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E se fosse una rivolta contro il capitalismo globale?
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A Nuova Delhi, migliaia di persone hanno manifestato contro il governo per i rincari degli alimentari. E qui, non si tratta di musulmani contagiati dalla vampata che incendia Tunisia, Egitto, Libia, Yemen, Algeria, Marocco. In Iraq si scende in piazza contro la corruzione del governo Al-Maliki, contro la disoccupazione e la mancanza di servizi elementari (a cui il regime di Saddam Hussein aveva abituato gli iracheni); la Polizia spara, morti e feriti. In Iran s’è scesi in piazza di nuovo contro il regime degli ayatollah, per salari non pagati; in Cina, il regime terrorizzato ha risposto ad una misteriosa chiamata su internet per una rivoluzione dei gelsomini alla tunisina a Pechino, mettendo in piazza centinaia di poliziotti che hanno arrestato i pochissimi civili presenti, che forse stavano rispondendo alla chiamata e forse no. Si deve notare che nel Guizhou, nel novembre scorso, c’erano stati disordini studenteschi dovuti al rincaro delle mense scolastiche. Siria e Giordania hanno per ora scongiurato la rivolta aumentando i sussidi su generi alimentari, ossia mantenendone il prezzo artificialmente basso.

Su GoogleMaps si trova una carta impressionante
della serie di disordini, manifestazioni, rovesciamento di governi che stanno avvenendo nel mondo per rincari, contro la povertà e i privilegi dei parassiti di governo, contro i governi stessi.

Una domanda si pone: è qualcosa che avviene solo nel Terzo Mondo, o possiamo far entrare nel novero i violentissimi disordini e scioperi dei greci contro le austerità imposte dalla speculazione internazionale e dai suoi vigilantes globali? Bisogna chiamare araba la rivolta degli abitanti di Madison (Wisconsin) contro il loro governatore servo dei poteri finanziai? Entrano o no nel novero anche le furenti manifestazioni degli studenti inglesi contro i rincari delle tasse universitarie, qualche mese fa?

In Gran Bretagna sta espandendosi un movimento di base, in cui cittadini occupano sedi di banche e di multinazionali per protestare contro l’evasione fiscale legalizzata di cui godono le cosmo-corporations, mentre ai cittadini vengono imposti aggravi fiscali insopportabili. Il movimento, UK Uncut, comincia a venir imitato anche in USA. (UK Uncut: grassroots protests spread from Wales to Mississippi)

Un sospetto: forse non è una rivoluzione araba. E’ un rifiuto viscerabe globale, ancorchè in parte cieco, contro il capitalismo globale di rapina che ha messo i suoi errori e le sue follie a carico dei popoli.

Il fatto che la protesta si rivolga contro i governi e i regimi, è la conseguienza del fatto che governi e regimi si sono messi in stato di virtuale bancarotta per aiutare le banche, invece che aiutare i cittadini colpiti dalla crisi provocata dai banchieri.

Il bello (o il brutto) è che tali rivolte erano state previste e paventate. Per esempio, dalla Banca dei Regolamenti Internazionali, che nel dicembre 2008 metteva in guardia contro ulteriori salvataggi giganteschi delle banche, adducendo che tali salvataggi stavano trasferendo i rischi dalle ricche entità private alle nazioni, dunque trasformavano una crisi finanziaria in una crisi sociale e politica. Le Banche Centrali, accollandosi grandi porzioni dei rischi e dei fallimenti delle banche trafficanti in derivati tossici, e spendendo trilioni che non hanno, mettevano in pericolo i loro rispettivi Paesi. E governi.

I governi politici meritano le rivolte perchè hanno accettato, per corruzione, disonestà, ignoranza e servilismo verso i poteri forti, la cura dei banchieri centrali: stampare moneta da regalare alle banche decotte, anzichè assumere le misure necessarie per stabilizzare l’economia (fra esse, la punizione e la spoliazione legale dei giocatori d’azzardo bancarii).

La stampa di dollari a rotta di collo da parte della Federal Reserve è la causa primaria dei rincari dei generi alimentari sul piano globale. Ma in realtà hanno stampato moneta a rotta di collo anche Cina e India.





Il Giappone e la Bank of England





E persino, di nascosto, la Banca Centrale Europea



Le popolazioni sono dunque strette, anzi schiacciate, tra i rincari da inflazione e le misure di austerità che i governi impongono, specie in Occidente, per turare le falle dei loro deficit e debiti – che sono in realtà debiti della speculazione, accollati agli Stati secondo il ben noto principio privatizzare i profitti e socializzare le perdite.

Già nel febbraio 2009 l’agenzia di rating Moody’s avvertiva di imminenti social unrest in vari Paesi (e ne approfittava per declassare il rating di quei debiti pubblici). Ma già nel novembre di un anno prima, 2008, uno studio dello Army War College avvertiva che le forze armate dovevano prepararsi a «violent, strategic dislocation inside the United States», con «widespread civil violence» e «loss of functioning political and legal order», causati da «economic collapse».

Dennis Blair, il capo della National Intelligence, dal canto suo ha previsto «instabilità capaci di minacciare i regimi nei Paesi in via di siluppo», dovute alla «global economic crisis».

Zbigniew Brzezisnki avvertiva, nel giugno scorso, che «ci saranno conflitti crescenti fra le classi, e se la gente è disoccupata, si potranno avere rivolte». E aggiungeva: «Viviamo in un momento storico in cui lumanità nel suo complesso è divenuta politicamente più cosciente, e politicamente attiva ad un livello prima sconosciuto, e questa condizione provocherà grandi disordini internazionali». (The Powers-That-Be Are Terrified of the Mass Awakening Taking Place Worldwide)

Oggi gli aedi del sistema del Capitalismo terminale, constatano che gli arabi in rivolta non bruciano bandiere israeliane e invocano libertà, e si rallegrano: ecco, è la prova che vogliono essere anche loro occidentali, aderire anche loro ai nostri valori perenni: modernità, democrazia, libero mercato...

E’ la tesi di Fukuyama della «fine della storia». Dall’altra parte, bisogna forse guardarsi dall’illusione neomarxista di credere che le rivolte arabe siano rivoluzioni degli ultimi contro il capitalismo, insomma che rovesceranno il capitalismo per noi.

L’una e l’altra sono visioni di chi (forse inevitabilmente) continua a guardare il mondo con occhiali occidentali. Ma, come ha detto recentemente il generale Michel Aoun, arabo cattolico, capo dei patrioti libanesi cattolici ed alleati ad Hezbollah, «il dominio delluomo bianco sta per esaurirsi», anche nella dominazione dei suoi schemi ideologici.

Una cosa però si può rischiare di dire: le rivolte arabe e non solo arabe, hanno aperto una breccia nel Sistema del capitalismo terminale globale. Questo sistema che, nella sua follia nichilista ha preteso di fondare il mondo sull’economia speculativa, ha voluto eliminare la politica e il potere politico – da cui si sentiva giustamente minacciato. Ed ora, il Sistema perde il controllo e l’influenza su ampie fette del mondo, di importanza strategica per il sistema stesso in quanto petrolifere, proprio perchè si è privato dei mezzi politici di controllo e di previsione. I regimi satelliti del Sistema crollano uno dopo l’altro, e i politici e il potere mediatico occidentali, impotenti, temono esodi biblici o si rallegrano vacuamente della aspirazione dei popoli alla democrazia.

La verità nuda e cruda è che il Sistema ha perso la Turchia, sta per perdere il controllo sul Golfo e quindi la minaccia che esercita sull’Iran, ha perso il Libano, e non solo la Tunisia e l’Egitto. Ed ora perde Gheddafi, questo ambiguissimo nemico-complice petrolifero.

Vorrei fosse chiaro ciò che questo significa per il popolo-guida di questo occidentalismo malato, il piccolo, potentissimo e protettissimo Israele: da decenni opera per fare del Medio Oriente una zona di instabilità e di Stati-falliti su cui poter dominare con il terrore senza dover trattare; ora il suo sogno è esaudito, ma non secondo i suoi sogni. Ne è segno l’isterismo con cui Israele e i suoi amici hanno accolto la caduta di Mubarak. Del resto, il nuovo Egitto, ancora nemmeno formato, ha lasciato passare nel Canale di Suez due navi da guerra iraniane, cosa che non accadeva dal 1979.

Il crollo della credibilità americana nella regione sta cambiando le regole del gioco. Lascio la parola all’analista francese Pierre Vaudan:

«Approfittando della cattiva coscienza europea, dei calcoli strategici USA e di un terrorismo intellettuale scientificamente organizzato da Tel Aviv al cuore del Sistema, questa teocrazia mascherata sfugge da 60 anni ad ogni critica, nonostante la mostruosità della sua politica verso i palestinesi. Ma oggi, mantenere l’ombrello difensivo su Israele è difficile. Se lo Stato ebraico insiste a voler giocare solo la carta della violenza e dell’oppressione, cadrà rapidamente quanto è stato rapidamente ed artificialmente costruito». (L’effondrement du Système en mode turbo)

Le rivolte arabe non saranno anti-israeliane, ma sono post-israeliane. Hanno lasciato indietro lo staterello super-armato, esposto nella sua finzione di Stato ebraico, e mostrandolo per quello che è alla luce della cruda verità: piccola escrescenza di una «dominazione delluomo bianco che sta alla fine», e di un Sistema che ogni popolo sente ormai per quello che è.

Un Sistema che assoggetta i popoli – anzitutto i propri – alla dittatura dei mercati, al darwinismo sociale, all’avidità senza fondo degli azionisti. Un Sistema ormai senz’anima, senza visione e senza umanià. Che ha promesso benessere globale e invece ha prodotto precarizzazione, iniquità sociali e reddituali mai viste. E inoltre: distruzione ambientale, malattie sociali assurde da iper-consumo (obesità, cancro, diabete), crisi sanitarie (pensate alla speculazione sui vaccini, al falso allarme pandemia lanciato dall’OMS al soldo di Big Pharma; ai delitti di una industria farmaceutica ridotta a fabbrica di profitti). Monsanto e i cibi geneticamente modificati, il petrolio che diventa più raro e difficile da raggiungere, la contaminazione, le austerità, le tasse ai poveri per salvare gli emolumenti e i bonus dei ricchi. E il tutto gabellato come democrazia e libero mercato.

Il Sistema che verrà dopo, e che non sarà l’uomo bianco a fabbricare, non sappiamo come sarà. Ma questo lo conosciamo, e il fatto che vi restiamo attaccati e temiamo di perderlo, ci condanna di fronte alla storia e a Dio.



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