in mano agli antichi padroni che nel frattempo si modernizzavano – oh quanto – con lo spaccio globale della droga. Per giunta, il nostro partito (ex) comunista, esecutore pedissequo dei mandati eurocratici, ha prodotto in fretta la revisione del titolo quinto della Costituzione (la più bella del mondo, l’inamovibile, ma cangiabile se ce lo chiede la cosa di Bruxelles) che ha perfezionato il disastro che tutti abbiamo sott’occhio: le Regioni come centro di spesa intoccabile ed irresponsabile, ingiudicabili nella loro «autonomia» quando delinquono ingollando miliardi pubblici, che lo Stato Centrale deve coprire a piè di lista.

Nessuno, dico nessuno, che ponga il tema evidentissimo: è interesse nazionale continuare ad avere questi mostri costosi e dilapidatori, nidi nel Meridione della criminalità organizzata che li tratta come poppa dei suoi arricchimenti? Come pensare alla loro radicale riforma, e se possibile abolizione? Zero. È che l’interesse nazionale, per noi, non esiste.

Sento già l’obiezione di tanti lettori: bella scoperta, non abbiamo interesse nazionale perché non siamo una nazione. Non siam popolo, siam divisi e per questo siamo calpesti e derisi. Ma l’obiezione prova troppo, ossia nulla. Quel che si chiama «interesse nazionale» non è un sentimento. L’interesse nazionale va formulato, espresso in qualche sede di Governo: è una dottrina. Proprio gli Stati di scarsa o recente coesione nazionale hanno bisogno di una dottrina che stabilisca l’interesse nazionale. Tipicamente gli USA hanno espresso tali dottrine e continuamente revisionate ed aggiornate: la «dottrina Monroe», la Nuova Frontiera di Kennedy, erano definizioni apertamente formulate dell’interesse nazionale.

In USA vi sono numerose centrali intellettuali che concorrono a definire, ed a proporre al potere presidenziale, l’interesse nazionale: Council on foreign Relations, Rockefeller Foundation, Trilateral, Brookings Institution, American Enterprise, Cato Institute, Carnegie Endowment for International Peace, RAND... sono decine. Ovviamente essendo pagati e finanziati (esentasse) da banchieri e petrolieri miliardari nonché dalle corporations del Complesso militare industriale, si può capire qual tipo di interesse nazionale promuovano. Ne è un modello la «dottrina Bush» del 2002: l’interesse nazionale USA da allora comprende: la guerra preventiva, il perseguimento della superiorità militare totale, la legittimazione all'azione unilaterale, e l’impegno nell’«estendere democrazia, libertà e sicurezza in tutte le regioni» del mondo.

Un «interesse nazionale» criminale, che praticamente minaccia anche tutti gli alleati e i satelliti degli Stati Uniti, un interesse nazionale che speriamo sia da ultimo rovinoso per la sola superpotenza rimasta: ma è pur sempre una dottrina. Non l’hanno nascosta, ma espressa in documenti: tipicamente nei documenti intitolati «Strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti». Almeno sappiamo come regolarci col nostro «alleato».

O sapremmo… se avessimo una dottrina dell’interesse nazionale invece di essere servi sciocchi dell’interesse sovrannazionale. Da qualche parte, deve esistere una qualche centrale intellettuale che definisce e formula l’interesse nazionale. Magari in modo non del tutto pubblico, magari come direttiva generale per le direzioni generali dei Ministeri e i grand commis, e gli alti funzionari. Essi devono sapere: «Qual è il nostro interesse nazionale»?, e non farsene una idea loro propria, magari dopo un passaggio nel settore delle banche d’affari tipo Goldman Sachs. Sull’adesione all’interesse nazionale dev’essere misurata la loro lealtà.

Esprimere la dottrina d’interesse nazionale serve come filo d’Arianna nelle grandi scelte politiche: può essere necessario, tenuto conto delle proprie debolezze (per esempio militari), aderire ad un’alleanza come membri minori; si può accettare di delegare sovranità ad entità europee, per motivazioni economiche (4). Ma sarà sempre chiaro che si è «sacrificato l’interesse nazionale», e che siccome si tratta di un sacrificio, va revisionato continuamente e l’interesse nazionale recuperato appena possibile.

Una dottrina dell’interesse nazionale è necessaria per imporre l’interesse nazionale ai renitenti, giustificare la legittima repressione delle minoranze che si oppongono, che resistono e che furbe che si sottraggono ai doveri. È utile ad identificare i nemici dell’interesse nazionale, cosa non meno importante: pensate all’affollamento di traditori che occupano i posti di potere in Italia, per il fatto di aver tradito l’interesse nazionale onde favorire l’interesse sovrannazionale —o Goldman Sachs.

Non sarebbe male se – per obbligo costituzionale – i partiti politici fossero obbligati ad elaborare una dottrina dell’interesse nazionale da proporre all’elettorato. Magari ciò li salverebbe dall’improvvisazione italiota, dalla riduzione della politica a talk-show e reazione di pancia, prontezza di battute e superficialità di corto respiro. Magari ogni partito potrebbe formarsi un think tank incaricato di suggerire al leaders le formulazioni i progetti di lungo termine da proporre agli elettori. Mi piacerebbe che Salvini consolidasse i suoi successi d’improvvisatore con la creazione di un think tank argomentante e intellettualmente adeguato, per dire...

… voi direte che sogno. No, non sogno. Sto solo enunciando un abc della Politica. Anche se non sarà mai realizzato in Italia, l’abc va anch’esso enunciato. A darlo per scontato, escono fuori i politici «di successo» che abbiamo: Berlusconi, Beppe Grillo. O un Bersani che elabora pensieri profondi sulla UE come quello che ricorderete: «Austerità okkèi, ma non così…».





1) Tralascio, per non sviare il discorso, che il Comune di Roma, che non ha i soldi per coprire le buche nel quartiere degradato e mettere un po’ di luce e di vigili, è lo stesso che paga agli 85 dirigenti ATAC, l’azienda trasporti, stipendi fra gli 80 mila e i 325 mila euro annui ciascuno (quanto il presidente USA); emolumenti che arrivano per qualcuno a 600 mila, grazie a bonus e indennità varie; che detto ATAC ha 12 mila dipendenti molto ben pagati per quello che fanno (il traffico dei passeggeri a Roma è un terzo di quello del confratello Ratp di Parigi); che quei dirigenti strapagati non solo producono da decenni un deficit annuo di 150 milioni, hanno accumulato un debito di 1,6 miliardi; ma stampano anche biglietti falsi all’interno dell’azienda, frodando la loro stessa azienda di 70 milioni di euro l’anno che non sono contabilizzati, e dunque servono al «nero» da distribuire ai partiti, in modo perfettamente bipartisan, destra e sinistra. E quei dirigenti strapagati, che falsificano i biglietti ATAC, delinquenti accertati, sono pure inamovibili. «Antonio Cassano, il potente ex-direttore generale di Atac (oggi “a disposizione” con uno stipendio di quasi 280mila euro), è un sopravvissuto a tre consiliature (Veltroni, Alemanno e adesso Marino) e dal 2002 ricopre cariche apicali che gli hanno consegnato la gestione operativa dell'azienda. Gioacchino Gabbuti, dopo aver guidato l’Atac dal 2005 al 2009, prima con Veltroni poi con Alemanno, viene accomodato sulla poltrona di amministratore delegato di Atac Patrimonio (società nata per vendere il patrimonio immobiliare dell'azienda ma che fino ad ora non ha concluso una sola operazione) con uno stipendio, tra indennità e bonus, di quasi 600mila euro. Il direttore acquisti, Franco Middei, nonostante le inchieste in corso su alcuni appalti sospetti, rimane saldamente ancorato alla sua poltrona, dove è arrivato nel 2008, dopo aver ricoperto incarichi di rilievo nella società Trambus, poi confluita in Atac. (...) l'Atac stampa biglietti per autobus e metro. E i biglietti sono denaro. Chi ha le mani sui biglietti, ha le mani sulla cassa. E se quella cassa è in parte in chiaro e in parte in nero, perché quei biglietti sono in parte veri e in parte falsi, chi ha le mani sull’Atac ha di fatto le mani su una banca che batte moneta. La frode, a quanto pare, va avanti da 13 anni (già la giunta Veltroni ne era stata messa al corrente). Nel 2008 si sigla un patto bipartisan per la pacificazione e la continuità nella gestione dei trasporti capitolini tra centrodestra e centrosinistra in una cena a casa dell'ex ad dell'Ente Eur, Riccardo Mancini, braccio destro di Alemanno. Si blinda un sistema che consente la produzione di milioni di titoli di viaggio paralleli che non sono fatturati e che producono 70 milioni di euro l’anno». (Un bunker segreto stampa biglietti clonati. Così l'Atac ricicla fondi neri per la politica)
2) Ricordo così a memoria che esponenti del neonato Stato d’Israele vennero a Roma per chiedere il riconoscimento, De Gasperi li ricevette con queste parole: «Spiegatemi quale interesse ha l’Italia a riconoscere lo Stato d’Israele. Avete venti minuti». L’interesse nazionale era ancora una nozione che abitava certi governanti.
3) Ernesto Galli Della Loggia lo ha detto con eloquenza in un recente articolo su Corriere: «L’Italia non è più un solo Paese. Sgretolando lo Stato centrale e accaparrandosi le sue funzioni, un demenziale indirizzo politico federalista, al quale hanno aderito tutti i partiti, ha di fatto liquidato l’eguaglianza dei cittadini proclamata dalla Costituzione. Oggi ogni italiano paga tasse diverse, viene curato in modo diverso, gode di servizi pubblici, di mezzi di trasporto, di quantità e qualità diversa, studia in edifici scolastici degni o fatiscenti, a seconda che abiti a Sondrio o a Trapani, che sia un italiano del Sud o del Nord. I modi e i contenuti reali del suo rapporto concreto con la sfera pubblica dipendono in misura pressoché esclusiva solo da dove si è trovato a nascere e a vivere. Mentre di fatto le cricche politiche locali fanno ciò che vogliono, usando a loro piacere le enormi risorse a disposizione: salvo l’intervento necessariamente casuale di questa o quella Procura. (...) L’Italia poi è di chi se la vuol prendere. Chiunque, su un autobus o un treno di pendolari, solo che lo voglia (e lo vogliono in tanti) può non pagare il biglietto, può lordare, rompere, imbrattare con lo spray, intasare i gabinetti, minacciare i passeggeri, aggredire il personale. Per strada può fare dei cassonetti dell’immondizia e di qualunque altro arredo urbano ciò che più gli garba. In ogni caso l’impunità è garantita. E tanto più se si tratta dell’Italia dove vive la parte più debole della popolazione, quella che non prende l’Alta Velocità, che la notte non può permettersi un taxi: se si tratta cioè dell’Italia del Sud e delle periferie. Qui, poi, abitare una casa popolare - come questo giornale ha fatto sapere a tutti - può voler dire spesso essere costretti a stare perennemente barricati perché c’è sempre un prepotente pronto a impadronirsi con la violenza di ciò che non è suo, a intimidire, a minacciare. E quasi sempre senza che a contrastare la violenza ci sia l’intervento risoluto di chi pure avrebbe il dovere di farlo. (...) Le condizioni dell’economia sono certo un fatto grave. Ma molto più grave e importante è che troppi italiani si stanno convincendo dell’immodificabilità di tali condizioni perché le vedono saldarsi ai mille segni di un degrado, di uno sfilacciamento più generali al cui centro c’è un dato nuovo e inquietante: la latitanza dello Stato. Troppi italiani si stanno facendo l’idea che ormai quindi non possono più contare che su se stessi (che nessuno più cercherà il modo di far trovare loro un lavoro, penserà a dar loro una pensione, ad assicurargli con la sicurezza quotidiana, la certezza delle leggi e la sovranità politica). Che nessuno controlla e dirige realmente più niente, che nessuno è davvero al timone del Paese con in mente una rotta, e avendo non solo la visione e la determinazione, ma soprattutto gli strumenti e l’autorità necessari a farsi seguire». Ciò che qui è descritto è la conseguenza di una comunità che ha redito ormai da oltre mezzo secolo di reggersi nel mondo senza nozione di interesse nazionale.
4) La Svizzera ha per secoli dovuto fornire truppe mercenarie ai regni europei, data la miseria dei suoi montanari. Ma a questo mestiere da disperati i miserabili non erano abbandonati all’iniziativa privata dei capitani di ventura ed al «libero mercato» dei salari: erano i Cantoni – ossia lo stato – che autorizzava l’arruolamento e in pratica firmava i contratti con cui forniva i suoi cittadini per combattere per altri. Una chiarissima visione dell’interesse nazionale in condizione di necessità, che Machiavelli scoprì e rilevò con la dovuta ammirazione. Ancor più ammirevole perché i mercenari montanari erano guidati dai loro patrizi, strapelati ma appartenenti alla nobiltà locale che emigravano coi loro pastori, condividendone tutti i rischi, la disciplina e la vita. Chiunque critica gli svizzeri come un piccolo popolo limitato, o peggio, il romanesco che li deride perché sono prosaici e non fanno retorica, ricordi che la libertà svizzera è una libertà militare.



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