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Jumbo Obama Split
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Gli Stati Uniti passeranno probabilmente alla storia meno come superpotenza militare che come potenza sovversiva, senza precedenti per efficacia. Le sue forze armate, di costo inaudito nella storia, mediocremente guidate, sembrano ficcarsi in un pantano dopo l’altro; ma i suoi organi di sovversione, in compenso, contano straordinari successi nella destabilizzazione di interi Stati od aree.

La «guerra al terrorismo globale» di Bush  è stata ridenominata sotto Obama «overseas contingency operations» (qualcosa come «operazioni all’estero secondo i casi»), commenta il giornalista Pepe Escobar, ma il senso è immutato: la creazione e il mantenimento di un  vastissimo «arco di instabilità» dalla Cina al Corno d’Africa, fino al Sudamerica. E in questo, con notevole efficacia. «Mission accomplished», potrebbe dire Obama.

Il povero Obama, in realtà, c’entra poco. Anche lui, come l’apparato militare di cui è nominalmente comandante supremo, s’infila in un pantano dopo l’altro: non si è ancora districato dalla riforma sanitaria (la sua promessa elettorale, che rischia di colare a picco) che già è nelle peste per l’Afghanistan: ha voluto continuare una guerra non sua e che poteva (o doveva) sconfessare, ed oggi – dopo aver fatto il suo «surge» – si trova in faccia al disastro. Ha contro persino i parlamentari del suo partito democratico, che minacciano di votare contro nuovi stanziamenti per la guerra afghana, se Obama non adempie alle promesse di ritiro dall’Iraq, cosa attualmente quasi impossibile, dato l’aumento tragico della violenza incontrollata nell’ex pacifico regno di Saddam.

E sulla riforma sanitaria, democratici e repubblicani sono uniti: a dirne peste e corna. E’ forse un caso storico divertente: il popolo americano che ha accettato senza fiatare di farsi guidare da Bush, Cheney, Israeli Lobby nelle loro guerre apocalittiche ed apocalittiche crisi finanziarie, adesso è invelenito contro un Obama che (nonostante tutto) è un po’ più umano, e lo chiama già «socialista», che in USA è un’etichetta tombale. La storia giudicherà un simile popolo.

Ma intanto è chiaro che nessuno obbedisce al povero Obama, e che gli apparati burocratici di guerra e di sovversione continuano il loro programma, ciecamente, in modo automatico.
E’ un programma che il sarcastico Escobar chiama «splittismo», da «split», lacerare, frammentare (1). Hanno già fatto a pezzi l’Iraq, per obbedienza alle direttive israeliane (il programma apparve sulla rivista ebraica «Kivunim», che si traduce come «Direttive»), ed oggi, forse, per impedire alla Cina l’accesso al petrolio iracheno. Stanno facendo a pezzi il Pakistan, con l’intento di creare un Balucistan autonomo, e quindi negare a Pechino l’accesso al porto di Gwadar, che i cinesi hanno pagato profumatamente per adattarlo a navi di grande pescaggio, e che si trova proprio nell’area baluci del Pakistan.

Le torbide e confuse azioni in Afghanistan non hanno probabilmente altro scopo (o altro esito) che quello di spezzare la fragile unità del Paese, con l’emergere di un «Pastunishtan» abbastanza amico o complice da consentire la realizzazione dell’oleodotto trans-afghano (era l’intento iniziale dell’invasione, ancorchè inconfessato) che dovrebbe tagliar fuori la Russia dai transiti del greggio iracheno. Natguralmente, stanno accanitamente promuovendo la spaccatura dell’Iran, pagando, armando e addestrando i gruppi sovversivi in Khuzestan e nel Sistani-Balucistan iraniano. La Somalia, sono riusciti a spaccarla in briciole irrecuperabili, riuscendone a far rinascere la pirateria.

 Delle «rivoluzioni colorate», intese allo «splitting» della Russia dalle repubbliche e satelliti ex-sovietici, non è nemmeno il caso di parlare. Se non per dire che, mai contento dei risultati, il Pentagono ha inviato il 21 agosto il generale dei marines James Conway in Georgia, per curare l’addestramento e il riarmo delle truppe di Shakaasvili: da mandare in Afghanistan a farsi le ossa, in vista della prossima guerricciola con la Russia.

Non basta. Hanno tentato di spaccare la Bolivia, secondo le accuse del governo boliviano, per fare spazio alle multinazionali USA che si lamentano che il Sudamerica è stato trascurato. La novità dell’era Obama pare essere infatti questa: un nuovo interesse alla sovversione in Sudamerica. Con la rinascita (luglio 2008) della Quarta Flotta (quella addetta ad assoggettare l’America del sud) e la costruzione accelerata di sette basi militari in Colombia, Stato-satellite eletto a centrale della sovversione anti-Chavez ed anti-Lula.

La Colombia ha ricevuto dal Pentagono 50 miliardi di dollari per attuare il «Plan Colombia», varato da Clinton nel 2000 col pretesto della lotta alla droga; senza alcuna esitazione nonostante per lo stesso Pentagono il presidente Alvaro Uribe, scelto dagli americani, sia stato un noto collaboratore e referente politico del Cartello di Medellìn.

Secondo Escobar, il modello del «Plan Colombia» è stato applicato nei Balcani («split» del Kossovo, che come la Colombia è paradiso nel narcotraffico e sede della più titanica base USA in Europa); ed è precisamente quello che viene applicato nel cosiddetto «AfPak». Ne è indizio il fatto che William Wood, già ambasciatore USA in Colombia, è stato destinato nell’aprile 2007 in Afghanistan ad organizzare «un’anti-guerriglia mascherata da guerra alla droga, ossia un Plan Colombia» per l’Asia. Non a caso l’Afghanistan, sotto controllo americano, è diventato la Colombia asiatica, produttore del 90% dell’oppio mondiale.

Può essere un indizio sinistro il fatto che l’ammiraglio James Stavridis, attuale comandante supremo della NATO, sia il capo del Southern Command (America Latina), ossia un esperto del Plan Colombia. La sola parte del mondo dove la NATO non è ancora impegnata, nota Escobar, è il Sud America. Ma chissà, col tempo...

Insomma, se lo «splittism» è una strategia, è un successo addirittura lusinghiero per Washington e i suoi apparati. Il che non è strano, perchè il caos è più facile da ottenere che l’ordine; per sfregiare La Gioconda con due baffoni, non occorre essere pittori al livello di Leonardo.

E noi europei? Alla scuola americana e della strategia «attiva» del generale McChrystal, gli alleati minori della NATO hanno già avuto il loro battesimo di vergogna (che erano riusciti a scongiurare in sette anni d’occupazione), quando un colonnello tedesco, pochi giorni fa, ha ordinato il bombardamento dei due autocarri pieni di benzina catturati da Talebani, nella provincia di Kunduz, ammazzando un centinaio di civili che succhiavano il carburante: danni collaterali. Una «specialità» nella conquista dei cuori e delle menti, prima propria soltanto delle fantastiche truppe USA. La cosa non è certo popolare nell’opinione pubblica tedesca, indottrinata da decenni a vergognarsi delle «atrocità naziste».

E l’Italia? Escobar cita un blog italiano di Giancarlo Chetoni, da cui ha appreso che l’impegno in Afghanistan costa all’Italia 1.000 euro al minuto, 525 milioni di euro l’anno. Nonostante ciò, l’Italia s’è impegnata a portare le sue truppe in Afghanistan, in quattro anni, dagli attuali 3.250 uomini aoltre 6.000, praticamente un raddoppio (2).

Per la liberazione dell’Afghanistan, l’Amministrazione Bush ha bruciato già 179 miliardi di dollari, e Obama ne vuole ancora dal Congresso e dai contribuenti in piena crisi finanziaria. Gli alleati della NATO ne hanno gettati finora 102 miliardi. Sono circa 9 mila dollari per ogni afghano, bambino, donna, vecchio imam; niente male, se li avessero ricevuti brevi manu. Ma essendo stata questa pioggia d’oro elargita sotto forma di acciaio, tungsteno e uranio impoverito, dopo sette-otto anni di «aiuti», ancora metà della popolazione afghana tira avanti con meno di due dollari al giorno.

Per quanto riguarda l’Italia, Escobar ci ricorda che all’inizio ci siamo scelti la missione - per cui  abbiamo speso a suo tempo altri 52 milioni di euro - di  assistere lo Stato afghano nella «riforma del suo sistema giudiziario»: proprio noi, che possiamo vantare un sistema giudiziario che ha un arretrato di 3,5 milioni di processi penali, e 5,4 di processi civili. Non c’è da stupire che la corruzione nel governo collaborazionista afghano sia galoppante, e divori quasi tutti gli «aiuti alla ricostruzione» che l’Unione Europea getta in Afghanistan. Anzi, adesso l’US Agency for International Development (USAID) ha scoperto che anche i Talebani, nelle zone che controllano, si ritagliano normalmente una parte degli aiuti internazionali che arrivano nel Paese. Dopo sette anni di occupazione, quasi otto, c’è da complimentarsi.

Si aggiungano ai 52 mila soldati e ai 68 mila «contractor» mercenari già dispiegati gli altri 45 mila uomini che il generale McChristal esige per il «surge» di questa guerra che Obama ha definito «necessaria», e presto le truppe occidentali in Afghanistan supereranno il numero delle truppe che l’URSS impegnò in Afghanistan negli anni ‘80: precedente che qualche osservatore americano tende a giudicare sinistro (la sconfitta in Afghanistan ha distrutto l’impero sovietico; distruggerà quello americano?). I russi persero 15 mila uomini e non vinsero, gli americani (ufficialmente) fino ad oggi, solo 5 mila. Ma lasciamo tempo al tempo.

Perchè Washington ha chiarito che spenderà tutto il tempo necessario, e tutti i miliardi di dollari opportuni, anche a carico degli alleati NATO, per arrivare a quella che potrà definire «vittoria»: sia o no la costruzione di basi permanenti contro Cina e Russia, sia la sospirata conduttura petrolifera trans-afghana, sia semplicemente lo splitting dell’Afghanistan nelle sue numerose etnie, non si sa.
Ma certo è che l’ex capo della NATO scelto dagli americani come sempre, Jaap de Hoop Scheffer, ha dichiarato che l’Occidente (saremmo noi) resterà in Afghanistan a battersi per 25 anni. Il capo di Stato Maggiore britannico, generale David Richard, ha corretto: 40 anni. Si può immaginare l’Alleanza Atlantica con le sue opinioni pubbliche, e i loro problemi economici, combattere pazientemente i Talebani, dissanguandosi in mezzi ed uomini, ancora nel 2050?

No,naturalmente. Un giorno o l’altro, da qui ad allora, assisteremo all’ultimo, finale successo sovversivo americano: lo «splitting», la spaccatura della NATO, quell’alleanza che proprio loro, anzichè azzerarla dopo la scomparsa del suo avversario Patto di Varsavia, vollero riposizionare alle guerre neo-coloniali e neocon. Allora sarà, veramente, mission accomplished.

Ampio Post-Scriptum.

Mentre concludevo questo articolo, su Asia Times ne è comparso uno nuovo, del noto giornalista Tom Engelhardt, che fornisce una «metrica» del «successo» americano in Afghanistan. Ecco qualche dato:

Prodotto Interno Lordo afghano: 23 miliardi di dollari (pari a quello della città di Boise, Idaho, con 190 mila abitanti). Almeno 3 miliardi del PIL vengono dall’oppio.

Bilancio annuale dello Stato afghano: 600 milioni di dollari.

Costo della forza di 450 mila militari e polizia afghani che i generali USA si propongono di addestrare: cinque volte il bilancio dello Stato. Numero attuale dei soldati dell’Esercito Nazionale Afghano effettivamente operativi, presenti, che non hanno disertato: 34 mila. Percentuale dei poliziotti tutt’ora incapaci «di condurre operazioni in modo indipendente»: 75%.

Salario mensile di un agente della polizia nazionale afghana: 110 dollari (4 al giorno). Salario che i Talebani pagano ai loro combattenti: fra i 4 e gli 8 dollari al giorno (spesso la sola occupazione disponibile: la disoccupazione è al livello del 40%).

Costo di un kalashnikov: 400-600 dollari. Di nuovo modello: 1.100 dollari.

Costo di un chilo di eroina in Afghanistan: 2.500 dollari (nelle strade di Mosca, si vende per 100 mila dollari).

Costo della tangente richiesta dai poliziotti per contrabbamdare merce fuori del Paese: 20 dollari per un’arma, 100 per ogni chilo di eroina, 1.000 per ogni tonnellata di hashish. Con 150 dollari di sovrapprezzo, potete far giungere un kalashnikov nel sud, dove si combatte.

Numero degli afghani profughi in Iran e Pakistan: 3 milioni. Numero di basi di Al Qaeda scoperte in Afghanistan: 0.

Costo di un gallone di carburante trasportato lungo le minacciate linee di rifornimento, quando arriva ai militari occidentali: 100 dollari.

Consumo di carburante dei Marines: 800 mila galloni al giorno. Consumo per condizionare gli alloggiamenti dei Marines in estate, e scaldarli d’inverno: 448 mila galloni.

Costo annuale dell operazioni belliche USA nel 2002: 20,8 miliardi di dollari. Nel 2009: 60,2 miliardi. Ulteriori fondi richiesti da Obama al Congresso per il 2010: 68 miliardi. Costo totale fino ad oggi: 228,2 miliardi di dollari, ossia 10 volte il PIL dell’Afghanistan.

Fondi spesi dal 2001 per la «ricostruzione»: 38 miliardi di dollari, più della metà spesi per addestrare ed equipaggiare le forze di sicurezza afghane.

Soldati americani uccisi nel 2001: 12. Soldati uccisi nel 2009 fino ad ora: 186. Numero totale dei combattenti occidentali  uccisi nel solo 2009: 311.

I due peggiori mesi in quanto a perdite della coalizione dal 2001: luglio (71 morti) e agosto (74) del 2009.

Aumento percentuale degli attacchi contro le forze occidental attraverso ordigni espolisivi improvvisati (IED): 114% nel 2009 rispetto al 2008. Aumento dei morti provocati da IED nel 2009, rispetto al 2008: circa 600%.

Numero dei civili afghani, secondo l’ONU, che sono morti come «danni collaterali» tra gennaio e luglio 2009: 1.013, un aumento del 24% rispetto allo stesso periodo del 2008. Numero di bombe americane lanciate nei primi sei mesi del 2009: 2.011, un calo del 24%, probabilmente grazie alle nuove direttive di limitare i bombardamenti aerei per ridurre «danni collaterali» ai civili).

Percentuale di droni americani, aerei senza pilota per spionaggio o bombardamento mirato, attualmente impegnati in Afghanistan: 66%. L’altro 33% è impegnato in Iraq. Eccetera, eccetera. Potete leggere il resto della «metrica» della vittoria prossima ventura su Asia Times (3).





1) Pepe Escobar, «Us arc of instability just get bigger», Asia Times, 3 settembre 2009.
2) Pepe Escobar, «Enduring Freedom until 2050», Asia Times, 9 settembre 2009.
3) Tpm Engelhardt, «Afghanistan by the numbers», Asia Times, 10 settembre 2009.



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