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Divisi e senza strategia. Ecco perché l’Italia fa flop
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Potevamo esportare in Cina, ma non sappiamo "fare sistema" e veniamo scavalcati da Francia e Germania. Storia dei fallimenti commerciali italiani in Estrem Oriente

«In Cina avete un grande potenziale ma non sapete fare sistema, non avete logistica e canali distributivi al livello dei concorrenti», che poi sono quasi sempre Francia e Germania.

Nelle parole di un diplomatico di Pechino si condensa il solito vizio italico. La Cina è uno specchio immenso che riflette il carattere nazionale sul mercato più grande del mondo. Si prenda l’agrifood: la cultura del cibo e del bere bene italiano da soli non bastano.

A Pechino tutti si ricordano ancora il flop di Piazza Italia. Il centro commerciale aperto nel lussuoso quartiere di Chaoyang nel settembre 2008 doveva essere la nostra vetrina agroalimentare, prima tappa di un’espansione a Shanghai, Hangzhou e Tianjin. A fine ottobre era venuto persino Silvio Berlusconi a benedirlo.

Peccato che in appena 14 mesi si sia trasformato in uno dei più grandi crac del made in Italy. Nel consorzio c’erano alcuni tra i più importanti marchi italiani: Crai, Cavit vini, il consorzio Grana Padano, San Daniele Service, Conserve Italia e Frantoi Artigiani, riuniti sotto la sigla Tac (Trading Agro Crai). L’idea era corretta: fare massa critica e mettersi in una location patinata per spingere il nostro agroalimentare.

Pie illusioni. Piazza Italia è subito un deserto e da luglio 2009 smette di pagare affitti, stipendi e fornitori. Il consuntivo è un bagno di sangue: Tac perde sei milioni e fa debiti per 4,5. Un misto di spese folli, location sbagliata, presunzione e sottovalutazione del mercato cinese. Sugli scaffali c’era infatti la summa disordinata del nostro «food», divisa tra un supermercato Crai, un ristorante, un self-service, una caffetteria e un’enoteca. Una formula che non ha mai attecchito nella classe media pechinese. «La brutta figura italiana: facevate pagare generi da supermercato, pur ottimi, a prezzi di boutique...», ha riassunto il «China Daily» nei giorni caldi del crac.

Piazza Italia è certamente il flop più grande ma non è l’unico caso di aziende o catene del ramo agroalimentare che hanno dovuto chiudere bottega. Negli ultimi tempi è successo a Caffè Parma, Gusto Menta, L’Isola, Oro. Identici i motivi: target di clientela e location sbagliati, piani di business faraonici, logistica debole. Si salvano i mini corner Lavazza e Illy ma sono, appunto, piccoli numeri.

Sul vino la situazione non è migliore. Siamo i campioni del mondo, ma da queste parti non si nota affatto. Il nostro export in Cina aumenta a tre cifre ogni anno solo perché si parte da quasi zero. Nel 2010 sono state commercializzate bottiglie per 40 milioni di euro, mentre complessivamente le esportazioni italiane di vino ammonta a 4 miliardi. In pratica solo l’uno per cento delle nostre bottiglie finisce sulle tavole cinesi.

Girando per Pechino lo si capisce. Al ristorante all’ottantesimo piano del China World Summit Wing, la nuova torre da 300 metri dove ha sede anche Apple China, c’è una mega cantina piena di champagne e vini francesi, californiani, australiani, ma mancano i grandi italiani. Al ristorante in cima al Park Hyatt è più o meno lo stesso. Alla fiera del vino di Pechino il padiglione dei francesi è tre volte più grande di quello italiano e sugli scaffali dei market si trovano Zonin, Prosecco Valdo, Villa Antinori, Gaia, ma il loro spazio è piccolo rispetto ai cileni e agli australiani e le bottiglie costano mediamente di più.

«Il 60 per cento del vino importato in Cina è francese», spiega Stefano Latorre, a Pechino dal 2003, dove con la sua Karpek opera come trader nel settore food and beverage. «Ma se parliamo di spumanti e champagne la quota arriva al 75 per cento».

I francesi sono sbarcati in Cina vent’anni fa con Sopexa, l’azienda di promozione pubblica dell’agrifood, e hanno continuato ad investire grosse risorse su marketing e pubblicità. Il resto lo fanno i loro canali di grande distribuzione, Carrefour e Auchan. «Il risultato è che oggi per i cinesi la parola vino coincide con il trinomio rosso, francese e bordolese», continua Latorre. Sul top di gamma i «grand crus» sono diventati uno status symbol. Una bottiglia di Château Lafite annata 2008 può costare più di duemila euro e i cinesi ricchi amano regalarlo nelle occasioni speciali.

Non basta. «La Francia è fortissima anche sui vini economici, il più delle volte marchiati con una bella etichetta di castello bordolese spesso fasullo e distribuiti a due euro nelle grandi aree urbane». Il nostro Chianti o il Sangiovese sono più buoni, ma costano troppo.

Insomma, messa a confronto con tedeschi, francesi e americani, in Cina, proprio in un segmento strategico come l’agrifood, esce fuori la debolezza di fondo del made in Italy: l’incapacità di industrializzare e distribuire le nostre eccellenze. Abbiamo inventato la pizza, ma la catena mondiale è Pizza Hut; siamo i migliori gelatai, ma il colosso è Häagen-Dazs; siamo i re del caffè, ma la commercializzazione la fa Starbucks.

Tra Pechino e Tianjin il fenomeno si nota facilmente. «In Cina il mordi e fuggi è un illusione», continuaLatorre. «Purtroppo non abbiamo grandi gruppi che fanno economie di scala, arrivano le singole aziendine agricole, spendono 3-4mila euro per gli stand alle fiere sperando di trovare il distributore bravo che ti piazza un po’ di bottiglie. E alla fine se ne tornano in Italia sconfitti, con la coda tra le gambe».

Fare business coi cinesi è snervante. Un gioco continuo di dissimulazioni. «Ma le imprese italiane spesso non lo capiscono...»

MARCO ALFIERI

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