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Italian Design
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«Il ‘bello’ non è più neppure nominabile oggi. Un edificio è giudicato sulla base della fama dell’architetto che ne è l’autore».
Ha proprio ragione il professor Giovannelli a usare queste parole per delineare la concezione di bello odierna.
Mutatis mutandis uno dei metodi che il mondo industriale manifatturiero ha per aggiungere valore ad un prodotto è quello di agire sulla forma, sul concetto di estetica che esso provoca nell’immaginazione del cliente.
Attraverso questo stato emozionale indotto nel potenziale acquirente l’oggetto diventa fonte di desiderio, a maggior ragione se c’è qualche personaggio famoso che lo crea o lo trova «di tendenza».

Sto parlando di prodotti sfornati da quel mondo chiamato industria del design. Oggi si vende grazie al design, il design fattura, il design ci rende la vita più bella, il design ci rende tutti «up to date».
Dietro questo mondo ci stanno una miriade di personaggi più o meno strani con idee più o meno balzane che hanno una visione del mondo a dir poco personale:
i designers (che sono quasi tutti stranieri).
Il loro braccio esecutivo sono le industrie che mettono in produzione queste idee e che vengono decantate come produttrici del «Made in Italy», aziende i cui proprietari si autodefiniscono punta di diamante della vera innovazione dei prodotti.

Diciamo subito che uno dei tratti che contraddistingue questo mondo è una sorta di bullismo intellettuale che ha la supponenza e prepotenza di imporre agli altri il proprio modo di pensare e interpretare la realtà non tollerando altre forme estetiche se non quelle da esso stesso generate.
Anche in questo mondo c’è da fare un distinguo.
Esiste infatti un design di massa, quello da dare in pasto alla gente comune e che può entrare nelle case di tutti ingentilendo il nostro mondo circostante e rendendoci un po’ tutti esperti in bricolage e falegnami ed uno elitario, che rende la nostra casa esclusiva da mostrare come un trofeo della capacità dell’acquirente snob di penetrare a fondo il messaggio che il designer di turno ha voluto dare. Una sorta di trasnfert culturale che va molto di moda nei salotti bene delle città.
Sono questi i prodotti più interessanti perché, tralasciando quasi sempre la loro praticità ed utilità, sconfinano nel mondo del ridicolo rendendo ridicoli non solo chi li utilizza ma soprattutto che li fabbrica.

L’utente pensa infatti che dietro questi prodotti così esclusivi ci siano chissà quali abilità tecniche e tecnologiche, fior di professionisti specializzati con competenze profonde nei più disparati settori merceologici, macchinari di ultima generazione. Si immagina che la ricerca per arrivare a queste forme così perfette sia un percorso tortuoso e irto di difficoltà progettuali.
Design vuol dire del resto progettare, mettere in campo conoscenze, trattare e forgiare materiali nobili operando una transmutazione tra la materia e idea.
Ebbene nulla di tutto ciò.

Sono aziende completamente prive di contenuti sia tecnici che umani, con dipendenti che hanno una scolarizzazione medio bassa e con degli imprenditori che dimostrano una legge empirica che evidenzia come la loro capacità intellettuale sia inversamente proporzionale alla cilindrata della macchina che hanno nel parcheggio.
Se si fa un giro nella loro struttura «produttiva» si può notare che il macchinario tecnologicamente più avanzato è un carrello elevatore o, se l’azienda vuole darsi un tono particolare, ha un sistema di pallettizzazione automatico che viene illustrato come ultimo ritrovato di tecnologia antropomorfa.
Il resto è vuoto.
Non si produce nulla internamente, si assembla in Italia solo lo stretto necessario spesso per far scena sui clienti visitatori, controllando in modo superficiale il prodotto in partenza.

Se si passa alla parte più delicata, quella che viene enfaticamente detta «concept del prodotto» ci si accorge che il designer passa l’idea in modo molto approssimativo e superficiale ignorando spesso dettagli tecnici costruttivi così
i «tecnici» aziendali che ne sanno ancora meno non fanno altro che ribaltare i problemi costruttivi ai poveri fornitori esterni che devono, di fatto, interpretare e realizzare il prodotto.
E’ per questo motivo che spesso questi oggetti si rompono con una facilità estrema o presentano difetti non appena si iniziano a utilizzare con una certa frequenza.
Sappiate pertanto che l’oggetto che eventualmente tenete in casa come esempio di innovazione di punta del nostro «Made in Italy» viene di fatto realizzato da artigiani che insegnano e ridisegnano il prodotto ai «tira righe» di queste industrie attraverso un processo osmotico inverso di conoscenza.

I materiali poi che vengono utilizzati (il «senso materico dell’oggetto» come diceva un industrialotto del settore) sono spesso di scarsa qualità, materiali importati dalla Cina e rivenduti come esclusivi e creati solo per quell’azienda, con specifiche qualitative pure certificate! (so di un’azienda che utilizzava gli involucri in plastica dei CD riciclati per realizzare i propri prodotti; quando i clienti hanno iniziato a protestare per l’odore che emanava l’oggetto l’azienda ha risposto che era una delle peculiarità del prodotto).
Il difetto diventa sinonimo di esclusività.
In questo campo si è riusciti a sovvertire il concetto più elementare di qualità ovvero di conformità all’utilizzo del prodotto.

Dulcis in fundo all’imprenditore non resta che vendere a caro prezzo questi oggetti ( quando vedete il prezzo di uno di questi capolavori sappiate che per calcolare il costo del venduto dovete dividere il prezzo per almeno un coefficiente 7 a questo applicare un ulteriore sconto del 35%) agli allocchi che ci cascano e si identificano con essi, come dimostrano gli incrementi costanti di fatturato delle imprese di questo settore.

Ingegner Polastri Ludovico


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