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Ora, tutti un po’ tremontisti. Senza dirlo.
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La Germania prepara una legge, «di sapore protezionista» accusa Le Monde (1), per proteggere le sue aziende-gioiello dai capitali esteri. Il governo si dà un diritto di veto ad ogni acquisizione  di più del 25 per cento di un’impresa tedesca, definita «strategica» o di sicurezza nazionale,  da parte di investitori stranieri. Oggi solo il settore degli armamenti è soggetto a una simile limitazione.

Il testo, di difficile elaborazione, non è ancora pubblico: ma è evidente che il ministro dell’economia Peer Steinbrueck  non vuole scoraggiare l’afflusso di tutti i capitali («Saremmo pazzi»), bensì  tener lontani  dai brevetti e dalle tecnologie tedeschi i «fondi sovrani», che non sono privati speculatori (già del resto definiti «avvoltoi» in Germania), ma proprietà  di Stato, di quegli Stati che sono strapieni di dollari perchè vendono petrolio a cifre astronomiche o, come la Cina e vari paesi asiatici, perchè esportano molto.

I fondi sovrani, nel loro insieme, hanno in cassa qualcosa come 3 mila miliardi di dollari (1920 miliardi di euro): è chiaro che in tempi di recessione, con prezzi azionari calanti, possono fare lo shopping globale con lo sconto.

Questo evento dimostra più di quanto appare: un cambiamento di mentalità economica epocale. E’ il capolinea della dottrina monetarista, elaborata un trentennio fa da Milton Friedman, e imposta dagli USA con  la globalizzazione. Presupposto implicito del monetarismo è che i segni monetari e le merci siano perfettamente interscambiabili. Che un brevetto, una ditta, il lavoro umano o un sacco di grano siano equivalenti alle quantità di dollari (o euro) che servono a comprarle; o in altri termini, che tutto è «merce» indifferenziata esprimibile in moneta; è il mero «regno della quantità».

Ora, per la caduta del dollaro e il dubbio sui valori finanziari conseguente allo scoppio delle bolle speculative, questa presunta equivalenza – da cui discende la «libera circolazione di uomini, merci capitali» – sta cominciando a stingere nelle coscienze. Chi detiene conoscenze rare, brevetti o processi produttivi originali come la Germania, esita a cederli contro dollari a chiunque abbia i segni monetari: sente che ciò che possiede ha una «densità» che non può essere scambiata con «numeri», che la moneta ricevuta (oltretutto di valore fittizio) non compensa la cessione di qualcosa che è molto più che una merce.

Questo sta avvenendo anche altrove. I produttori di riso e grano, dal Vietnam all’Argentina, nella scarsità che s’è instaurata e nonostante i prezzi mondiali in salita, tendono a bloccare le importazioni: prima, occorre nutrire il proprio popolo.

Lo stesso tendono a fare i produttori di petrolio: non aumentano la produzione,  perchè vedono nelle riserve (calanti) del greggio qualcosa di più – o meglio di diverso – dal profitto in valuta che possono ricavarne; qualcosa che ha a che fare con il futuro della loro nazione, il patrimonio nazionale.

Insomma: si è riscoperto che nelle «merci» c’è una qualità, che la quantità monetaria non basta a compensare. Si riafferma un elemento basilare dell’economia reale (che produce cose, «res») che la dittatura della finanza aveva oscurato. Il grano nutre, non il dollaro; il petrolio fà funzionare i motori, non la valuta. I brevetti e i processi originali garantiscono il futuro delle generazioni più delle riserve di Buoni del Tesoro USA.

Lo conferma anche la risposta indiretta dei tedeschi al KIA, il fondo sovrano del Kuweit (che già possiede il 7 per cento delle azioni Daimler), e che ha ha minacciato di rivedere i suoi investimenti in Germania se passa la legge. Berlino ha fatto sapere, in modo anonimo, che «questa legge contro i fondi sovrani ha di mira soprattutto la Russia e la Cina. Il governo teme gli stati che possono usare i loro investimenti per esercitare un’influenza politica o per appropriarsi di un know-how tecnologico».

Dunque nemmeno tutti i dollari sono uguali, neutri ed equivalenti. Si possono accettare i dollari-numero del piccolo Kuweit; ma quelli che hanno in mano Mosca e Pechino non sono parimenti neutrali. Hanno una diversa qualità, e questa qualità è «politica». E la politica, la potenza,  è un valore che non è misurabile in moneta.

Questa intrusione nella mera economia di valutazioni qualitative (irriducibili alla quantità di moneta) è  insito nell’economia reale – scambio di cose e conoscenze anzichè di unità di conto – è il principio che domina quella che appunto fu chiamata «economia politica»,  e che la globalizzazione finanziaria ha preteso di liquidare; è questa visione qualitativa  che giustifica tutto ciò che è eresia per il liberismo dogmatico e totale, l’intervento dello Stato in economia, l’autosufficienza e l’autarchia come fine, l’accento messo sullo sviluppo delle capacità creative e produttive della nazione anzichè sul mero scambio commerciale, il successo pensato come funzione nutritrice e civilizzatrice delle generazioni future anzichè misurarlo dall’ultima riga del bilancio, il profitto monetario.

Non vuol dire che esista già limpida una teoria capace di sostituire il dogma liberista. Ma c’è un inizio di resipiscenza: e tra i resipiscenti troviamo Massimo D’Alema, che firma, insieme al reaparecido Jacques Delors, ad Helmut Schmidt, a Lionel Jospin a Rocard, ad Otto von Lambsdorff e ad altri revenants del socialismo o della socialdemocrazia, un proclama apparso su Le Monde, dal titolo significativo: «La finanza folle non ci deve governare» (2)

E il giorno dopo, ancora su Le Monde appare una sorta di manifesto intitolato: «Ventun saggi per una mondializzazione meno selvaggia». E qui si tratta di due premi Nobel liberisti ortodossi e americani (Michael Spence e Robert Solow), vecchi capi di Stato, ministri delle finanze, governatori di banche centrali nonchè il capo di Citigroup, la banca privata più grossa del mondo.

Questa Commissione dei 21 ha esaminato i differenti successi o insuccessi delle economie nazionali negli ultimi 50 anni, «e ne ha tratto conclusioni che smentiscono il Washington Consensus, ossia la teoria adottata dalle istituzioni internazionali a fine anni ’80, e che imponeva la riduzione dei deficit e delle spese pubbliche, l’accelerazione delle privatizzazioni e delle deregulations. Il rapportto è chiaro: la principale delle nostre conclusioni, dice, è che la crescita indispensabile per fare arretrare la povertà e assicurare uno sviluppo durevole richiede uno Stato forte».

 Uno Stato forte! Nero su bianco. La domanda è se, dopo un trentennio di liberismo devastatore (fra l’altro) del senso di responsabilità individuale e politico, esista ancora la cultura per riformare uno Stato forte. La risposta tende al no: come esempio di Stato forte, i 21 saggi incensano la Cina. A loro non importa, testualmente, che governi «un partito unico, un pluralismo o una tecnocrazia».

Quanto a D’Alema e ai suoi compagni internazionali, scrivono: «Il libero mercato non può infischiarsene e della morale sociale. ...Max Weber ha stabilito il legame tra il duro lavoro e i valori morali da una parte, e l’avanzata del capitalismo dall’altra. Il capitalismo decente (ossia rispettoso della dignità umana, per riprendere Amartya Sen) richiede un intervento pubblico efficace. ...Quando tutto è in vendita, la coesione sociale si rompe e il sistema crolla. La crisi finanziaria attuale riduce la capacità dell’Occidente di ingaggiare un dialogo più costruttivo con il resto del mondo sulla gestione degli effetti della mondializzazione e sul riscaldamento globale (sic)  mentre il boom economico dell’Asia pone nuove sfide senza precedenti. ....Gli aumenti spettacolari dei prezzi dell’energia e dei prodotti alimentari aggravano gli effetti della crisi finanziaria...è significativo che i fondi speculativi abbiano contribuito ai rincari delle derrate di base.. rischiamo di trovarci di fronte a una miseria senza precedenti, a una proliferazione di stati fallimentari, a flussi migratori più imponenti e a più conflitti armati».

Non è molto. Discorsi da scompartimento ferroviario, sulla «crisi». I socialisti europei tornano sulla scena per accettare il capitalismo, solo «meno folle»: un segno meno a fianco del dogma egemone rivela che quelli, un’alternativa culturale, non ce l’hanno. Ma in ogni caso è una resipiscenza. Solo si può chiedere a questi signori dov’erano finiti nell’ultimo ventennio.

Le devastazioni del liberismo finanziario globale era provedibili e sono state ampiamente previste (persino dal sottoscritto non economitsa, in «Schiavi delle banche»). A parte D’Alema, quelli che firmano sono i pezzi da novanta dell’establishment europeo: ma non hanno detto una parola sullo smantellamento dello Stato nazionale e dell’economia politica. D’Alema non ha detto bah sulle privatizzazioni condotte da Ciampi e Draghi, per metà aggiustate sul panfilo Britannia e per metà truffe politico-italiote, con la consegna di monopoli pubblici a imprenditori amici, che non erano nemmeno imprenditori. Anzi, D’Alema ha sprezzantemente deriso Tremonti. Ora è diventato tremontiano, solo «un po’ meno».

Il che conferma: guai a chi ha ragione in anticipo. Oltretutto, si sente fare la lezione da quelli che l’hanno capita  - per voltà morale più che intellettuale - in ritardo.

Concludo con una buona notizia, che è anche un esempio di come funziona uno Stato con una sua sovrana economia politica. Pochi si saranno accorti che, mentre i prezzi del grano continuano ad essere altissimi, quelli del riso sono calati. La speculazione è stata stroncata per questa derrata, ancora più importante del grano per le popolazioni della miseria assoluta.

Chi ha stroncato la speculazione?
Il Giappone (3).

Il 19 maggio il dottor Toshiro Shirashu viceministro dell’Agricoltura, aprendo le immani riserve di riso nazionali (2,6 milioni di tonnellate), ne ha decretato l’immediata consegna alle Filippine di 50 mila tonnellate, e di altre 200 mila tonnellate in aiuti alimentari ai paesi più poveri, a cominciare dal Bangladesh, che senza il riso importato è alla fame. Immediatamente, alla Borsa Merci di Chicago dove si era scomnmesso sulla durevole scarsità, il «future» sul riso è crollato del 20 per cento.

E come mai il Giappone ha tante riserve di riso?

La spiegazione è paradossale: esso importa riso benchè non ne abbia bisogno, dato che i suoi agricoltori, aiutati da forti sussidi statali, ne producono a sufficienza per i suoi 127 milioni di abitanti. Ma siccome gli USA hanno da decenni premuto sul Giappone perchè azzerasse i sussidi ai suoi contadini («poco competitivi» secondo la dottrina), e importasse riso americano (più competitivo), l’OMC ha imposto al Giappone di comprare riso sui mercati mondiali. E il Giappone ha comprato tonnellate di riso da USA, Thailandia, Vietnam, persino da Cina e Australia. Senza smettere però di sussidiare i suoi agricoltori, garanti dell’autarchia alimentare nazionale.

 Ma nemmeno un chicco di questo riso importato è finito sulle tavole nipponiche. I giapponesi continuano a consumare il loro riso carissimo e domestico, sostenendo che esso ha un aroma speciale, introvabile nelle varietà straniere (ecco un’altra «qualità» impalpabile: per chi mangia riso bollito, senza sale nè condimenti, non ogni riso è intercambiabile). Il riso importato, l’ha destinato alla Corea del Nord come aiuto alimentare, usato per fare la birra, e persino, mescolato ad altre granaglie, per ingrassare maiali e polli. Nonostante ciò, al Giappone restano in magazzino quasi un milione di tonnellate di riso comprato dagli USA.

Ora, con una scelta politica sovrana, lo distribuisce per abbassare i prezzi mondiali e stroncare la speculazione finanziaria. Naturalmente la dottrina globalista americana obietta che il Giappone, sussidiando i suoi agricoltori e insieme importando una derrata che non gli serviva, ha «sprecato risorse», ha «male allocato i capitali». L’obiezione ha oggi valore zero, visto come America e Gran Bretagna, primi della classe del liberismo dogmatico, hanno «allocato i capitali» e speso il surplus finanziario: in guerre perdenti, in emolumenti mostruosi a speculatori che hanno rovinato l’economia, in banche insolventi e in bancarotta, in bolle finanziarie che stanno esplodendo e devastando milioni di americani duri lavoratori.

Lo spreco del liberismo selvaggio è senza dubbio infinitamente più alto, e costoso socialmente, dei sussidi ai contadini giappponesi. Questo, lo si deve chiamare piuttosto investimento a lungo termine: che ora si ripaga in sicurezza (autosufficienza) alimentare e in influenza politica in Asia.

Ecco cosa è uno Stato forte.  D’Alema coi suoi pezzi da novanta europeisti, e anche Berlusconi, dovrebbero imparare la lezione da chi è in grado di darla. 



1) MarieDe Vergès, «L’Allemagne contre les fonds souverains», Le Monde, 20 maggio 2008.
2) Citati da «Tiens, il se passe quelque chose...», del sito Dedefensa, 23 maggio 2008.
3) Kenji Hall, «How Japan helped ease the rice crisis», Business Week, 22 maggio 2008.

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