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Medio Oriente, c’è un nuovo cane idrofobo nel quartiere
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Ormai si perde il conto degli attentati in Libano: stragi contro stragi, strategia della tensione, forse ritorsioni forse false flag, con un solo evidente scopo: spingere le componenti etnico-religiose del Paese l’una contro l’altra. Il 2 gennaio la bomba (almeno cinque morti) ha colpito un quartiere definito «roccaforte di Hezbollah», ossia delle minoranza sciita. È, o vuol apparire, come la risposta-ritorsione alla bomba che una settimana prima ha fatto saltare Mohamed Chatah, un vecchio ministro di Hariri, dunque sunnita ed avversario dichiarato di Hezbollah, oltre che del siriano Assad; ma il numero 2 di Hezbollah, Naim Kassem, invece di accusare i sunniti, ha invocato «la formazione rapida di un governo di unità nazionale», proprio perché «il Libano è sulla via della rovina se non c’è un accordo politico».

Anche il 4 dicembre un attentato aveva ucciso presso Beirut un leader di primo piano di Hezbollah, Hassan Hawlo al-Lakiss, vicinissimo a Nasrallah: ma costui non aveva accusato i sunniti interni, bensì Israele.

Salvo errori, la serie di massacri è cominciata il 19 novembre con l’attentato all’ambasciata dell’Iran a Beirut, un attentato con doppia autobomba per fare il maggior numero di vittime (25 morti e 146 feriti), tipico della cosiddetta «al Qaeda», stavolta firmato Brigate Al Azzam. Fatto significativo, il capo di questa Brigata, l’emiro Maged al Maged, è da giorni nelle mani dei servizi militari libanesi: che hanno cercato di mantenere il segreto sull’arresto. (L’arrestation du Saoudien Maged al-Maged, un coup de maître des renseignements militaires)

Il punto è che l’«emiro» Maged al Maged è saudita. Quasi sicuramente agli ordini del principe Bandar, lo stesso la cui «manina» appare negli attentati anti-Putin avvenuti a Volgograd. E l’Arabia Saudita ha appena annunciato che donerà 3 miliardi di dollari all’armata libanese (a maggioranza sunnnita). È una cifra immensa, quasi il doppio del bilancio libanese per la difesa, che per il 2012 sta sui 1,7 miliardi di dollari. Lo scopo di questa generosità è – secondo il Wall Street Journal, organo ufficioso dei neocon americani da quando è stato acquistato dai Murdoch – «minare la superiorità della milizia di Hezbollah, alleata dell’Iran, che ha da un decennio una posizione dominante politica e di sicurezza». Insomma, armare i sunniti libanesi contro gli sciiti libanesi per una guerra civile a tutto tondo, con armi pesanti. Ecco il programma saudita.

Il presidente libanese Michel Sleiman (anti-Hezbollah) ha salutato il dono con entusiasmo, aggiungendo che i 3 miliardi serviranno a «acquistare armi più moderne dalla Francia».

Dalla Francia? Ecco spiegato il viaggio di fine anno del presidente Hollande a Ryad, su cordiale ed ostentato invito della monarchia più retriva della storia, ed ora palesemente criminale. I capi sauditi non nascondono la loro rabbia verso gli Stati Uniti da quando Obama s’è trattenuto all’ultimo istante dall’intervento armato contro Assad in Siria; in questo, coincidono con Hollande, che stava già precipitandosi alla guerra in Siria a fianco dei jihadisti. Come aveva già fatto in Libia, s’è visto abbandonato da Londra e da Washington, e soffre dello stress da «coitus interruptus», e vuol recuperare. Non occorre dire il dispetto di Netanyahu in Israele per le avances americane verso Teheran, che porta alle stesse posizioni.



In breve: è nata un’alleanza. Un’alleanza di Stati-canaglia, ancor più criminale di quelle che gli USA hanno stabilito in Medio Oriente con Israele e il Saud. Col dente avvelenato contro Obama. Un’alleanza dedita al terrorismo senza se e senza ma, tutta puntata su stragi e strategia della tensione, volta alla destabilizzazione ultima; nata dalla politica americana, eppure oggi forse sfuggita al controllo di Washington. A meno che Washington non abbia sciolto le redini al nuovo criminale, perché commetta i delitti che non può più fare in proprio, dopo scandali tipo NSA e la marcia indietro sulla Siria. Resta il dubbio.

Ma il dubbio ha poca importanza di fronte ai fatti: l’alleanza infernale ha sferrato una guerra, senza esclusione di colpi bassi, per mandare a monte il tentativo di pacificazione siriana operato da Mosca («Ginevra 2») e la stretta di mano incipiente della Casa Bianca con l’Iran. Appena ottenuti i 3 miliardi da Ryad, l’armata libanese s’è messa a sparare contro gli aerei siriani che scantonano nel suo spazio aereo (lo fanno continuamente i caccia israeliani: lo spazio è stretto per dei supersonici). E inoltre, il regno saudita – sempre lui – ha appena comprato ben 15 mila missili anticarro americani (Raytheon) per 1 miliardo di dollari: il triplo dei 5 mila che il Pentagono aveva venduto ai sauditi nel 2009, e dei più moderni TOW (tube-launched, optically tracked, wire-guided missiles), ossia a spalla, filo-guidati e a mira ottica. (What’s up with Saudi Arabia’s 15,000 anti-tank missiles?)

Forse che i Saud aspettano un’invasione di cingolati? Una replica delle epiche battaglie di corazzati di El Alamein e di Kursk? Niente di tutto questo: i missili anticarro a spalla sono quel che occorre ai «ribelli» siriani (pagati dai sauditi) per contrastare l’esercito regolare di Assad e rovesciare le sorti della guerra, per loro disperate. Non c’è dubbio che i temibili TOW appariranno in mano ai «democratici jihadisti» ad Aleppo. Naturalmente all’insaputa, o senza l’approvazione, della Casa Bianca che ha annunciato proprio nei giorni scorsi la sospensione degli «aiuti» ai «democratici» anti-Assad, dopo che i suoi media hanno scoperto che si tratta – ohibò – di terroristi islamisti, gli stessi che hanno abbattuto le Twin Towers, ricordate? «Perbacco, ma siamo alleati ad Al Qaeda!? No, no, questo è immorale!».

E allora si cambia gioco. Fino a qualche settimana fa Mosca e Teheran tendevano a credere che lo scopo dell’Arabia Saudita fosse il seguente: coi suoi terroristi riarmati e in grado di resistere, creare un «emirato islamico» da operetta ad Aleppo da portare poi a Ginevra 2 come controparte. Forse usare le sue altre formazioni terroriste, al Nusra e Stato Islamico in Iraq, come pedine di scambio contro un ritiro di Hezbollah dalla politica libanese.

Questa valutazione sembra troppo ottimista e razionale, alla luce della serqua di attentati-strage che Ryad, e il principe Bandar, ha scatenato dalla Russia al Libano: questa somiglia alla «politica da cane idrofobo», consigliata a suo tempo da Moshe Dayan e seguita diligentemente da Israele: «Israel must be like a mad dog, too dangerous to bother».

Ma così, farebbero un regalo ad Assad: al tavolo di Ginevra 2, gli permetterebbero di ritrovare la sua legittimità piena come combattente contro il terrorismo jihadista, a cui persino Washington si dichiara contrario... obiezione valida, ma a un patto: che i Sauditi vogliano arrivare a Ginevra 2. Probabilmente non vogliono arrivarci, ma far saltare tutto in una super-guerra sunniti-sciiti. E irakizzare il Libano. Ridurlo ad una Libia post-Gheddafi: il sogno di Israele.

Bashar Assad ha colto il punto, incitando l’altro giorno a combattere «l’ideologia wahabita che distorce il vero Islam». Ha invitato a ciò «gli uomini di religione», e – fatto notevole – ha trovato qualche risposta. L’università islamica di Al Azhar al Cairo, presunta massima autorità teologica sunnita, ha annunciato di creare una catena tv pluri-lingue per «diffondere una visione corretta dell’Islam e contro il terrorismo», ossia contro i wahabiti dei Saud. (L’université Al-Azhar lance une chaîne de télévision pour lutter contre Al-Qaida)

Quanto ad Erdogan, sta pagando cara la sua fallimentare adesione (lui, l’islamico «moderato») alle forsennate strategie sunnite anti-Assad ed anti-Iran. La polizia turca, a sua insaputa, ha lanciato una’inchiesta di moralizzazione che ha coinvolto alti esponenti del suo partito, compreso suo figlio Bilal Erdogan: corruzione, somme inspiegabili in mano loro. Soprattutto, la polizia ha fatto sapere che Erdogan ha messo in mano parecchi milioni (i suoi risparmi, diciamo così), al «banchiere di Al Qaeda» – alias Yasin al-Qadi, super-banchiere saudita ed amico personale di Erdogan. Ogni volta che Al-Qadi veniva a incontrare il suo amico, atterrava con l’aereo privato in un aeroporto di Istanbul dove le telecamere di sorveglianza veniva spente, e dove il personaggio era accolto dalle guardie del corpo del Presidente che gli facevano saltare il controllo-passaporti, «illegalmente» sottolineano i poliziotti.

Il fatto imbarazzante è che Al-Qadi è stato il finanziatore della legione araba messa insieme da Osama bin Laden in Bosnia Erzegovina contro i serbi (1991-1995), quando Bin Laden era buono ed amato dagli USA, ed ha continuato ad esserlo anche quando bin Laden è diventato «cattivo», avendone finanziato gli attentati all’ambasciata USA in Tanzania e Kenia (1998). Ragion per cui il banchiere saudita è stato messo in una lista di terroristi internazionali, ricercati dall’America, ma da cui è stato però cancellato. Fatto strano, secondo lo FBI, Al-Qadi è anche amicissimo di Dick Cheney, ed abitava a Chicago poco prima del 2001, anzi era proprietario della Ptech, un’impresa informatica che fornì il software alla FAA (Federazione dell’Aviazione Civile americana), e con cui la FAA gestì la crisi dei voli aerei seguita all’attentato dell’11 Settembre... Quando si dice la coincidenza. (Erdoğan recevait secrètement le banquier d’Al-Qaida)

Ultimissima: dopo aver assistito per anni al viavai di armamenti dalla Turchia ai terroristi anti-Assad (47 tonnellate nel solo secondo semestre 2013), oggi la polizia turca ha anche sequestrato un TIR che portava armi e munizioni per l’opposizione armata in Siria; il camionista ha dichiarato di lavorare per un’associazione «umanitaria» (IHH) dei Fratelli Musulmani, di cui fa parte Erdogan. (La police turque saisit une cargaison d’armes destinées à la Syrie)

Non c’è alcun dubbio – lo ha detto lo stesso Erdogan – che la polizia sta obbedendo non più al suo governo, bensì alla confraternita di Fetullah Gulen: il potentissimo miliardario religioso, auto-esiliatosi in USA, che propugna un Islam profondo ma favorevole alla scienza moderna e ad una sorta di tolleranza fra le fedi monoteiste. Potente alleato di Erdogan quando si trattava di smantellare il potere «laicissimo» (massonico, dunmeh) dei militari, Gulen ne ha preso le distanze in modo definitivo proprio perché aborre lo sforzo saudita di fare della «fitna» (crepa) tra Sunniti e Sciiti, una spaccatura sanguinosa.

Fetullah Gulen
  Fetullah Gulen
È consolante vedere che stanno emergendo nell’Islam forze che si oppongono al caos e al fanatismo rozzo e idrofobo: speriamo, si tratta di salvare l’onore dell’Islam dall’islamismo, che ha vergognosamente fallito, in Egitto coi Fratelli Musulmani, in Turchia con Erdogan (che caduta!) e che in Arabia Saudita si regge solo al prezzo di aggravare tutto, e far saltare tutto. Onore a Gulen.

E disonore a Francois Hollande e al suo governo, che trascina la «République» illuminista, razionalista e massonica, nell’alleanza con la monarchia oscurantista e feroce, il nuovo cane idrofobo del Medio Oriente. Il settimanale Marianne (laicissimo, ovviamente) lo ha notato: com’è che noi, eredi di Voltaire, siamo diventati tanto amici del boia? E racconta di un blogger saudita trentenne, Raif Badawi, già condannato a 7 anni e seicento frustate e che adesso rischia la decapitazione con la scimitarra per aver attentato alla vera fede. Il suo crimine, aver postato sul blog la seguente frase «musulmani, cristiani, ebrei ed atei sono tutti eguali» (Arabie Saoudite: nos amis les bourreaux).





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