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Questi giudici
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«Andreotti e Cossiga complici dell’assassinio di Aldo Moro. Le forze dell’ordine conoscevano sin dal primo momento il nascondiglio in cui era stato imprigionato Moro ma non vollero intervenire». Gladio, la DC, la CIA: «Gli americani non potevano accettare un governo con i comunisti né i sovietici consentire il dialogo comunisti-cattolici, perché questo avrebbe scardinato il “modello” dell'Est».

Era il luglio scorso, Ferdinando Imposimato lanciava queste accuse mentre girava la penisola a pubblicizzare il suo libro «I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia». Poteva fare queste accuse perché in possesso di «documenti inediti», come strillava la copertina.

Ferdinando Imposimato
  Ferdinando Imposimato
Tutto credibile, tutto vero: anche perché Ferdinando Imposimato, 35 anni fa, era il valoroso giudice istruttore che indagò sull’assassinio di Moro. Un magistrato in un caso di «delitto di Stato» con punti effettivamente oscurissimi. Un magistrato, lo dicono tutti, di eccezionale coraggio ed alta intelligenza. Tutta una serie di media, tipo Il Fatto Quotidiano, e certi talk show televisivi, hanno dato la grancassa adeguata a queste rivelazioni. Imposimato le basava su due testimoni chiave: un ex brigadiere della Guardia di Finanza, G.L. , e un ufficiale dell’esercito esperto in elettronica, allora affiliato a Gladio. Quest’ultimo, che si faceva chiamare Oscar Puddu, in quei tragici giorni era stato addirittura sistemato in un appartamento al piano superiore a quello dove Moro era tenuto prigioniero, ed intercettava gli interrogatori a cui i brigatisti rossi sottoponevano il politico. «Cosa si aspetta a riaprire le indagini?», ha chiesto il grande ex-magistrato, per sfida. Ed ha consegnato alla Procura di Roma la chiavetta con le mail che aveva scambiato coi due ex-militari, gonfie delle scottanti rivelazioni.

I carabinieri hanno indagato. E sono risaliti facilmente all’ex brigadiere G.L, ossia Giovanni Ladu, oggi in pensione, abitante a Novara a raccoglitore di ritagli di giornale sul «complotto Moro». All’ex ufficiale Oscar Puddu non sono potuti risalire, perché non esiste: era sempre lo stesso Gianni Ladu che si metteva in contatto con Imposimato, per mail, e lo nutriva di «rivelazioni». Si è scoperto anche che Giovanni Ladu aveva già turlupinato Imposimato una volta, nel 2008, quando, «dopo aver letto il suo libro sempre su Moro Doveva morire, e gli consegnò un memoria dattiloscritta su particolari scottanti relativi al sequestro dell’ex presidente della Democrazia cristiana». Un mitomane e impostore, recidivo e già screditato. Il libro di Imposimato «I 55 Giorni» si basa tutte su queste «rivelazioni». Imposimato Abbindolato.

Per fortuna che Imposimato non è più magistrato, con i poteri totali di incarcerare, intercettare, costruire accuse in base a teoremi di sua invenzione e malcotti. Ne conosciamo un altro: Antonio Ingroia, naturalmente. Per anni da procuratore antimafia a Palermo, ha brillato sui media amici e terrorizzato con l’uso senza limiti dei poteri suddetti. Le sue indagini c’entrano qualcosa con il suicidio di un altro giudice, Luigi Lombardini, i cui metodi di trattamento dei pentiti in Sardegna non piacevano alla procura di Palermo. Ha contribuito a distruggere Contrada il grande poliziotto condannato per «concorso esterno in associazione mafiosa», ha «dimostrato» che Marcello Dell’Utri faceva da trait d’union tra Mafia e imprenditoria del nord; inseguendo il gran complotto – la «trattativa Stato-Mafia» – ha perseguitato per anni il generale dei carabinieri Mario Mori, l’autore della cattura di Totò Riina. Per decenni, Ingroia ha fatto paura a tutti: anche gli investigatori, memori della distruzione di Contrada, e persino ai colleghi magistrati, memori del suicidio di Lombardini, perché Ingroia non ci metteva niente a inserirli nella sua eterna inchiesta «Trattativa Stato-Mafia», a mettergli i telefoni sotto controllo, e a incarcerarli per farli confessare.

Anche lui, come Imposimato, credeva a speciali testimoni e pentiti, quelli che – avendo capito – confermavano le sue teorie e teoremi. Fra cui il figlio di Ciancimino, ripetutamente scoperto a mentire e fabbricare documenti falsi, ma continuamente riproposto come testimone-chiave per la famigerata Trattativa. Coinvolge nell’inchiesta l’ex ministro Nicola Mancino, e coinvolge il presidente della repubblica Napolitano perché Mancino gli telefonava...

Nell’ottobre del 2011 , è l’Ingroia che «partecipa come ospite al congresso del Partito dei Comunisti Italiani, dove dichiara «un magistrato deve essere imparziale quando esercita le sue funzioni ma io confesso che non mi sento del tutto imparziale. Anzi, mi sento partigiano, sono un partigiano della Costituzione» (da Wikipedia). Ma non si può fargli niente: è intoccabile e non-imputabile per definizione, in più Magistratura Democratica (giudici come lui) lo spalleggia e fa muro per lui. Nessuna critica è ammessa, pena incriminazione. magari per concorso esterno in associazione mafiosa.

Poi Ingroia si è voluto dare alla politica: le lodi de Il Fatto Quotidiano e gli applausi delle sinistre giustizialiste e manettare lo hanno illuso di avere dietro milioni di potenziali elettori. Ha messo insieme una lista per le elezioni di febbraio 2013. Credono in lui, e si mettono nella lista Ingroia, il figlio di Pio La Torre, il giornalista Sandro Ruotolo, l’ex grillino Favia, il segretario di Rifondazione Comunista Ferrero, la sorella di Stefano Cucchi, il noto «massacrato in carcere» molto pubblicizzato.

E allora si è visto chi è Ingroia senza la toga, come concorrente nel dibattito politico: una mente confusa, incapace di mettere insieme due frasi coordinate secondo logica, quasi un caso pietoso mentale. Ottiene il 2% dei voti. E oltretutto si rivela un furbastro pronto a piegare le norme a suo vantaggio e a approfittare di tutti gli inghippi «legali» per sé; uno con nessun senso del dovere. Si è fatto mettere fuori ruolo (mantenendo il posto) per andare un anno in Guatemala, su incarico Onu, a dirigere una unità investigativa contro il narcotrafffico; dopo soli due mesi abbandona l’incarico per darsi alla politica. Da Wikipedia: «Carmen Ibarra, presidente del Movimiento Pro Justicia ha parlato di “gesto irresponsabile” e “comportamento ridicolo” ». Beata lei che può dirlo, non essendo italiana, dunque non passibile di incarcerazione preventiva, né di incriminazione per «associazione esterna».



Il ridicolo Ingroia, perse le elezioni (s’era illuso, le folle manettare non si sono palesate alle urne), vuol tornare al suo posto alla Procura di Palermo. Invece viene trasferito ad Aosta, perché è la sola città in cui non si sia candidato. È la legge, ma lui – ovvio – fa ricorso al Tar contro la decisione del Consiglio Superiore della Magistratura: fa capire che è una vendetta dei gran congiurati del Complotto Stato-Mafia, un provvedimento secondo lui «ingiusto e illegittimo». Aggiunge che gli «erano dovute altre destinazioni, a cominciare dalla Procura Nazionale Antimafia», nientemeno. Lì « avrei potuto dare un maggior contributo».

Crede ancora di essere procuratore, ossia onnipotente, un padrone dello Stato; uno che deve essere accontentato in tutti i suoi desideri, uno che non ha superiori, e decide da sé dove essere destinato e nessun altro si opponga, altrimenti ti incrimina per concorso esterno, ti incarcera per farti confessare, ed ha già due pentiti che ti hanno visto baciare Totò Riina....

Invece, per fortuna, Ingroia è ormai caduto nel mondo reale. Senza protezione della toga, il Tar gli dà torto. Lui annuncia le dimissioni dalla magistratura, immediatamente accettate (con sospiro di sollievo), un atto da presuntuoso deficiente. Dopo di che, si rivela uno senz’arte né parte, che vuole una cosa sola: restare in Sicilia e con un bello stipendio. Il governatore siciliano Crocetta lo assume – o così annuncia – come commissario della società regionale per l’informatizzazione dell’amministrazione; incarico in cui non sembra abbia mai lavorato. Le ultime notizie dicono che ha cominciato una nuova carriera come avvocato penalista, tutela gli interessi della «famiglie delle vittime dell’attentato di via dei Georgofili», sempre nel settore «trattativa Stato-Mafia». Siamo sicuri che non caverà un ragno dal buco. Non ha più la toga, non ha più gli enormi poteri di arbitrio sulla libertà di persone, da rovinare con le accuse nate nella sua povera, confusa mente incapace di mettere insieme un ragionamento logico.

Però, ecco la domanda: quanti sono i magistrati come lui, come Ingroia e Imposimato, a cui sono mantenuti i poteri d’arbitrio? Gli enormi poteri di rovinare vite umane con anni di carcerazioni preventive con cui costoro sostituiscono la loro incapacità di condurre bene e con intelligenza e competenza, le indagini? Quanti si innamorano di loro teoremi fantastici – incapaci come sono anche come cospirazionisti – e cercano «prove» strappando confessioni con la carcerazione preventiva, mettendo sotto controllo centinaia di telefoni di non-indagati ossia gettando la rete a strascico in attesa che qualche frase compromettente venga pronunciata, come sicuramente accade? Quanti selezionano «pentiti» che confermano le loro fantasie portandoli ad accusare galantuomini in aula, come testimoni più autorevoli dei galantuomini che accusano?

Diciamocelo: ce ne sono migliaia che continuano a stare lì, ad usare questi poteri assoluti, ad essere impunibili e a godere di carriera automatica anche dopo continui insuccessi nelle loro accuse, senza mai pagare per i loro «errori» (se vogliamo chiamarli così: ci sono altri appellativi, ma non vogliamo farci incarcerare preventivamente).

Non abbiamo difesa. Ah, a proposito: sapete che chi scritto al prefazione al libro di Imposimato tutto basato sulle rivelazioni dell’impostore mitomane che lo ha imbrogliato (facile, quando il magistrato «vuol credere» a uno che conferma le sue teorie) persino facendosi passare per due persone, quando era solo una? Il giudice Esposito . Quello d’a’ Cassazzione, quello che parla un dialetto da camorrista. Quello che scrive la motivazione che ha condannato Berlusconi nel processo Mediaset, anticipando quel che avrebbe scritto in un’intervista aum aum con un giornalista del Mattino, che parlava un dialetto come lui ma più pulito....

Ecco a chi è in mano «la giustizia».



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