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Grillo duce? Ed altri ricorsi
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Ho ricevuto questa mail:

«Carissimo,

mi chiedo una cosa: esiste una lobby della rabbia? Cioè: tutto questo compiacimento dei mass media sui casi di corruzione serve certo a distrarre dai veri padroni e dai veri colpevoli ma è possibile che il sistema abbia già in serbo delle forze estremiste per una finta rivoluzione e quindi gli faccia molto comodo esasperare la rabbia della gente? Se analizza il linguaggio di massa attuale c'è quasi un non detto interessante: cioè avverto quasi uno stupore per il fatto che gli italiani resistano calmi e non si ribellino ancora… ad esempio il vergognoso Ferrara che si stupisce che nessuno si suicidi più per probemi economici... (notizia ingigantita e non indicativa sul resto dei suicidi...) da un certo punto di vista ideale è vero: molta paura e viltà frena una giusta rivolta che ci vorrebbe… ma chi la rappresenta? È la mancanza di minoranza sane organizzate che frena una possibile rivolta... oggi al società sembra molto complessa e le persone sono divise... manca poi una tensione ideale che solo il cristianesimo potrebbe dare ad una giusta rivolta, ma le élites (Opus Dei; Cl e altri...) dormono sonni tranquilli o fanno gli struzzi....o sono colluse per questioni da orticello... già Lenin aveva profetizzato (anche se ha errato i tempi): nel 1960 l’Europa sarà così corrotta che la prenderemo senza colpo ferire... secondo Lei è possibile che covi già un organizzazione neocomunista che interverrà quando il debacle economico sarà improvviso?

Ad esempio: il movimento dei Forconi mi è simpatico e dice cose interessanti ma poi su facebook propongono la Boccassini quale icona etica... non mi sembra il massimo... non si fa molta strada con simili icone... anche considerando che parte della magistratura da aiutando moltissimo la Finanza con questa recente ondata di indagini… è giusto combattere la corruzione ma tutto questo zelo improvviso (anche verso i Marzotto) mi sa di purghe dittatoriali.

E di puritanesimo tirannico...

Suo, Prati»



Andiamo per ordine, caro amico. I temi che affronti sono grossi e roventi, ma – in qualche modo – io non sono d’accordo con le tue conclusioni. Molti come te sospettano un complotto in questa tempesta di sdegno e di inchieste per la corruzione politica: perché proprio ora?, si domandano. Quali sono i poteri forti nell’ombra che aizzano l’indignazione?

Ma i poteri forti hanno già agito: tramite Napolitano, hanno sospeso la democrazia. Ci hanno dato il governo dei tecnici col loro fiduciario Mario Monti, dirigente di Goldman Sachs e della Trilateral: non ti basta come complotto? Ne vuoi intravvedere un altro, dietro questo, più sottile e oscuro? Ci dovremmo trattenere dall’indignarci per il liquame a cui è giunta la «politica», per timore che ciò faccia comodo a «veri padroni» che non si sa quali sono? Un complotto alla volta, per favore.

Se c’è una lobby della rabbia, confesso di appartenervi. La «politica» è occupata da elementi inqualificabili che bisogna eliminare, perché da soli non sloggiano – e dopo aver consegnato la responsabilità di governo ai creditori esteri, stanno architettando leggine elettorali su misura per restare aggrappati al seggio e allo stipendio. È il momento storico – l’ho scritto spesso – in cui il potere si accaparra la «legalità» ma ha perso ogni legittimità: il momento delle rivoluzioni. Il guaio è che in Italia, la rivoluzione non verrà.

Il compiacimento dei mass media per denunciare la corruzione? Le procure che indagano? Provo a leggerle non come un complotto ma come una presa di coscienza collettiva, e magari di una moda giudiziaria di procuratori sempre assetati di popolarità – che sono il vero, attuale rischio immanente da cui dobbiamo guardarci . La domanda «perché proprio ora?» non mi appassiona. Perché il «proprio ora» è ricorrente nella storia italiana, storia di un popolo incapace di autogoverno.

Hai mai pensato a quanta rabbia ha, contro la «politica», Dante Alighieri? Ha riempito il suo Inferno di italiani potenti e farabutti, Papi prevaricatori e venali, signori spregevoli, politici criminali, fazioni inestinguibili, orditori di complotti, di voltafaccia e diserzioni «alla Badoglio», pugnalatori, capaci di crudeltà spaventose, uno peggio dell’altro: l’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini che condannò a morir di fame nella torre (di cui fece gettar via le chiavi) il conte Ugolino e i suoi figli, non è più nefando della sua vittima: come lui, Ugolino è confitto nel ghiaccio dell’Antenora, il girone dei traditori della patria. Il tradimento della patria, il parteggiare di pancia e di convenienza senza mai requie – guelfi contro ghibellini, bianchi contro neri – gli interessi più biechi, il rifiutarsi (o l’incapacità di elevarsi) al livello del bene comune universale (l’Impero dantesco) sono arrivati al punto che Dante non fa che denunciare, indignarsi, schifarsi, gridare: «Ahi serva Italia! Vituperio delle genti! Non donna di provincie, ma bordello!». Sembra uno di noi, l’Alighieri.

Quella fu una delle fasi storiche in cui la «politica» è così intollerabilmente guasta, che un intellettuale non può esimersi dalla politica; anzi Dante non può quasi pensare ad altro: esattamente come un nostro contemporaneo, proprio come noi. Anche noi oggi siamo ossessionati dalla «politica», neuroticamente assorbiti dalla «politica» e dalle notizie politiche. Non dovremmo – ci sono occupazioni molto più interessanti – ma non possiamo farne a meno. È come quando c’è la guerra: allora le donne e le sorelle dei combattenti non sanno pensare ad altro, fanno calze di lana e preparano pacchi da inviare ai loro figli, mariti e fratelli. Risparmiano per mandare sigarette e cibo. I ragazzini arrotolano striscie di carta per fare scaldini per le gavette. Nei bar e nelle famiglie di discutono le grandi strategie, per approvarle o criticarle. Sono cose piccole e ingenue, ma indicano che tutti hanno la testa e il cuore ansiosamente là dove si muore, e dove il nemico può sfondare; e vogliono partecipare allo sforzo bellico (1); tutti sentono il pericolo estremo come loro proprio, e se se distraggono da quell’idea fissa e vanno per un’ora a divertirsi, temono di aver mancato di dare l’appoggio della loro volontà; se gustano un buon pranzo, si rimproverano pensando ai soldati che mangiano male, e gli pare di aver indebolito il fronte dei cuori.

In qualche modo, per quanto gli conceda la sua torpida intelligenza (Monti non ha idee sue: le ha assorbite tutte nei noti salotti, è un vassallo intellettuale), è questo il sentimento che vuole suscitare Mario Monti quando ripete che questa è «una guerra»: l’unità di fronte al pericolo estremo. Ma può un gelido eurocrate fare un tale appello? No, non ha la legittimità.

Noi ci arrovelliamo per la «politica» perché sentiamo che oggi è «guerra»: ma una guerra dove il nemico è interno, le caste predatorie e inadempienti, la burocrazia parassitaria, i politici di professione – e questo impedisce l’unità dei cuori necessaria. La guerra non può essere che guerra civile. Eventualità, o meglio «emergenza», che ricorre costantemente nell’Italia che non si sa governare.

Mario Monti è stato talora chiamato «il podestà straniero»; altra figura ricorrente nella storia italica, dove a volte albeggia la coscienza che siamo incapaci di autonomia. Ma è un’adulazione. Monti è piuttosto il proconsole delle potenze occupanti. Altre volte, furono i «signori governatori» inviati da Madrid o da Vienna, da Parigi, perché l’incapacità di essere uniti aveva questo esito ripetitivo: che una fazione di una città chiamava, per farsi aiutare ad eliminare l’altra, lo straniero e i suoi eserciti; sempre enormemente più potenti di quelli che potevano mettere in campo gli staterelli italiani, e non solo perché più demograficamente forniti; è che i duchi e signorotti italiani risparmiavano sulla difesa militare esterna, bastando loro guardie del corpo per parare le pugnalate degli oppositori interni, i loro veri nemici. Oggi, è lo stesso.

Solo che non è più politicamente corretto che l’armata germanica venga a raddrizzare l’Italia debitrice, o che la BCE e il FMI ci invadano coi cingolati – sarebbe tutto troppo chiaro – e quindi han delegato il loro fiduciario. Il guaio è che essendo anche Monti (la Fornero, Grilli, Profumo, eccetera) italiani, sono di una completa idiozia politica. E peggiorano la situazione, sbagliando tutti i bersagli. Per dire: mentre noi schiumiamo di rabbia per la «politica» e i suoi costi insostenibili ed odiosi, loro si fanno sostenere da questo Parlamento – che invece deve così evidentemente essere incenerito – mentre ci aumentano le tasse che servono solo ad alimentare una burocrazia corrotta dalla politica e dunque insaziabile e oltre che inefficiente; e ci chiamano alla «guerra» sì, ma contro «l’evasore fiscale». Aizzare contro il nemico interno, i kulaki che «accaparrano i grani», i «sabotatori del piano quinquennale», era la tipica scusa sanguinaria con cui i regimi comunisti sviavano l’attenzione dalle colpe che erano solo loro, della loro ideologia applicata alla realtà: qui, sì, ti dò ragione caro lettore, c’è qualcosa di «neo-comunista» nel delegato delle banche. Ma il neocomunismo è già instaurato. Il complotto ha già avuto successo.

In gran parte però, ne siamo colpevoli collettivamente noi. Quasi tutte le nostre creazioni politiche più originali (perché l’Italia è un ricorrente laboratorio politico) sono in realtà l’effetto ridicolo e disperato della nostra incapacità di governarci come nazione unitaria. Prendiamo i Comuni del Medio Evo, celebrati dalla nostra storia «patria» auto-adulatrice: anzitutto nascono dal rigetto bottegaio e retrivo di ogni idea politica universale, da un particolarismo ripugnante. Nella Lega Lombarda, celebrata come prima gemma di «unità» contro il Barbarossa invasore, bisogna subito avvertire che Pavia non entrò: stava con l’imperatore non perché gliene infischiasse nulla dell’impero, ma per odio a Milano. Due città con lo stesso dialetto, ad un tiro di balestra di distanza, volevano l’una la distruzione dell’altra. Nel Nord germanico, negli stessi decenni un centinaio di Città-Stato si unirono nella Lega Anseatica, ben vedendo i vantaggi dell’interesse comune, e restarono uniti per 300 anni.

E poi, sappiamo come ogni Comune si gestisse all’interno: si davano un assetto di repubblica (erano oligarchie di mercanti e ricconi senza nobiltà), si accordavano su un quadro istituzionale in qualche modo «democratico»: solo che la minoranza, appena perdeva democraticamente, invece di esercitare lealmente l’opposizione, metteva tutte le sue energie a scavalcare il quadro istituzionale per prendere o mantenere il potere, strappandolo indebitamente alla maggioranza. Da qui, dentro ogni cinta muraria, il degrado e lo spregio delle leggi e delle norme di convivenza politica; da qui la necessità, visto che il quadro istituzionale era scardinato, di prevalere con la forza o l’astuzia (lione o volpe, dice Machiavelli) anziché a norma di diritto; di qui una minuscola ma permanente e crudelissima guerra civile; con colpi di mano, balenar di pugnali nel buio (alla schiena) , accordi sanciti oggi e traditi domani, duelli di strada, adesione a fazioni che avevano perso il significato originario (guelfi o ghibellini, bianchi o neri; esattamente come oggi «sinistra» e «destra») se non quello di identificare «contro chi» si fa il tifo.

Talvolta, almeno, questi nostri antenati ebbero la lucidità di dover ricorrere ad un podestà straniero – straniero doveva essere perché non legato ad alcuna fazione cittadina – da cui farsi governare, essendone loro incapaci per eccessiva faziosità; ma erano loro che lo decidevano (2). Mario Monti è stato scelto per noi. È il governatore.

E le Signorie? Lo splendore dei palazzi e degli artisti di cui seppero servirsi, l’irraggiamento «culturale» che esercitarono anche all’estero, non deve far dimenticare la loro radicale illegittimità: un ricco banchiere, o un «condottiero» di ventura a capo di una truppa professionale da operetta, arraffa il potere o con i soldi e corruzione, o con la minaccia, o perché le fazioni «repubblicane» comunali, semplicemente, si sono dissanguate nelle loro lotte intestine a forza di spregiare le norme istituzionali. Tali signori si reggono al potere senza alcuna giustificazione giuridica; pensano di non averne bisogno, abituati a constatare che la «politica» è solo questione di forza e la furbizia, convinti che la «politica» sia solo forza, furbizia, corrompere e sopraffare. Essendo privi di legittimazione, devono guardarsi continuamente le spalle da attentati spaventosi di pretendenti che ritengono di poter pretendere il loro posto, perché forti altrettanto; vedi la Congiura dei Pazzi contro il Medici. Ed anche Federico da Montefeltro, come si vede nel ritratto che commissionò a Pier della Francesca, si fece scalpellare il naso dal chirurgo per il noto motivo: avendo perso un occhio in uno scontro, doveva mantenere il campo visivo più ampio all’occhio rimasto, per via delle pugnalate che gli potevano venire dall’angolo morto.

Il loro potere era acutamente «personale», come oggi i padroncini delle piccole imprese (altro segno della pochezza italiana) , e difficilmente le Signorie duravano più del fondatore. Erano inoltre di un egoismo, di un particolarismo e di una miopia da far gridare di rabbia. Nel film «Il mestiere delle Armi» di Olmi, si mostra chiaramente come i lanzichenecchi luterani che vengono a colpire il Papato siano, all’inizio, quattro gatti male armati, che si potevano disperdere facilmente. Ma il Gonzaga di Mantova si accorda con loro per farli passare sui suoi territori: si sbrighino ad andare a Roma, ma noi evitiamo «il gran danno della guerra». Il solo che prova a fermarli è Giovanni dalle Bande Nere (mica per patriottismo: era un Medici, e il Papa era suo zio), ma il Gonzaga gli nega il passaggio che aveva appena consentito ai lanzi. Il duca di Ferrara, l’Este, fa anche peggio. Per brigare un matrimonio aristocratico con la famiglia imperiale, non solo lascia passare i lanzi, ma perché sloggino presto e da amici gli regala quattro falconetti: le artiglierie d’ultimo modello (perché noi italiani, imbelli, siamo sempre stati inventori di meravigliose tecnologie militari: le più eleganti corazze, l’architettura militare più geniale, i cannoni più perforanti). La torma luterana, resa invincibile dall’inettitudine della «classe dirigente» italiota, attraversa la penisola come un coltello nel burro, saccheggiando sistematicamente tutto sul percorso (non ricevevano il soldo), e misero a ferro e fuoco Roma. Mentre il Papa tremebondo se ne stava acquattato a Castel Sant’Angelo, i lanzi massacravano preti nei modi più atrocemente fantasiosi, stupravano donne, arraffavano reliquiari d’oro e d’argento, rotolavano botti di vino, spandevano la lue e la peste. E che fa in quel frangente Pompeo Colonna, alto esponente della più antica aristocrazia romana? Ne approfitta con le sue bande armate per dar la caccia ai nobili seguaci del Papa Medici (contro cui aveva invano tentato un golpe), dando una bella mano alla devastazione della città: tipica ed esimia figura dell’italiano che dà il calcio dell’asino all’italiano sconfitto, più abietto di qualsiasi lanzichenecco.

Il Sacco di Roma è oggi un fenomeno permanente, operato da quelli che chiamiamo «i nostri rappresentanti». Allora fu un evento che impressionò il mondo, come una replica delle invasioni barbariche. Ne fu sconvolto, ed è tutto dire, persino Enrico VIII, quello che aveva abbandonato la Chiesa per Anna Bolena. Il Rinascimento finì allora: si vide che sotto i damaschi, l’eleganza, la cultura, i cannoni nuovissimi, le formidabili fortificazioni firmate da architetti di grido, le lucide armature dei Signori (il celebrato Made in Italy), non c’era nulla. Tutta apparenza e niente nerbo. Il popolo si assoggettò volentieri ai nuovi padroni stranieri, privo com’era di ogni solidarietà col Signore di prima: O Franza o Spagna purché se magna, fu l’italianissima morale che ne trasse.

Il Machiavelli, la più chiara mente di allora – che come noi contemporanei «non poteva pensare ad altro che alla politica», essendo la politica così guasta, ed essendo così evidente ciò che andava fatto, e che le pretese classi dirigenti non facevano – scrisse Il Principe. Per avvertire la classe dirigente di questo piccolo fatto internazionale: che erano nati i grandi regni sovrani. La Francia e l’Inghilterra da secoli. E adesso anche la Spagna, una polvere di localismi che Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia unificarono e fecero Stato lanciandoli in grandi imprese – dalla Reconquista contro gli occupanti arabi al popolamento dell’America appena scoperta coi loro finanziamenti. È la chiamata a far grandi cose insieme che unifica genti diverse in uno Stato, e Ferdinando (scriveva Machiavelli) «fu sempre animoso datore di principii». Per questo «da debil fortuna è montato a questa grandezza», pur dovendo operare con «uno Stato nuovo» (appena fatto) e «sudditi dubbi», sapendoli tenere «uniti e in ordine». Ecco, ci vuol qualcuno che faccia come lui unificando l’Italia; e siccome Cesare Borgia era spagnolo e sembrava un tipo deciso, Machiavelli sperò in lui. S’ingannava, perché Cesare non era migliore degli altri signorotti. Ugualmente inetto e ancorché crudele, senza ambizione da statista. Ma fu un nobile auto-inganno; quanti di noi non hanno parimenti sperato che Berlusconi sarebbe stato capace di governo? Non potevamo immaginare che non era capace nemmeno di auto-governo.

Tipicamente, italicamente ignobile fu il modo in cui gli incapaci furbetti liquidarono i consigli strategici di Machiavelli: dissero che erano «immorali». Il Principe fu messo all’indice per immoralità dal Vaticano: un Vaticano che si lasciava governare da Papi nepotisti in conclavi truccati, Pontefici con figli e concubine e dediti a spendere i milioni dell’obolo di San Pietro in «seratine eleganti» con le prostitute più care di Roma, nude.

Saltiamo i secoli, arriviamo ad oggi. A questi parlamentari che, avendo tradito tutti gli elettori, svenduto la nostra sovranità, stanno architettando una leggina elettorale fatta apposta per impedire la vittoria del movimento di Grillo, e salvare i loro seggi. Una abiezione delinquenziale intollerabile. L’ultima dimostrazione di come questi hanno corrotto tutte le istituzioni, per rendere possibile la corruzione loro; ma istituzioni corrotte ci hanno corrotti tutti, come popolo, esaurendo ogni virtù popolare, cattolicesimo, onestà, laboriosità, tutto.

Per questo, come ho già detto, voterò Grillo, come tantissimi, al solo scopo di cacciare questi farabutti: se prende 50 o 100 seggi, sono 50 o 100 parlamentari attuali che non troveranno posto. Non mi piace l’utopismo ecologista alla Casaleggio, né il programma no-technology totale condiviso dai suoi seguaci; men che meno mi piace il fatto che tutti i grillini si sentano angeli puri, un moralismo di questo stampo porta alla dittatura della Virtù, a qualche tipo di Terrore. So che le fedine penali pulite non sostituiscono un programma di governo. Non mi è piaciuto che Grillo abbia candidato Di Pietro al Quirinale: temo che alla fine, questo movimento finisca per creare la repubblica delle Procure giustizialiste, con Ingroia e la Boccassini come ministri e leader – e gestori del nuovo Terrore. Ma immagino che dopo la vittoria, il movimento si polverizzerà e non sarà capace di nulla fare. Lo voto solo come sciacquone, come lo stura-cessi collettivo che deve strurare la latrina traboccante di liquami.

Però, però... so che furono questi i sentimenti con cui, tra gli anni '20 e '30, le masse elettorali non necessariamente fasciste o naziste mandarono al potere Mussolini ed Hitler. Questi ci salvano dal regime bolscevico, poi li sloggeranno, pensarono tanti in Germania. E in Italia fu lo stesso, con una quantità di motivi in più: disprezzo della monarchia (il fascismo nascente era repubblicano), illegittimità dei governicchi alla Facta, la gioventù appena uscita dalle trincee non tollerava di tornare pecorilmente sotto quelle oligarchie piemontesi senza legittimità. E moltissimi buoni borghesi pensarono: i fascisti sono lo sciacquone del parlamentarismo corrotto, sono un fenomeno passeggero.

Ecco, in questo Grillo è un analogo di Mussolini. Al di là delle ovvie diversità, e della statura dei due personaggi, il movimento 5 Stelle occupa oggi quell’orma, quella funzione e casella ricorrente della storia italiana. E suscita le stesse speranze a breve e gli stessi timori a lungo termine. E già Grillo si lascia scappare atteggiamenti ridicolmente mussoliniani, prima ancora di avere il potere. Ma tuttavia, lo voterò. Perché c’è forse una alternativa? È la sola che ci resta.

Questa è l’Italia che non si sa governare, che volete farci.




1) Questo è il motivo, fra parentesi, per cui le guerre sono state fertili di invenzioni scientifico-tecnologiche: chimici, ingegneri, tecnici sentono l’urgenza di contribuire alla vittoria, non pensano ad altro, come tutte le altre categorie sociali (eccettuati i profittatori).
2) Nel 1342 i fiorentini chiamarono come podestà Walter (Gualtieri) de Brienne, duca di Atene e connestabile di Francia, nel pieno della crisi economica provocata dalla rovina delle banche cittadine dopo che il re d’Inghilterra Edoardo III aveva sovranamente ripudiato il debito con cui i banchieri fiorentini dissanguavano l’economia inglese, accaparrandosi il prodotto principale del paese, le lane . Questi banchieri fiorentini erano «guelfi neri», il che allora significava «poteri forti transnazionali». Il loro «patriottismo» l’avevano dimostrato già nel 1315, quando avevano fatto abolire la tassa sul reddito a Firenze (dove abitavano loro) per aggravarle sul contado. Esentatisi così dalle molestie tributarie, il Comune aveva ovviamente visto aumentare orribilmente il suo debito pubblico: e gli stessi banchieri ne approfittarono per indebitare la loro «patria». Nel 1342, Firenze doveva 1,8 milioni di fiorini d’oro ai suoi banchieri, che esigevano un interesse del 15%; il Comune dovette pagare in anticipo sei anni di introiti delle gabelle e dazi, per placare i suoi banchieri patrioti. Walter de Brienne, appena divenuto podestà, si comportò da statista e vero patriota
lui straniero – ripudiando il debito, dichiarò Firenze insolvente. E per giunta istituì le «prestanze», ossia i prestiti forzosi che i ricchissimi fiorentini dovevano fare alla Signoria, a tassi sfavorevoli. I ceti bassi fiorentini volevano che Walter De Brienne restasse signore a vita; i signori complottarono contro di lui per ucciderlo, sicchè dopo dieci mesi, il Brienne fuggì e lasciò la carica, il 26 luglio 1343. «La cacciata del duca di Atene» divenne, per volontà dei banchieri, l’episodio mitico della patriottica liberazione della città dal giogo straniero; Andrea Orcagna fu incaricato di illustrare «l’epica impresa» in affreschi ufficiali.


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