Don Giuseppe De Luca e Romana Guarnieri (2)
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La complessa figura di don De Luca

Prologo

Nel primo articolo mi sono soffermato sulla personalità di Romana Guarnieri perché ha espresso le proprie idee religiose in maniera più esplicita di don Giuseppe De Luca, essendo una laica ed avendo avuto più libertà del sacerdote lucano in questo campo. Inoltre non bisogna trascurare le sue origini olandesi-protestantiche, teosofiche ed antroposofiche, che le hanno dato una forma mentis fortemente “laica” per non dire laicistica.

In questo secondo articolo cercherò di studiare la vita e le idee del sacerdote lucano, direttore spirituale e soprattutto maitre à penser della Guarnieri, per vedere se e in qual maniera esse si allontanino dalla dottrina cattolica, senza dimenticare che il loro rapporto finì “per rovesciare addirittura il ruolo di direttore e diretta, lasciando a Romana, in più di un’occasione, il compito di guidare il prete De Luca” (V. Roghi, a cura di, Giuseppe De Luca – Romana Guarnieri. “Tra le stelle e il profondo”. Carteggio 1938-1945, Brescia, Morcelliana, 2010, p. 8).

Il mio lavoro non è facile perché don De Luca, che aveva un carattere alquanto eccentrico e poteva sembrare un naif, ma in realtà non lo era - date le importanti  amicizie che era riuscito a stringere e i rapporti abituali che aveva saputo coltivare con altissime personalità (difficilmente contattabili dalle persone comuni) della Chiesa e del mondo laicista e socialcomunista e dato il posto assai elevato al quale era riuscito a giungere nel mondo della cultura letteraria ed estetico/spirituale (Giovanni XXIII lo voleva nominare Prefetto della Biblioteca Vaticana e crearlo cardinale nel 1962, però la morte prematura, ad appena 64 anni, non lo permise[1]) - è stato molto prudente nell’esprimere il suo pensiero, ma dalle sue frequentazioni, dai suoi comportamenti, dalle sue lettere private che son state pubblicate postume, dai suoi gusti estetico/letterari, dal suo rapporto alquanto singolare con la Guarnieri e dai suoi studi si riesce a capire qualcosa della sua personalità e mentalità, che si allontana anch’essa dalla dottrina tradizionale della Chiesa, pure se in maniera più criptica e sfumata della sua figlia spirituale Romana Guarnieri.

La vita

Don Giuseppe nacque a Sasso di Castalda (Potenza) il 15 settembre 1898 da una famiglia umile e povera. Entrò in seminario a Ferentino (Frosinone) nel 1907 a 9 anni, nel 1909 venne a Roma e si trasferì nel Seminario minore del S. Apollinare, un Seminario prestigioso da cui uscivano i quadri della Chiesa romana, per esempio ne uscirono Angelo Roncalli (col quale strinse una forte amicizia), Alfredo Ottaviani e Domenico Tardini[2] (coi quali ebbe solo rapporti di conoscenza, essendo stato loro allievo, ma non di vera amicizia e d’identità di vedute, come vorrebbe far credere, depistando, la Guarnieri per rendere ancora più criptica la sua figura). Nel 1914 passò al Seminario maggiore presso S. Giovanni in Laterano ove ebbe, dal 1917 sino al 1921, come docente di storia ecclesiastica monsignor Pio Paschini, che in séguito diverrà Rettore dell’Università Lateranense e trasmise al De Luca un grande amore per la storia.

Tuttavia «Il De Luca cercò i suoi maestri fuori del Seminario [sfruttando, però, abilmente le conoscenze che aveva fatto in esso, ndr], e li scelse per una base solida di studi alla sua vocazione. […]. Egli non dava un giudizio positivo degli studi religiosi che si facevano in Italia nel primo decennio del secolo [sotto San Pio X, ndr]. Considerò “rigidissime, spesso repressive e più di una volta liquidatrici” le misure adottate dalla S. Sede contro il Modernismo (G. De Luca – G. Prezzolini, Carteggio, Roma, 1975, p. 51). Gli anni che seguirono alla condanna e alle misure “rigidissime” gli apparvero di “quiete paurosa” (Il Popolo, 7 marzo 1925), giudizio che confermò nel 1952 [10 anni prima di morire, ndr]: “L’Italia nel risveglio degli studi religiosi, determinatosi nel secondo Ottocento, rimase addormentata… in Italia di intelligenti in materia di studi religiosi non se ne videro ieri e non se ne vedono oggi se non molto pochi”» (G. De Rosa, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1995, vol. 38, pp. 353-354, voce De Luca, Giuseppe).

Ciò che colpisce negativamente è 1°) il fatto di cercare i maestri fuori del Seminario, ossia non nel campo della cultura ecclesiastica, ma in quello della cultura laica e laicistica (Benedetto Croce, le cui opere furono messe tutte all’Indice dei libri proibiti, è uno di essi) affinché dessero - non si riesce a capire come -  un solido fondamento alla sua vocazione religiosa e sacerdotale; 2°) il disprezzo mostrato verso le misure adottate da San Pio X contro l’eresia modernista, giudicate “rigidissime, repressive, liquidatrici e [generatrici di] una paurosa quiete”; 3°) la mancanza di stima verso i teologi italiani della fine dell’Ottocento e dei primissimi anni del Novecento, tra cui spiccano i padri Domenico e Serafino Sordi, p. Luigi Taparelli D’Azeglio,  il card. Giuseppe Pecci, p. Matteo Liberatore, don Gaetano Sanseverino, p. Domenico Palmieri, p. Giovanni Perrone, il card. Giovanni Battista Franzelin, il card. Tommaso Zigliara; mons. Amato Masnovo, mons. Francesco Olgiati e p. Guido Mattiussi, che son stati il fior fiore della rinascita del neotomismo italiano[3].

De Luca fu ordinato sacerdote il 30 ottobre del 1921; nell’autunno del 1923 fu nominato Cappellano (sino al 1948) dei “poveri vecchi” in piazza San Pietro in Vincoli, dove iniziò a raccogliere i libri di quella che sarebbe diventata una biblioteca fornitissima di testi antichi e moderni di storia della spiritualità non solo cattolica.

Nel 1920 si iscrisse al corso di paleografia e diplomatica del Vaticano e alla Facoltà di Lettere dell’Università “La Sapienza” di Roma “ove strinse amicizia con Giuseppe Bottai, Giovanni Gentile ed Ernesto Buonaiuti” (G. De Rosa, cit., p. 354), ma non prese mai la Laurea in Lettere, “preferendo la frequentazione assidua delle biblioteche e degli archivi” (Ivi).

Anche qui lascia perplessi la sua amicizia con Giovanni Gentile: il filosofo dell’Idealismo estremo (l’Attualismo) e con lo storico capofila del modernismo italiano e, perciò, scomunicato don Ernesto Buonaiuti. Invece è molto significativa e tutta da studiare l’amicizia con Bottai, che affronterò nel prossimo articolo.

Luisa  Mangoni  nel suo In partibus infidelium, don Giuseppe De Luca: il mondo cattolico e la cultura italiana del Novecento (Torino, Einaudi, 1989) parla di simpatie e tentazioni buonaiutiane del De Luca (p. 29, 61, 63 e 79), il quale, così lontano dalla cultura ecclesiastica ufficiale e così attento come il Buonaiuti alla modernità in tutti i campi (artistico, letterario, estetico, filosofico, teologico, spirituale e religioso), avrebbe vissuto “nel suo intimo”, o - come avrebbe detto la Guarnieri - “in segreto”, alcune tendenze che in quegli anni erano sospette di modernismo. Il card. Basilio Pompilj[4] proprio per queste tendenze ostacolò il chierico De Luca, per quanto era in suo potere, affinché non arrivasse all’Ordinazione sacerdotale (cfr. Lettera di De Luca a Papini, 30 agosto 1928).

In breve la sua cultura era veramente impregnata di princìpi incompatibili con la dottrina cattolica, con la filosofia perenne e la teologia scolastica. Tuttavia non bisogna trascurare una caratteristica del De Luca, personalità “bifronte” dal punto di vista delle amicizie e frequentazioni: egli sin da giovane seppe allacciare, “andreottianamente”, relazioni anche con autori ortodossi quale padre Alberto Vaccari, mons. Pio Paschini, don Giuseppe Ricciotti e Domenico Giuliotti. Questo è il lato che può spiazzare nell’interpretazione del pensiero e dell’opera di don De Luca, difficilmente decifrabile a prima vista.

Nel 1923 (appena due anni dopo la sua ordinazione sacerdotale) don De Luca, “alloggiato in una modesta pensioncina nel centro di Roma e praticamente abbandonato a sé stesso, si buttò in un lavoro furioso e uno studio intensissimo e frenetico, vegliando nottetempo in un corpo a corpo disperato con le opere complete di Hegel e di Voltaire. E per tenersi su, sigarette e cognac. Al termine di due anni di siffatta vita precipitò in un’astenia nervosa così grave da indurre i suoi superiori ad accoglierlo in Laterano (21 aprile 1925)” (R. Guarnieri, Una singolare amicizia, Genova, Marietti-1820, 1998, p. 112).

Il De Luca frequentò anche gli ambienti della “Azione Cattolica”, ma se ne allontanò sùbito perché non voleva subordinare la sua cultura alla “azione” (anche se “cattolica”), ossia alla logica dell’organizzazione di massa. De Luca è rimasto sempre un elitario ed anche questo lascia perplessi in un prete cattolico. Fu allora che iniziò a collaborare con Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini e con la rivista Il Frontespizio diretta da Pietro Bargellini.

Questo carattere fortemente elitario lo si ritrova, forse ancor più marcatamente, anche nella Guarnieri. Per fare un esempio, quando dovette visitare un convento dei padri Guanelliani, ove erano ricoverati i bambini affetti da ritardi mentali e menomazioni psichiche, si espresse così: “gli sguardi di quei poveretti, nessuno escluso, erano come fascinati, fissati su di me, e ognuno sembrava mi volesse spogliare: sguardi grevi, ottusi, animaleschi da brivido” (R. Guarnieri, Una singolare amicizia, cit., p. 290). Che differenza con il Beato don Guanella, che li chiamava “i miei piccoli santi”, o col Beato don Orione, che li abbracciava commosso perché vedeva, con gli occhi della fede, la loro anima piena di grazia santificante, essendo incapaci di peccare e non si sarebbe mai sognato di qualificarli come “animaleschi” o “guardoni” (“ognun il cuor altrui dal suo misura…”). Di fronte a queste affermazioni ci si può domandare se la Guarnieri non sia stata ripiena della “scienza che gonfia” e priva della “carità che edifica” (1 Cor., VIII, 2).

Il De Luca contrapponeva come àncora di salvezza l’erudizione filologica contro la lotta antimodernista, che aveva conosciuto in quelli che lui riteneva gli eccessi di monsignor Umberto Benigni e indirettamente di San Pio X (cfr. G. De Luca, Scritti di erudizioni e di filologia, Roma, 1952, vol. I, pp. VII-XVI). Non mi sembra che le sagge disposizioni di S. Pio X per combattere il modernismo e i modernisti prevedessero l’erudizione filologica o “la fede come cultura”: egli sostenne invece il “Sodalitium Pianum” di mons. Benigni.

Nel 1941/1942 don Giuseppe fondò la casa editrice “Le Edizioni di storia e letteratura”, che nel 1947 sarà salvata dal fallimento da Raffaele Mattioli, il banchiere laicista e in odore di Massoneria che si farà inumare nel sepolcro dell’eretica beghina Guglielmina la Boema nel 1973. Anche qui non si può non restar sorpresi dall’interesse che un personaggio come Mattioli nutriva per delle Edizioni “cattoliche” e non ci si può non domandare se il De Luca sia stato uomo di cultura e di fede integralmente cattolica[5]. Certamente Mattioli aveva ben scorto nelle Edizioni del De Luca il suo progetto di gettare un ponte per una erudizione che unisse storici e filologi, “ecclesiastici e laicisti, chierici e atei, in un mondo culturale frammentato da integralismi ideologici” (v. G. De Rosa, cit., p. 357), una sorta di panecumenismo intellettuale, che aveva portato il De Luca a stringere nuove amicizie con alcuni politici e pensatori fascisti (Giuseppe Bottai e Giovanni Gentile);  laicisti: Delio Cantimòri[6], Federico Chabod[7], Arnaldo Momigliano[8], Giuseppe Saitta[9], Renzo De Felice[10] ed infine anche con altri uomini politici italiani che vanno dai democristiani modernisti-sociali (De Gasperi, Sturzo, Colombo) ai comunisti (Togliatti e Ròdano, anche dopo la scomunica del 1949) vivendo vicino a monsignor Montini e al cardinal Angelo Roncalli anche dopo la sua ascesa al Sommo Pontificato (1958).

Nel 1951 uscì il primo volume dell’Archivio italiano per la storia della pietà con un’Introduzione del medesimo De Luca.

Per quanto riguarda il sodalizio De Luca – Mattioli, occorre notare che, oltre l’interesse misticoide comune (tramite la Guarnieri) per lo gnosticismo-beghino di Guglielmina la Boema e di Margherita Porrete (di cui abbiamo trattato nel primo articolo), vi fu un altro punto d’incontro. Infatti fu proprio Raffele Mattioli, da buon finanziere/politico, a salvare i Quaderni dal carcere scritti da Antonio Gramsci (1891-1937) al confino dal 1926, quando questi ammalato di polmoni fu ricoverato, nel 1933, nella clinica “Quisisana” al quartiere Parioli di Roma e, vicino alla morte, riuscì a consegnare i manoscritti della sua opera - pubblicata postuma (1948-1951) dalla Casa Editrice del PCI “Editori Riuniti” di Roma - al Mattioli, il quale li nascose nella cassaforte della Banca d’Italia sino al trapasso del regime.

De Luca, gramscianamente, si è adoperato per mediare tra una certa parte della Segreteria di Stato del Vaticano (facente allora capo all’ala progressista capeggiata da mons. Montini, avversa a quella del card. Ottaviani) e i cattocomunisti[11] (capeggiati da Franco Ròdano), che sotto la leadership di Togliatti volevano mettere in pratica i princìpi - insegnati da Gramsci nei Quaderni dal carcere - di un’intesa tra il mondo socialcomunista e il cattolicesimo progressista o democristiano (cfr. V. Roghi a cura di, G. De Luca – R. Guarnieri, “Tra le stelle e il profondo”. Carteggio 1938-1945, cit., p. 280), intesa ripresa nel 1973 da Enrico Berlinguer sotto il nome di “Compromesso storico” e che ha dato vita al complesso fenomeno chiamato Eurocomunismo, vittorioso in tutta Europa negli anni Settanta/Ottanta.

In effetti don De Luca - trasversale a tutti gli ambienti -  nel Natale del 1944, assieme a Togliatti e a Ròdano (in casa di quest’ultimo), organizzò le grandi manovre per quella che fu l’apertura vaticana al centrosinistra, avvenuta quindici anni dopo, nel 1959, sotto il pontificato di Giovanni XXIII, scavalcando e vanificando implicitamente, senza abrogare de jure, la scomunica del Comunismo (1949) comminata da Pio XII. Successivamente (1961) De Luca si adoperò, tramite Togliatti, per la trasmissione di un telegramma di auguri di Krusciov a Giovanni XXIII in occasione dell’ottantesimo compleanno del Papa (1881-1961), che segnò il primo passo del dialogo catto-comunista al massimo livello del Vaticano e del Cremlino. Come si vede Don De Luca non è stato una figura marginale e di secondo piano nella politica italiana, vaticana e mondiale.

Il 19 marzo del 1962, dopo aver ricevuto la visita del suo amico Giovanni XXIII, si spense, munito dei Sacramenti, nell’Ospedale Fatebenefratelli presso l’Isola Tiberina in Roma.

Romana Guarnieri e don Giuseppe De Luca “segreto”

Leggendo il libro di Romana Guarnieri, Una singolare amicizia. Ricordando don Giuseppe De Luca (Genova, Marietti-1820, 1998) si possono avere altri particolari sulla vita e le gesta Delucane che vale la pena di conoscere per capire meglio la sua variegata personalità. L’Autrice scrive che l’intento del suo libro è quello “di far conoscere dello scrittore [De Luca, ndr]… e a suo modo politico di forte – ancorché segreto – impatto, aspetti di un’umanità segreta” (cit., p. 8). Come si vede la politica segretezza è un carattere non molto evangelico, ma assai Delucano…

La Guarnieri, di origine olandese, scrive che negli anni Quaranta don De Luca le propose di approfondire il tema dei movimenti della mistica renana, di cui si era impregnata fortemente con tutte le sue tendenze panteistiche, e così tra il 1941 e il 1946 ella scoprì che Lo specchio delle anime semplici era attribuibile a Margherita Porrete (di cui abbiamo parlato nel primo articolo). Nel libro citato sopra (Una singolare amicizia. Ricordando don Giuseppe De Luca) la Guarnieri qualifica Margherita Porrete quale “beghina, madre di tutto il Quietismo posteriore, sino alla grande esplosione seicentesca” (cit., p. 15).

Dal Beghinismo al Quietismo

Nel primo articolo abbiamo visto come la Guarnieri parteggiasse apertamente per Margherita Porrete e per la sua dottrina del Libero spirito. Ora apprendiamo che all’origine del suo interesse per la Porretana v’è stato don De Luca e che il Quietismo è figlio del pensiero di Margerita Porrete. Ma cos’è esattamente il Quietismo?

Ebbene il Quietismo è una tendenza pseudo-mistica, che ripone la perfezione nella contemplazione passiva, in cui l’anima rinunzia alla sua libera attività anche nella pratica delle Virtù, al controllo della sensualità e delle passioni, sino al punto di conciliare il più basso sensualismo con l’adesione pseudo-mistica a Dio. Il Quietismo disprezza l’ascetica. In Spagna si diffuse sin dal Cinquecento con la sètta degli Alumbrados (Illuminati), in Francia con François Fénelon († 1715) e Madame Jeanne Marie Guyon († 1717), “un’esaltata che al misticismo contemplativo univa il misticismo sensuale, con la teoria della passività dell’anima nelle tentazioni e nei peccati di lussuria”[12], in Italia per opera di Miguel Molinos.

Il pervertimento della passività o non-resistenza dell’uomo alla Grazia speciale del Paraclito, estesa anche alla pratica delle Virtù e alla lotta contro il male, è l’essenza della falsa mistica. Nei primi secoli della Chiesa il Montanismo[13] cadde in eccessi perniciosi dal punto di vista dommatico, ascetico e morale. Nel medioevo i Begardi[14] e le Beghine conobbero consimili deviazioni e disordini. Nell’epoca moderna dal Quietismo procede l’Americanismo ossia il Modernismo ascetico. Il Quietismo ha conosciuto varie forme: quella più radicale e quella moderata o semi-quietista.

Il Quietismo radicale ha origine con Miguel Molinos[15], nato in Spagna nel 1640, ma vissuto soprattutto a Roma, ove disseminò i suoi errori mediante le sue opere principali La guida spirituale e L’orazione di quiete, condannate da Innocenzo XI (Costituzione Coelestis Pastor, 19 novembre 1687, DB 1221-1288). Secondo Molinos la vita cristiana e la perfezione o mistica consiste nell’assoluta passività dell’anima umana, la quale è dispensata anche dal resistere alle tentazioni; il suo motto precorre quello del liberismo economico: “Laissez faire”, così trasposto nella religione: “Lasciamo fare tutto solo a Dio”, e toccherà l’apice nel Liberalismo o Modernismo ascetico chiamato da Leone XIII Americanismo. Secondo Molinos vi è una sola via, che è quella mistica o dei perfetti, alla quale ci si arriva da sé, con le proprie forze. Onde per lui la vita spirituale inizia con la via unitiva, che, invece, per la Chiesa è la terza ed ultima, alla quale si giunge dopo una lunga vita ascetica (prima e seconda via, degli incipienti e dei progredenti) e vi si entra per un dono gratuito di Dio, che attua tramite la Grazia transeunte speciale dello Spirito Santo i sette Doni del Paraclito. Nell’unica via puramente e assolutamente passiva, secondo Molinos, si vive costantemente e abitualmente nella contemplazione infusa, la quale, invece, per la dottrina cattolica è concessa da Dio solo in atti di contemplazione, che durano poco tempo. Siccome la contemplazione è perpetua, per Molinos l’anima è dispensata da tutti gli atti espliciti di Virtù, dalla resistenza alle tentazioni e dalla mortificazione. Si giunge quindi, immancabilmente, a dei disordini morali, poiché l’uomo ferito dal peccato originale mantiene sempre in sé sino alla morte il fomes peccati, che è la tendenza al male, cui deve resistere negativamente non facendo il male e positivamente ponendo atti di Virtù. Invece per il Quietismo il misticoide è talmente perfetto da non poter più peccare e quindi non deve curarsi delle tentazioni cui è sicuro di non dare mai il consenso della volontà, presumendo di essere confermato in Grazia, anche se compie esteriormente atti oggettivamente immorali.

L’antichissima dottrina cabalistica dell’anti-nomismo, o santificazione contro la Legge morale (“nomè”) tramite il peccato, è stata ripresa dal movimento moderno chassidico prima elitario (v. Shabbatai Zevi † 1666, Jacob Frank † 1791) e poi dallo chassidismo contemporaneo di massa (v. Martin Buber † 1965, Emmanuel Levinas † 1995[16]), dopo essere stata rinnovata da Martin Lutero col suo “pecca fortiter sed fortius crede” e dal Modernismo ascetico o Americanismo, condannato da Leone XIII (Testem benevolentiae, 1889), ma oggi rinato con virulenza parossistica soprattutto col Neo-modernismo o Sentimentalismo religioso tanto in voga nei “movimenti” o “cammini” pseudo-cattolici (Neo-catecumenali[17], Comunione e Liberazione, Rinnovamento dello Spirito, Carismatismo e Pentecostalismo[18]).

Il Molinosismo ritiene che l’oggetto principale della contemplazione è Dio e non Gesù Cristo (discostandosi dalla cosiddetta Devotio moderna contenuta nell’aureo libretto De Imitatione Christi), che, essendo vero Dio e vero uomo, sembra meno perfetto e non degno dei quietisti, i quali sarebbero ‘più che perfetti’. Essi parlano di ‘Cuore di Dio’, ma non del S. Cuore di Gesù, poiché quest’ultimo è troppo materiale mentre il primo è unicamente l’Amore puramente spirituale, misericordioso e “tutto-fare”, il quale dispenserebbe il “perfetto” o l’iniziato da ogni azione buona e da ogni resistenza al peccato.

Il Quietismo radicale di Molinos fu ripreso e temperato, per sfuggire le condanne della Chiesa, da Madame Jeanne Marie Guyon, padre P. Lacombe e François Fénelon, il quale sistematizzò e addolcì da certi eccessi la pietà sentimentalistica e fantasiosa dell’amor puro o disinteressato della signora Guyon nel suo libro Maximes des Saints del 1697. In esso Fénelon sosteneva che la perfezione consiste nello stato abituale di puro amore di Dio, disinteressato ovvero senza la Speranza del Paradiso. Inoltre si può essere persuasi nella parte superiore dell’anima (intelletto) di essere riprovati da Dio ed accettare pienamente (volontà) tale stato di dannazione, offrendo a Dio il sacrificio della propria felicità eterna. Infine l’anima perfetta deve essere indifferente alla pratica delle Virtù e all’Umanità di Gesù Cristo. Tali proposizioni furono condannate nel 1699 da Innocenzo XII (DB 1327-1349) poiché sostanzialmente identiche a quelle di Molinos anche se espresse, quanto al modo, in maniera meno radicale o più moderata.

Ebbene queste idee si ritrovano nello Specchio delle anime semplici e nella “spiritualità” di Margherita Porrete fatta propria anche da Romana Guarnieri non senza un intervento di don Giuseppe De Luca, il cui carattere “segreto” è stato messo bene in evidenza dalla Guarnieri stessa.

La Guarnieri ammette candidamente che il suo giovanile fervore verso la Porretana “aveva infuso nuovo slancio e nuova gioia di vivere al maturo sacerdote al mio fianco, stanco, deluso, sfiduciato; ero entrata nella sua vita - come ebbe a dirmi una volta - come un gran vento, che gli aveva buttate all’aria tutte le carte, poggiate in bell’ordine sulla sua scrivania…” (cit., p. 15).

Oggettivamente non può non sorprendere sfavorevolmente la figura di un sacerdote sfiduciato e deluso, che si fa sollevare non dall’orazione e dalla Grazia di Gesù Cristo come la spiritualità sacerdotale insegna, ma da una giovane signorina, ripiena di idee laicistiche, eterodosse e di comportamenti non consoni ad un’anima seriamente religiosa.

Infatti la Guarnieri stessa scrive che in una vacanza estiva trascorsa a San Giacomo di Chiavenna, sotto il Monte Spluga, (presso la Valtellina) ospiti dei padri Guanelliani presso “un casermone d’alta montagna, costruito o mo’ di rifugio ai bordi del Lago di Montespluga e adibito allora a residenza estiva per i seminaristi” (ct., p. 293) furono accolti con un certo imbarazzo misto a freddezza dai religiosi Guanelliani poiché “mangiavamo alla tavola comune, insieme al corpo insegnante, e ci sentivamo oggetto di una non celata curiosità da parte dei giovani seminaristi [nel periodo preconciliare il fatto che un sacerdote passasse le vacanze da solo in compagnia di una giovane signorina non passava inosservato, ndr]. Don Giuseppe capì sùbito la situazione e non si stupì quando, dopo qualche giorno, il superiore del luogo gli chiese col debito garbo se per caso non ci saremmo trovati meglio alloggiati nello chalet di una brava signora […]. Detto fatto traslocammo. E con disappunto, ma con piena comprensione, ci trovammo senza appoggi né garanti, affidati interamente a noi stessi. Una situazione nuova, che affrontammo tutto sommato in allegria. La mattina si passeggiava senza affaticarci […] in uno dei nostri vagabondaggi mattutini ci eravamo fermati sul bordo quasi pianeggiante del lago […] dopo un po’ ci sorprendemmo chini a giocare con l’acqua e con la sabbia. […]. Chiedemmo in giro se qualcuno poteva prestarci due pale e una zappa. E l’indomani mattina rieccoci sotto il sole dardeggiante, armati di tutto punto e incuranti degli sguardi divertiti dei pochi paesani che videro passare la strana coppia: don Giuseppe, imperterrito nella sua nera palandrana di lana pesante, il capo coperto dal classico cappello ‘a saturno’ […], io in gonna e camicetta e in testa un gran fazzolettone bianco. Faticammo come pazzi a scavar fossi e fossetti” (p. 294). Come minimo mancò la prudenza e l’accortezza di non scandalizzare i pusilli…

La visita del card. Ottaviani a De Luca sul letto di morte

Abbiamo visto che don De Luca morì il 19 marzo del 1962 all’ospedale Fatebenefratelli presso l’Isola Tiberina di Roma. Ebbene la Guarnieri, cercando di presentare un Ottaviani filo-Delucano e, quindi, un De Luca filo-tradizionalista, racconta che il card. Alfredo Ottaviani andò a trovarlo il 15 marzo (mentre papa Giovanni XXIII gli fece visita il 17 marzo), ma dà della visita un’interpretazione che non convince.

Infatti secondo la Guarnieri il card. Ottaviani, che lo aveva accolto appena tredicenne nel 1911 in Seminario, aveva mantenuto un rapporto di vecchia conoscenza con De Luca (secondo la Guarnieri addirittura di amicizia), sarebbe andato da lui, moribondo, e lo avrebbe «precipitato, senza volere, in una terribile lacerazione, a causa di un grave conflitto insorto tra lui [Ottaviani, ndr] e il Pontefice. Probabilmente si trattava del noto dissidio circa il Concilio, ma potrebbe anche darsi che l’oggetto delle discordi vedute fosse la politica italiana, proprio allora arrivata al centrosinistra. […]. Ricordo che alle rimostranze ovvero alle resistenze del cardinale, il Papa, secondo quanto da lui stesso raccontato a don Giuseppe e da questi poi, a sua volta, in sintesi riferito a me, avrebbe concluso: “Eminenza, se non le sta bene, può anche dar le dimissioni!”. Il turbamento che ne derivò al Nostro fu tremendo» (R. Guarnieri, cit., pp. 79-80).

Da queste righe sembrerebbe che Ottaviani si sia aperto e consigliato, come un amico fa con l’amico, con un don De Luca “tradizionalista” per cercare conforto nella sua incomprensione con le tendenze progressiste di Giovanni XXIII. Ma sappiamo che questi è il “don De Luca della fede” e non il “don De Luca della storia”, il quale nel 1959-1960 fu uno dei principali artefici del centrosinistra affiancando mons. Montini contro il card. Ottaviani.

In realtà Paolo Vian nel libro da lui curato Giuseppe De Luca – Giovanni Battista Montini, Carteggio 1930 - 1962 (Roma, Studium, 1992, p. 252, Documento 215, nota 1) scrive che don De Luca “ricevette il 15 marzo la visita di Ottaviani (col quale negli ultimi mesi si erano profilate serie divergenze di vedute sull’atteggiamento del Papa a proposito dell’imminente Concilio Vaticano II e del corso della politica italiana)”. Quindi, in realtà, Ottaviani da alcuni mesi era in divergenza anche col De Luca, che sosteneva le tendenze sinistrorse e progressiste di Giovanni XXIII.

Ora sembra improbabile (come vorrebbe la Guarnieri) che il card. Ottaviani abbia raccontato a De Luca con cui era in divergenza e per di più moribondo che tra lui e il Papa vi erano dissidi riguardo al Concilio o al centrosinistra, gettandolo in un grave stato di apprensione. Invece sembra molto più verosimile (come scrive il Vian) che Ottaviani dopo aver avuto dei diverbi con don De Luca a proposito delle sue aperture a sinistra, data la sua amicizia con Franco Ròdano e Palmiro Togliatti, fatte proprie anche da papa Giovanni sin da quando era patriarca a Venezia con dispiacere di Pio XII e del card. Ottaviani, sia andato semplicemente a rendere l’ultima visita al seminarista conosciuto da quando era un bambino ed oramai sul letto di morte in procinto di presentarsi al Giudizio di Dio per fargli presente che le sue “aperture a sinistra”, specialmente dopo la scomunica del Comunismo del 1949, potevano avere delle conseguenze gravi per la sua anima.

La Guarnieri in un altro luogo confessa che De Luca “aveva scelto di affiancare il movimento operaio e le sue forze, contro cui il 28 giugno [1949, ndr] il Sant’Offizio aveva espresso il decreto di condanna, la scomunica per i comunisti e i loro fiancheggiatori. De Luca è in stretti rapporti con Franco Ròdano e il suo gruppo, collabora con la loro rivista Voce operaia” (V. Roghi a cura di, G. De Luca – R. Guarnieri, “Tra le stelle e il profondo”. Carteggio 1938-1945, cit., p. 280).

La Guarnieri confessa che don De Luca era esperto in materia di preti operai e di operaismo o socialismo cristiano: “basti pensare alla sua amicizia intensa ed attiva con Franco Ròdano[19] e il gruppetto dei cosiddetti ‘catto-comunisti’, da Felice Balbo[20] a Mario Motta[21], da Antonio Tatò[22], da Claudio Napoleoni[23] a Gabriele De Rosa[24] e Adriano Ossicini[25] per non parlare della sua collaborazione, non casuale né episodica alla loro rivista ‘Voce operaia’ (sulla quale scriveva collo pseudonimo di Celestino sin dal 1944), nonché del suo ruolo di mediatore tra costoro e la S. Sede, da lui esercitato in occasione della nota condanna del 28 giugno 1949” (R. Guarnieri, Una singolare amicizia, cit., p. 141), condanna voluta fortemente da Pio XII e dal S. Uffizio presieduto dal card. Ottaviani, che, quindi, non poteva essere amico e sodale del De Luca, ma aveva conservato il ricordo del giovane seminarista tredicenne da lui accolto in Seminario e provava pena per le sue successive traversie di salute e i pericolosi sbandamenti dottrinali con quelli che chiamava “comunistelli da sagrestia”. Per quanto riguarda l’avversione di De Luca per Pio XII ne parleremo dopo.

De Luca per Montini e contro Pio XII

Romana Guarnieri scrive che “Fortissima fu in don De Luca l’avversione per il culto della personalità imperante sotto il pontificato di papa Pio XII” (R. Guarnieri, Una singolare amicizia, cit., p. 82, nota 20).

Paolo Vian spiega meglio che quando Montini fu allontanato da Roma nel gennaio del 1955 da Pio XII in persona per la questione di mons. Tondi, che lavorava nell’ufficio di Montini e da cui era partita la spiata all’Urss di Stalin che 11 gesuiti, consacrati Vescovi in gran segreto da Pio XII, sarebbero stati paracadutati in Russia per ristabilirvi una gerarchia cattolica. Purtroppo gli 11 gesuiti furono immediatamente arrestati dopo aver toccato il suolo sovietico e fucilati. Dopo accurate indagini si appurò che Tondi era un comunista infiltratosi nel clero cattolico e che la spiata era partita proprio dal suo ufficio e da quello di Montini, che fu spedito a Milano. Don Giuseppe De Luca si sentì orfano di un protettore nell’Urbe, poiché mons. Montini, spedito a Milano con la consegna che non gli venisse mai dato il cappello cardinalizio (cosa che, invece, fece immediatamente Giovanni XXIII sùbito dopo la morte di Pio XII), non contava più a Roma come prima e non poteva intercedere più per don De Luca. Quindi “si arrivò addirittura ad un inaspettato rovesciamento delle parti: prima era De Luca a intercedere presso Montini per interventi presso la Segreteria di Stato (come quando, nel febbraio 1948, si mosse per difendere Manzù[26] da attacchi nell’ambito della battaglia per le nuove porte della basilica di S. Pietro [in cui Manzù aveva inserito delle figure nude, ndr]; ora paradossalmente, è Montini a chiedere a De Luca di interessarsi per sondare le disponibilità vaticane (Lettera di Montini a De Luca, 22 gennaio 1958)” (P. Vian a cura di, Giuseppe De Luca – Giovanni Battista Montini. Carteggio 1930-1962, Roma, Studium, 1992, p. XXVIII e nota 111).

Pio XII allontanò Montini da Roma per l’affare Tondi, ma egli «è sentito da De Luca come una vittima incompresa e sacrificata, il rapporto tra i due, che dalla fine degli anni Trenta aveva finito un po’ con l’imbalsamarsi nell’ufficialità (sino all’oscillare tra il “tu” e il “Lei”) negli ultimi sette anni, dal 1955 al 1962, riprese vita e vigore, assumendo un tono di confidenza prima impensabile (“Tu come stai, vecchio Montini?” (De Luca a Montini, 18 luglio 1960). De Luca sfoga ormai apertamente la sua insofferenza per un certo mondo romano [pacelliano, ndr] per la “Rometta” o la “Romaccia” […] e non si può né bestemmiarla né esaltarla. Si può solo soffrirla, come una madre mal circondata (De Luca a Montini, 26 novembre 1960; 23 giugno 1961)» (P. Vian a cura di, Giuseppe De Luca – Giovanni Battista Montini, cit., p. XXXIX e note 114-116).

Il potere di De Luca in Vaticano

«L’elezione [1958] al Sommo Pontificato del patriarca di Venezia Angelo Roncalli (“è un padre” [Lettera di De Luca a Montini, 18 luglio 1960] conosciuto personalmente a Venezia nel 1955, in occasione della conferenza alla Fondazione Cini sulla pietà veneziana del Trecento) segna una svolta dei rapporti di De Luca con il mondo Vaticano» (P. Vian, Giuseppe De Luca – Gian Battista Montini, cit., p. XXX). Tuttavia De Luca lamenta ancora l’influsso dei vecchi cardinali curiali, che, nonostante la morte di Pio XII e l’elezione di Giovanni XXIII, si faceva ancora sentire: “caro Montini, purtroppo la Roma che tu conosci e dalla quale fosti esiliato [da Pio XII in persona dopo l’affare Tondi, ndr] non accenna a mutare, come pareva che dovesse essere alla fine [del pontificato di papa Pacelli, ndr]. Il cerchio dei vecchi avvoltoi [i cardinali conservatori di Curia, tra cui spiccava Ottaviani, ndr], dopo il primo spavento [per l’inaspettata elezione di Roncalli, ndr] torna. Lentamente, ma torna. E torna con sete di nuovi strazi, di nuove vendette [del S. Uffizio, ndr]» (Ivi).

De Luca si sfoga sulla mancanza di beneficenza nei confronti delle sue Edizioni da parte di Pio XII, il quale non le finanziò, ma “mi mandò i soldi per la villeggiatura…” (P. Vian, cit., p. XXX, Lettera di De Luca a Montini, 7 agosto 1959).

Inoltre De Luca si fa portavoce del Papa e del suo entourage “del suo desiderio di vedere Montini più frequentemente a Roma [contrariamente alle consegne di Pio XII, che lo aveva allontanato definitivamente dall’Urbe, ndr]” (P. Vian, cit., p. XXXI, Lettera di De Luca a Montini, 7 agosto 1959).

La Guarnieri ci informa che la conferenza del 1955 nella prestigiosa e “sulfurea” Fondazione Cini a Venezia alla presenza del card. Roncalli e dell’Arcivescovo di Milano Montini, fu originata “dalla congiunta volontà [dei tre, ndr] di sostenere Montini nell’avvilimento del suo esilio” (P. Vian, cit., p. XXXIII).

Conclusione

A partire da questi elementi ben documentati si può concludere che, oggettivamente, don De Luca ha avuto una formazione teologica scarsa, una cultura letteraria laicistica, una vita sregolata, un’amicizia ambigua con la Guarnieri, una posizione dottrinale assai progressista (filo roncalliana e  montiniana ed anti pacelliana), una tendenza ascetico/mistica eterodossa e incline allo gnosticismo esoterico, anche se l’ha saputa nascondere nel suo “segreto, ed una influenza politica segreta assai potente che ha favorito il disgelo tra Urss e Vaticano, la nascita del centro-sinistra, del Comunismo dal volto umano, del Catto-comunismo e del Compromesso storico.

Inoltre, con tutta la sua bonomia e ingenuità apparente, egli ha avuto e giuocato in Vaticano a partire dal pontificato di Roncalli un ruolo di primo piano non solo politicamente per l’apertura a sinistra; ma anche dottrinalmente per la disponibilità verso la nouvelle théologie, che sarebbe entrata a Roma, come il Reno si getta nel Tevere, ed avrebbe portato la rivoluzione in Vaticano.

Il giudizio storico sul personaggio non può essere positivo, anzi resta ancora molto da scandagliare sui danni prodotti dal duetto Guarnieri-De Luca in ambiente ecclesiale e politico/italiano. È quel che cercherò di fare prossimamente, chiedendo a chi avesse notizia sui fatti dei due protagonisti di farmene partecipe per far luce sulla strana coppia.

d. Curzio Nitooglia

Fine Seconda Parte

(Continua)



[1] P. Vian (a cura di), Giuseppe De Luca – Giovanni Battista Montini. Carteggio 1930-1962, Roma, Studium, 1992, p. 252, Documento 215, nota 1.

[2] Cfr. C. F. Casùla, Domenici Tardini (1888-1961), Roma, Studium, 1988.

[3] Cfr. P. Dezza, Alle origini del neotomismo, Milano, 1940; A. Piolanti, Pio IX e la rinascita del tomismo, Città del vaticano, 1974; C. Fabro (diretta da), Storia della Filosofia, Roma, 1954, pp. 857-866; B. Mondin, Storia della Teologia, Bologna, 1997, IV vol., pp. 226-234.

[4] Basilio Pompilj (Spoleto 1858 – Roma 1931). Laureatosi in Teologia e in Diritto Canonico a Roma presso il Collegio S. Apollinare (poi Università Lateranense), fu ordinato sacerdote nel 1880. Nel 1911 fu creato cardinale da S. Pio X col quale condivideva pienamente la linea intransigente di ferma condanna del modernismo. Nel 1912 fu nominato cardinale Vicario di Roma e appoggiò almeno sin dal 1913 il Sodalitium Pianum di mons. Umberto Benigni (cfr. F. Caraffa, Cardinal Basilio Pompilj, in “La Pontificia Università Lateranense”, Roma, 1963, pp. 419-420; G. V. Gremigni, Il Cardinal Basilio Pompilj, Roma, 1941; F. Scavizzi, Il Cardinal Basilio Pompilj, Lucca, 1941; A. Riccardi, Roma città sacra? Dalla Conciliazione all’operazione Sturzo, Milano, 1979).

[5] Queste sue strane tendenze erano state notate dai superiori sin dagli anni del suo seminario. Infatti la Guarnieri (Una singolare amicizia, cit., p. 270) scrive chela sua “ordinazione sacerdotale” fu “contrastata” ed inoltre Vanessa Roghi curatrice del volume Giuseppe De Luca – Romana Guarnieri. “Tra le stelle e il profondo”. Carteggio 1938-1945 (Brescia Morcelliana, 2010) scrive che “La sua [di De Luca, ndr] curiosità intellettuale, tuttavia, lo ha già messo spesso di fronte a difficoltà e incomprensioni, anche gravi, da parte dei suoi superiori” (p. 26).

[6] Delio Cantimòri (1901 - 1966). Storico specializzato sugli eretici protestanti italiani (tra i suoi libri più importanti: Bernardino Ochino, uomo del Rinascimento e riformatore, 1929; Rinascimento e Riforma, 1930; Sulla storia del concetto di Rinascimento, 1932; Eretici italiani del ‘500, 1943; Utopisti e riformatori italiani dal 1794 al 1847, 1943). Allievo alla Scuola Normale Superiore di Pisa a partire dal 1924. Fin da giovane fu amico di Giuseppe Saitta. Mazziniano convinto, aderì allo squadrismo fascista d’impronta anticlericale e repubblicana. Dal 1927 al 1932 scrisse sulla rivista fascista “Vita Nova” fondata da Saitta, che riprendeva le tesi storiche e filosofiche di Gioacchino Volpe e Giovanni Gentile. Verso il 1940 si avvicinò al PCI, ma nello stesso tempo collaborò col Dizionario di Politica del Partito Nazionale Fascista. Questa “doppia appartenenza” gli è valsa la critica di molti intellettuali nel periodo postbellico. Nell’immediato dopoguerra fu assai vicino al marxismo e così non fu epurato dall’insegnamento per il suo passato fascista. Nel 1948 s’iscrisse al PCI e ne uscì nel 1956 dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria.

[7] Federico Chabod (Aosta 1901 - Roma 1960). Storico di formazione liberale/crociana. Si laureò a Torino nel 1923 con una Tesi su Machiavelli, del quale fu sempre un grande stimatore. Esponente del pensiero laico/liberale ed anticlericale. Fu vicino al Partito d’Azione e partecipò alla guerriglia partigiana in Valle d’Aosta. Famosa la sua Storia dell’idea d’Europa, 1961.

[8] Arnaldo Momigliano (Caraglio di Cuneo 1908 - Londra 1987). Storico della Grecia classica e di Roma antica, attivo per decenni in Inghilterra. Nacque in una famiglia di ebrei piemontesi di formazione religiosa strettamente ortodossa. All’Università di Torino strinse amicizia con Cesare Pavese, Ludovico Geymonat, i tre fratelli Treves, Giulio Carlo Argan, Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone, Leone Ginzburg e Massimo Mila. Suo nonno, Amadio Momigliano, fu un noto talmudista e cabalista, appassionato studioso dello Zohar, amico di Elia Benamozegh. Suo cugino, Felice Momigliano, lo iniziò allo studio di Spinoza. Suo padre (Salomone) e sua madre (Ilda Levi) furono fascisti convinti e militanti nel fascismo dal 1918 sino al 1938, quando furono espulsi dal PNF dopo la promulgazione delle Leggi razziali. Arnaldo fu iscritto al PNF sin dal 1928, ma nel 1939 se ne andò in esilio in Inghilterra. Famoso il suo libro Conflitto tra paganesimo e cristianità nel IV secolo, 1963.

[9] Giuseppe Saitta (Gagliano Castelferrato di Enna 1881 – Bologna 1965).  Filosofo e storico della filosofia. Il suo pensiero s’ispirò all’Attualismo di Giovanni Gentile. Immanentista radicale. Pose alla base della sua dottrina filosofica una frattura insanabile tra ragione umana liberatrice e religione dogmatica asservitrice dell’uomo.  Nel 1926 fondò la rivista mensile di indirizzo fascista/gentiliano “Vita Nova”.  Tra le sue opera principali: La filosofia di Marsilio Ficino, 1923; Filosofia italiana e Umanesimo, 1928; La personalità umana e la nuova coscienza illuministica, 1938; La teoria dell’amore e l’educazione del Rinascimento, 1947; Il pensiero italiano nell’Umanesimo e nel Rinascimento, 3 voll., 1949-1951; Il problema di Dio e la filosofia dell’immanenza, 1953; Niccolò Cusano e l’Umanesimo italiano, 1957.

[10] Renzo De Felice (Rieti 1929 – Roma 1996). Storico. Si laureò nel 1954 con Federico Chabod, che lo aiutò nella stesura del suo saggio Gli ebrei nella prima Repubblica Romana del 1798-1799. Amico e discepolo di Delio Cantimòri. Dopo gli studi iniziali sul giacobinismo italiano si specializzò sulla storia del fascismo (Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, 1961; Mussolini il rivoluzionario, vol. I, 1965 – Mussolini l’alleato, vol. VIII, postumo 1997). Laico e iscritto al PCI a partire dal 1949. Fu militante di formazione trotskista sino al 1956, quando uscì dal Partito Comunista Italiano per l’invasione sovietica dell’Ungheria approvata dal PCI. Sposò la figlia dello storico liberale Guido De Ruggero. Rosario Romeo lo aiutò nella carriera universitaria

[11] Cfr. A. Del Noce, Il cattolico comunista, Milano, Rusconi, 1981.

[12] P. Parente, Dizionario di Teologia dommatica, Roma, Studium, 1957, IV ed., voce Quietismo. Cfr. C. Crivelli, Piccolo Dizionario delle sètte protestanti, Roma, Civiltà Cattolica Editrice, 1945.

[13] Il Montanismo è un’eresia d’indole ascetico-spirituale, sorta verso il 170 d. C. nella Frigia (Asia minore) ad opera di un certo Montano, convertito al Cristianesimo. Egli cominciò ad avere strani fenomeni “misticoidi” di natura patologica o preternaturale. Due donne, Priscilla e Massimilla, lo seguirono ed ebbero fenomeni analoghi. Montano predicava anche la fine del mondo come prossima e la seconda venuta di Cristo sulla terra, letta in chiave millenaristica più che escatologica. Più che una dottrina dogmatica il Montanismo è una prassi ascetica rigoristica. Infatti Montano si dichiarava ripieno di Spirito Santo per dar vita ad un Cristianesimo più perfetto (una sorta di Terza Alleanza gioachimita ante litteram). Dall’Asia il Montanismo giunse a Roma dove guadagnò Tertulliano nel 213, che morì montanista fuori dalla Chiesa cattolica. Papa Zefirino condannò il Montanismo (cfr. Pio Paschini, Lezioni di storia ecclesiastica, Torino, 1930, I vol., p. 99; A. Mayer, voce “Montanismo”, in “Enciclopedia Cattolica”, Città del Vaticano, XII voll., 1949-1954).

[14] I Begardi e le Beghine ebbero dei punti di contatto coi Fraticelli eterodossi allontanatisi dal Francescanesimo spirituale, sorti ai tempi di papa Niccolò III, caduti in disgrazia con Bonifacio VIII e condannati nel 1316 da papa Giovanni XXII (Costituzione Gloriosam Ecclesiam, DB 484-490). La loro dottrina è riassunta dalla suddetta Costituzione apostolica come ribellione contro l’Autorità della Chiesa, di cui vi sarebbero due specie: una petrina, carnale, corrotta e ricca con a capo il Papa; l’altra giovannea, spirituale, pura e povera di cui fanno parte i Fraticelli ed i loro seguaci. Il Matrimonio sarebbe intrinsecamente malvagio, la fine del mondo vicina. Tuttavia essi stessi indulgevano al sensualismo e negavano il diritto della proprietà privata, tendendo ad una forma di comunismo ante litteram (cfr. F. Vernet, voce “Fraticelles”, in “D. Th. C.”).

[15] Cfr. P. Dudon, Le Quiétiste espagnol Michel Molinos, Parigi, 1921.

[16] Purtroppo la filosofia di Buber e Levinas ha influenzato notevolmente il pensiero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI.

[17] Cfr. E. Zòffoli, Verità sul cammino neocatecumenale. Testimonianze e documenti, Tagnavacco di Udine, Il Segno, 1996. www.edizionisegno.it

[18] Cfr. F. Spadafora, Pentecostali & Testimoni di Geova, Rovigo, Istituto Padano Arti Grafiche, 1980.

[19] Franco Ròdano (Roma 1920 – Monterado di Ancona 1983). Militante, durante il liceo, dell’Azione Cattolica di Roma e poi, da studente universitario, della FUCI diretta allora da Aldo Moro. Laureato in Lettere all’Università “La Sapienza” di Roma. Nel 1938 entrò in contatto con gli ambienti cattolici antifascisti (Adriano Ossicini, Antonio Tatò), in séguito (1940) entrò in contatto con l’organizzazione clandestina romana del PCI (Paolo Bufalini, Antonio Amendola, Pietro Ingrao, Lucio Lombardo Radice) e del Partito Liberale e d’Azione (Ugo La Malfa, Paolo Solari). Dopo l’8 settembre del 1943 strinse amicizia con don De Luca e fondò il “Movimento dei Cattolici Comunisti”, trasformatosi nel 1944 in “Partito della Sinistra Cristiana” (con Felice Balbo e Antonio Tatò), di cui fu il Segretario generale. Nel giugno del 1944 strinse un rapporto di amicizia e di collaborazione con Palmiro Togliatti. Nella notte del Natale del 1944, grazie alla sua mediazione, si incontrò con Togliatti e con don Giuseppe De Luca a casa sua, furono le grandi manovre per il futuro “compromesso storico”. Iniziò, quindi, a scrivere su Voce Operaia e in quattro articoli (autunno del 1945) sostenne la necessità di proseguire l’IRI senza smantellarlo. Ciò gli valse l’amicizia del banchiere liberale Raffaele Mattioli. Nel 1945 sciolse il suo Partito ed entrò nel PCI, nel quale fu un punto di riferimento per il dialogo col mondo cattolico italiano. Nel 1961 durante il Pontificato di Giovanni XXIII operò, tramite Togliatti, per la trasmissione ai dirigenti sovietici di una proposta (accettata) di un telegramma di auguri di Krusciov al Roncalli in occasione dell’ottantesimo compleanno del Papa, che segnò il primo passo del dialogo catto-comunista al massimo livello del Vaticano e del Cremlino, iniziato in sordina nel Natale 1944 da Togliatti, don De Luca e Ròdano stesso.  Nel 1962 fondò con l’economista Claudio Napoleoni la Rivista trimestrale, che diresse sino al 1971. Tra le sue opere più significative: Sulla politica dei Comunisti, 1974; Questione democristiana e Compromesso Storico, 1977. Ebbe numerosi incontri e contatti anche con Enrico Berlinguer, i quali (come quelli con Togliatti) debbono essere ancora indagati a fondo.

[20] Felice Balbo (Torino 1913 - Roma 1964). Laureato in giurisprudenza. Studioso torinese, che nel dopoguerra assieme a Franco Ròdano partecipò al gruppo dei Comunisti Cattolici. Partecipò alla guerriglia partigiana. Fu amico di Natalìa Ginzburg, Giulio Einaudi (figlio del Presidente della Repubblica Luigi e fondatore della Casa Editrice “Einaudi”), Massimo Mila, Gìaime Pintor e Cesare Pavese. Fu consulente della Casa Editrice Einaudi di Torino. Professore all’Università di Roma d filosofia morale. Nel 1951 raccolse attorno a sé un gruppo di cattolici comunisti ispirati alle idee di Giuseppe Dossetti. Tra le sue opere maggiori: Comunismo e Cristianesimo, 1958.

[21] Mario Motta (Torino 1923 – Roma 2013). Scrittore e partigiano. Nel 1950 fondò e diresse la rivista “Cultura e realtà” assieme a Felice Balbo, Claudio Napoleoni, Cesare Pavese, Italo Calvino, Natalìa Ginzburg, e Alberto Moravia poi entrò in RAI divenendone vicedirettore

[22] Antonio Tatò (Roma 1921 – Roma 1992). Politico e sindacalista. Responsabile del Servizio stampa della CGIL (1949-1968); responsabile dell’Ufficio stampa del PCI e dal 1969 segretario personale di Enrico Berlinguer sino alla morte di quest’ultimo (1984). Laureato in giurisprudenza all’Università “La Sapienza” di Roma. Negli anni del liceo e dell’Università frequentò l’Azione Cattolica. Nel 1939 entrò nell’azione clandestina antifascista romana. Nel 1943 collaborò con Pietro Ingrao, Lucio Lombardo Radice e Franco Ròdano al giornale clandestino “Pugno chiuso”, di cui uscì un solo numero. Nel 1943 fu arrestato e portato al carcere di Regina Coeli per l’attività sovversiva svolta nel “Partito Comunista Cristiano” e per non essersi presentato alle armi nel 1941 quando vi fu chiamato. Fu liberato dopo la caduta del fascismo (25 luglio 1943). Nel settembre del 1943, sotto l’occupazione tedesca di Roma, assieme a Franco Ròdano fondò il “Movimento dei Cattolici Comunisti” e iniziò a scrivere su “Voce operaia” organo del suddetto Movimento. Partecipò alla guerriglia partigiana a Roma sino al 4 giugno del 1944. Nel dicembre del 1945 entrò nel PCI e diventò sindacalista della CGIL.

[23] Claudio Napoleoni (L’Aquila 1924 – Andorno Micca di Biella 1988). Economista marxista, docente universitario e uomo politico. Diresse assieme a Ròdano la Rivista trimestrale. Fu parlamentare della Sinistra indipendente, molto vicino alle posizioni comuniste. Fu eletto deputato indipendente nelle liste del PCI nel 1976, nel 1983 divenne senatore. Rivolse i suoi studi soprattutto all’analisi del pensiero marxista. Tra le sue opere principali: Dizionario di Economia politica, 1956; Il pensiero economico del Novecento, 1963; Smith, Ricardo e Marx, 1970.

[24] Gabriele De Rosa (Castellammare di Stabia 1917 – Roma 2009). Storico e uomo politico. Nel 1944 fondò il Movimento Cristiano-Sociale, che confluì nel Partito della Sinistra Cristiana con Ròdano e Ossicini. Nel 1945 aderì al PCI e divenne redattore dell’Unità. Nel 1949 dopo il Decreto di scomunica dei comunisti emanato da Pio XII De Rosa lasciò il PCI ed entrò nell’ala sinistra della DC diretta da Giuseppe Dossetti. Nel 1954 conobbe e divenne amico di don Luigi Sturzo. Nel 1958 divenne professore universitario di Storia all’Università di Padova e la sua attività di storico si concentrò sul movimento cattolico in Italia, su Alcide De Gasperi e don Luigi Sturzo. Fu eletto senatore della DC negli anni Novanta.

[25] Adriano Ossicini (Roma 1920). Medico psichiatra e uomo politico. Partigiano e docente universitario di psichiatria. Fu Ministro per la Famiglia nel Governo Dini (1995-1996). Nacque da una famiglia cattolica e antifascista vicina all’Azione Cattolica. Durante gli studi universitari conobbe Franco Ròdano. Il 18 maggio 1943 fu arrestato assieme a Ròdano e rimase in carcere per due mesi (sino alla caduta del fascismo). In carcere conobbe mons. Domenico Tardini che ne era il cappellano. L’8 settembre del 1943 assieme a Luigi Longo e a Antonello Trombadori si armò per partecipare alla Resistenza contro i tedeschi. Il 10 settembre a Porta San Paolo partecipò al conflitto a fuoco contro di essi. Dopo aver studiato medicina ed essersi specializzato in psichiatria, alla fine del 1944, entrò all’Ospedale Fatebenefratelli, che lasciò nel 1947 per la carriera universitaria. Già nel 1938 come militante della FUCI fu schedato per attività antifasciste. Amico di Alcide De Gasperi e Guido Gonella. Ebbe anche delle amicizie presso il regime fascista (Giovanni Gentile e p. Agostino Gemelli). Quando Ròdano gli prospettò l’idea di entrare nel PCI iniziò ad allontanarsi da lui pur avendo fondato con lui nel 1944 il Movimento Cattolici Comunisti, che nel settembre del 1944 divenne Partito della Sinistra Cristiana con la confluenza del Movimento Cristiano-Sociale di Gabriele De Rosa. Il 26 agosto del 1944 entrò nelle ACLI (il sindacato democristiano). Quando nel 1945 il Partito della Sinistra Cristiana si sciolse, Ròdano, Balbo, Tatò e De Rosa entrarono nel PCI, Ossicini no, restò fuori da ogni Partito (compresa la DC). Nel 1968 fu eletto senatore come indipendente nelle liste del PCI e vi rimase sino al 1992. Nel 2001 passò a “La Margherita” e poi al “Partito Democratico”. Nel 2007 assieme a Rutelli sostenne Walter Veltroni come leader del PD.

[26] Nella “Porta della Morte” della basilica di San Pietro Giacomo Manzù ha voluto raffigurare anche don De Luca, in segno di riconoscenza.