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Credevano di sparare a Putin. Erano i nostri genitali
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«L’Unione Europea continuerà a dipendere, per tutto il futuro prevedibile, dalle importazioni di gas russo via gasdotto»: impagabile l’asserzione della IEA, International Energy Agency, nel suo rapporto intitolato Energy Politics of IEA Countries - European Union 2014 Review. November 2014. Berlino e Bruxelles, dopo aver fulminato le sanzioni contro la Russia e moltiplicato gli insulti, false accuse e le denigrazioni contro Putin, sono stati colti di sorpresa dalla decisione di Gazprom di cancellare il progetto della pipeline South Stream.

Ma come...!? Noi lo danneggiamo e lui ci danneggia? In che mondo siamo?

Ancor più sbalorditi quando Aleksei Miller, il capo di Gazprom, ha contestualmente spiegato che la funzione (ben pagata) dell’Ucraina come Paese di transito per il gas russo all’Europa «sarà ridotta a zero», e che il cancellato South Stream sarà sostituito dalla costruzione di una pipeline in Turchia. Ciò significa la perdita di 63 miliardi di metri cubi delle annuali importazioni dirette dalla Russia che passavano dai tubi attraverso l’ Ucraina: una grossa falla nella sicurezza e stabilità energetica d’Europa, perché – come ha spiegato appunto il rapporto IEA – la Russia resterà una fonte indispensabile di fornitura per molti anni ancora, tanto più che la produzione del gas del Mare del Nord (essenzialmente norvegese) sta declinando.

Da quel momento i due balordi – Berlino e Bruxelles – si sono dati affannosamente a cercare nel vasto mondo fonti alternative per la fornitura di gas naturale. La ricerca si è rivelata molto più difficile del previsto — anche questo con gran sorpresa delle centrali di incompetenza europidi, probabilmente tratte in inganno dal crollo dei prezzi energetici. Se i prezzi sono così bassi, vuol dire che il mondo affoga nell’abbondanza di petrolio e gas, no? Non è la legge della domanda e dell’offerta? Significa che l’offerta è abbondante rispetto alla domanda, così insegnano nelle facoltà di economia a pensiero unico. Andiamo dunque a cercare il petrolio e il gas da chi ne produce in tanta abbondanza.

Maroš Šefčovič
  Maroš Šefčovič
Maroš Šefčovič (uno slovacco) vice-presidente della Commissione per l’ Energia della UE (nel ‘Governo’ Juncker) ha subito dichiarato che i cervelli eurocratici stavano progettando di sviluppare il «Corridoio Sud», la via (o il tubo) che parte dal bacino del Caspio alla UE attraverso il Caucaso del Sud (bisogna pur aiutare la Georgia) e – ancora – la Turchia. Fra pochi anni, ha trionfalmente rassicurato lo slovacco, ci sarà un gran tubo che dall’Azerbaijan (il fornitore alternativo) si farà strada fino al confine greco-turco, e si chiamerà TANAP (Trans Anatolian Natural Gas Pipeline Project); da lì germoglierà un rametto che arriverà a noi italiani transitando per l’Albania: si chiamerà TAP (Trans Adriatic Pipeline), perché gli eurobalordi non sono mai a corto di sigle. Da lì ci arriveranno – ha annunciato lo slovacco junckeriano tutto contento – ben 12 miliardi di metri cubi annui di gas estratti dal gigantesco giacimento Shah Deniz che giace nel Caspio, fuori dalla costa azera.

Ma un momento: 12 miliardi di metri cubi? Quelli che mancano all’Europa per le sanzioni che abbiamo imposto a Mosca sono, abbiamo visto, 63 miliardi — che sarebbero entrati attraverso il cancellato South Stream. Anzi, il sullodato rapporto IEA (che bisognava leggere prima), prevede che le importazioni della UE nei prossimi due decenni cresceranno di circa 450 miliardi di metri cubi annui.

Il gas azerbaigiano è una goccia nel secchio europoide. E poi, mettiamo i puntini sulle i: cosa intende lo slovacco che ha in mano i nostri destini energetici, quando dice «molto presto»?

Intende il 2019. Solo allora il TANAP più TAP ci porterà gli agognati, ancorché insufficienti, 12 miliardi di m3 di gas. Si prospettano cinque inverni coi caloriferi freddi, e cinque anni di industrie a energia razionata.

Ecco perché Berlino e Bruxelles stanno pensando, mettendo al massimo sforzo i neuroni disponibili, a fornitori alternativi con cui alimentare un po’ di più il Corridoio Sud. È la loro carta vincente, per il momento, visto che non ne hanno altre. Una brillantissima idea: comprare il gas dall’Iraq del Nord. Ossia in quella zona serena e sicura in cui, attualmente, il Califfato Daesh sta cercando di portar via con le armi le zone petrolifere ai curdi, impegnati in una guerra a tutto tondo per difendere non solo il loro greggio, ma il loro regime e i propri abitanti. Sarà anche per questo che l’Italia ha mandato 525 consiglieri militari ad Erbil, dove «sono già presenti consiglieri militari e forze speciali statunitensi, britannici, francesi e tedeschi, e i tedeschi hanno già installato a Erbil una loro base che gestisce l’afflusso e la distribuzione degli ingenti aiuti militari forniti da Berlino ai curdi (per un valore di 80 milioni di euro)», come dice il Sole 24 Ore?

Fatto sta che a mezz’ora da Erbil, tuonano già i cannoni del Califfo e si battono i suoi tagliagole, e il Governo curdo – il fornitore che rischia di essere travolto – ha già fatto sapere che le sue priorità sono dirette a soddisfare i consumi interni, seguiti dall’export alla Turchia. Ma hanno giacimenti enormi, ci rassicurano, abbastanza da consentire anche rifornimenti alla UE, come terzo. Quanti, e per quanto tempo, è opportuno sorvolare. Le condizioni in cui le guerre americano-europee hanno lasciato l’Iraq non facilitano, si dovrà ammetterlo, l’esportazione di gas dal Paese destabilizzato e in via di sgretolarsi in staterelli ostili, e in guerra fra loro «per il futuro prevedibile».

Per questo, a giugno Berlino ha messo gli occhi sull’altro grande fornitore potenziale dell’area: l’Iran, inviando a luglio, alla chetichella, propri emissari a Teheran per stabilire proficue relazioni d’affari. Anche qui, gli emissari hanno costatato quanto le nostre aggressioni su comando americano siano svantaggiose per il business: le sanzioni che restano ancora a inceppare l’Iran (Israele e i sauditi non vogliono un accordo che sollevi l’embargo, e fanno di tutto per sventarlo), ostacolano una cooperazione economica vera, fiorente — hanno dovuto ammettere i tedeschi. Solo il Turkmenistan e il Kazakhstan restano, nell’Asia Centrale, i potenziali fornitori con cui non ci siamo messi in rotta di collisione, almeno per ora, imponendo aggressive sanzioni e punizioni, e impartendo lezioni sui «diritti umani» e la «democrazia». Tuttavia, fino ad oggi dei progetti per attingere ai loro giacimenti e farli giungere a noi attraverso tubature che passerebbero sotto il Caspio e affiorerebbero in Azerbaijan per confluire nel TANAP, non si sono ancora materializzati.

È stato proprio il fatto che s’è rivelato impossibile attuare le tre opzioni sopra elencate, anzi l’impossibilità di attuarne anche solo una, che ha portato all’abbandono del progetto Nabucco già nel 2013: il tubo Nabucco, che doveva essere creato con finanziamento europeo, avrebbe dovuto funzionare semivuoto. Del resto, il Nabucco se l’erano inventati a Washington al solo preciso scopo di sabotare il South Stream, voluto dai russi (e dall’ENI), e Bruxelles s’era impegnata a finanziarlo solo per obbedienza perinde ac cadaver — e tutti erano ben consci della sua irrealizzabilità e anti-economicità.

Mogherini in Turchia

Poco male, si sarà detto qualche euro-pirla a Bruxelles. La decisione moscovita di colare a picco il South Stream per fornire il gas via Turchia, destina comunque il gas alla UE; d’accordo, l’Europa (quella del Sud) diventa pesantemente dipendente dalla Turchia come Paese di transito; ma non è forse la Turchia il nostro miglior alleato nella NATO, l’aspirante ad entrare nel paradiso europoide? E dunque, non c’è problema.

E invece, sorpresa: Ankara, avendo acquisito da Mosca lo status di primo distributore energetico, ha visto di colpo aumentare il suo peso e la sua influenza, ed è ben decisa a far contare la sua nuova importanza. Lo sapete Erdogan che tipo è. È quello che sta aiutando DAESH ad abbattere il regime siriano, quello che s’è rifiutato di accodarsi alle sanzioni euro-americane contro Putin, insomma è così disobbediente che, gli hanno fatto altezzosamente notare a Bruxelles e Berlino, se continua così «si sta isolando» e «rovinando i rapporti con l’Occidente».

Isolamento? Il vice-presidente Joe Biden è volato in visita ad Ankara a novembre, seguito a dicembre da papa Francesco, da Vladimir Putin, da David Cameron e – buona ultima – dalla nostra povera Federica Mogherini nella tragicomica veste di Alto Rappresentante della Unione Europea per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza (sigla ARUEAE&PS, suppongo). Obbligata dalla posizione di Alto Rappresentante senza potere (sono sicuro che saprebbe far meglio di così) la povera Mogherini è andata ad Ankara – ebbene sì – a sgridare il Governo neo-ottomano: s’è lagnata per dovere di ufficio che la Turchia oggi sostiene «meno di un terzo» di iniziative europee, mentre «prima ne sosteneva l’80%». Questo tipo di lamentela già rivela che dev’essere stato dettato da qualche estone o polacco di quelli che adesso comandano a Bruxelles, o da un Juncker in piena euforia etilica.

Il Ministro degli esteri Turco, Mevlut Cavusoglu, ha avuto buon gioco a rimbeccare: Ankara contribuisce da anni ai progetti di politica estera cucinati da Bruxelles «senza partecipare a nessun tipo di meccanismo decisionale nelle questioni di sicurezza e difesa». Tanto è per far pesare che Bruxelles tiene da decenni Ankara sulla porta d’entrata nella UE, obbligandola ad allineare le politiche nazionali turche ai dettami e agli standard UE, mentre dietro le quinte sussurra che mai e poi mai la Turchia sarà lasciata entrare in Europa, speranza che i neo-ottomani hanno ormai abbandonato da tempo. «Esigere adattamento senza dare co-determinazione è una contraddizione nella UE», ha sancito Cavusoglu, con una frase che dovrebbero pronunciare anche i nostri Ministri, ogni tanto. Fatto sta che i rapporti della UE con la Turchia sono stati, se possibile, peggiorati. Speriamo che a Berlino non venga in mente di imporre sanzioni anche alla Turchia; rischiamo di restare davvero a secco del tutto.

Soccorso USA in shale gas?


Era il nostro asso nella manica. Washington ha spinto i balordi a guastarsi con Mosca, assicurando: siamo pieni di gas di scisto, se la Russia non vi rifornisce più, il gas ve lo vendiamo noi. Barroso stai sereno, dicevano dalla casa Bianca. Effettivamente, il boom americano del fracking sembra(va) eccezionale, al punto che gli USA, ormai diventati più che autosufficienti, hanno destinato (o così hanno detto) 98 miliardi di metri cubi di gas all’export, molto vicino all’export del Qatar (105 miliardi). Mica subito, ma nel 2016 però sì. Piccolo dettaglio: il surplus americano, nel medio termine, sarà destinato di preferenza all’Asia, dove si possono spuntare prezzi di vendita superiori anche del 50% a quelli dei mercati UE. A parte che il gas americano non arriva dentro un gasdotto; dev’essere liquefatto e caricato su navi-cisterna con cisterne a pressione, il che aumenta un pochettino i costi rispetto al prodotto russo. Un pochettino o anche molto di più, come ha spiegato Friedbert Pflüger, già esperto tedesco di politica estera per il partito CDU, ed oggi direttore dello European Center for Energy and Resource Security (EUCERS) presso il King’s College di Londra: forse compreremo il gas più caro del mondo… Se poi gli americani accettano di vendercelo. Il che non è affatto detto, dato il crollo dei prezzi attuale.

Federica Mogherini (la povera) ha chiesto a John Kerry, la settimana prima di Natale, di includere un preciso impegno, anzi un capitolo energetico, nei trattato Transatlantico (TTIP) che sta venendo approvato in segreto nonostante le proteste delle opinioni pubbliche. Ebbene, Kerry ha detto no. Non si impegna. Lo sappiamo, è il modo di negoziare americano post 11 Settembre: testa vinco io, croce perdi tu, se no ti bombardo. Ma è snervante, tanto più alla luce di certe informazioni fornite da Putin stesso durante la sua mega-conferenza stampa. Nello spiegare l’offensiva economica contro la Russia, ha detto: «La cifra d’affari negli scambi tra Russia e Unione Europea è calata del 4,3%, le importazioni provenienti dai paesi della UE sono diminuite del 7-8-10%. Vero è che sono stato leggermente sorpreso dal fatto che il giro d’affari degli scambi commerciali con gli Stati Uniti è aumentato, al contrario, del 7%».

Dunque, mentre noi europei abbiamo accettato di tagliarci gli zebedei nelle sanzioni contro la Russia, gli Stati Uniti, da queste sanzioni stesse, hanno guadagnato? Ci hanno portato via quote di mercato? È una notizia che fa il paio con l’altra, ossia che, sanzioni o non sanzioni, la British Petroleum, in arte BP, ha perfezionato un mega-contratto con Rosneft, il maggior produttore petrolifero russo, per l’esplorazione di giacimenti artici: un affare da 800 milioni di dollari.

Chissà come mai gli anglo vincono sempre. Viene quasi il sospetto che la loro balordaggine sia ben pagata. Come ha ricordato R. Craig: «Durante il mio dottorato di ricerca, il mio direttore della tesi, un alto funzionario del Pentagono, in risposta alla mia domanda su come Washington è sempre riuscita ad imporre agli europei quel che Washington voleva, rispose: “Soldi, gli diamo soldi”, “Foreign Aid?”, ho chiesto. “No, diamo ai leader politici europei valigie piene di soldi (bags fulls of money)”. Sono in vendita, li abbiamo comprati». Forse ciò spiega anche il fatto che il Trattato transatlantico, così palesemente rovinoso per le nostre economie e la nostra salute, e favore totale della mega-corporations USA, avanzi come su binari di ferro, nonostante le proteste e le manifestazioni di categoria che vengono inscenate quasi ogni giorno a Bruxelles (e di cui i media non ci danno notizia).

Verso Mosca, nonostante tutto…

Ma torniamo al gas che Bruxelles e Berlino credevano di poter trovare sul mercato. Cerca e cerca, non l’hanno trovato. Sicché adesso esperti e politici germanici stanno esprimendo «la speranza» che il Governo russo si induca a ripensare la sua decisione di cancellare il South Stream. «Per l’Europa nel suo complesso, sarebbe bene che il progetto non venga ucciso», ha esalato il Ministro dell’Economia Sigmar Gabriel, SPD. «Si spera semplicemente che la situazione tra Russia, Ucraina ed Unione Europea» si rassereni, e «le trattative riprendano». Da parte sua il già citato Pfluger, ex esperto della CDU per la politica estera, è saltato fuori con una soluzione, che ha spiegato al giornale economico Handelsblatt: «Il North Stream, che raggiunge la Germania passando nel fondo del Baltico, ha due tubature. Se ne può aggiungere una terza». Ché poi, a voler vedere, «uno studio di fattibilità» ha fatto vedere che «due tubature aggiuntive» potrebbero soddisfare la crescita prevista nella domanda europea. Insomma, noi meridios pagheremmo le royalties non ai turchi, ma ai tedeschi, mettendo nelle mani di Berlino il totale controllo politico sulle forniture di gas europee.

Per nostra fortuna, davanti a queste avances e proposte di soluzione, Mosca non ha dato segno di assenso, lasciando capire che i mestatori di Bruxelles e Berlino sono andati un po’ troppo oltre con le loro vessazioni sul South Stream; e del resto in queste settimane la Russia ha riorientato la sua produzione verso l’Asia e la Cina, un riposizionamento strategico che i balordi europoidi vogliono credere temporaneo... Resta in loro la pretesa che si possa fare dell’Europa il nemico della Russia, e nello stesso tempo il suo miglior cliente. E si indignano se Mosca non ci sta.

Ha proprio ragione Angela Merkel: «Putin vive fuori della realtà».

Panico alla BBC: RT la scavalca


D’accordo, la notizia non è (del tutto) in tema, ma è troppo bella per tacerla. Russia Today, il network tv di Mosca, sta superando la BBC, la storica emittente delle verità anglo-imperiali. Con 24 ore su 24 di trasmissioni in inglese ed arabo, russo e spagnolo (e il progetto di trasmissioni in francese e tedesco), la vivacissima tv putiniana raggiunge una audience di 700 milioni in cento Paesi, laddove la classica BBC perde terreno (CNN e gli altri network USA stanno sono ormai sotto l’orizzonte).

«È paventoso di quanto stiamo perdendo la guerra dell’informazione», ha scritto il Guardian citando vari esperti inglesi; «è la guerra del soft power che ha rimpiazzato la Guerra Fredda», e i russi e i cinesi la stanno vincendo... Notevole, in queste frasi, la terminologia militare: i britannici in panico confessano di aver sempre considerato l’informazione un’arma di guerra, ossia propaganda.

Sulla stessa linea militarista, Peter Horrocks, che fino a poche settimane fa è stato a capo delle informazioni globali BBC, dice «il servizio estero della BBC è financially outgunned», ossia è superato in volume di fuoco finanziario. Ed ha chiesto urgentemente più soldi dal Governo, specificamente maggior finanziamento per una copertura extra sull’Ucraina».

Ma in realtà, la BBC, che trasmette in 28 lingue, ha un bilancio di 382 milioni di dollari; Russia Today ha un budget complessivo di 271 milioni di dollari. Dunque non è vero che BBC è financially outgunned. Il punto è, come commenta Dedefensa, che chiedono denaro perché «è il solo rimedio, la sola arma e il solo mezzo di resurrezione che riescono ad immaginare». Ed è rivelatore che chiedano più soldi per coprire meglio l’Ucraina: in realtà, RT ha acquistato più audience proprio coprendo la crisi ucraina in diretta, quando i suoi animosi inviati sul campo hanno mostrato le case incendiate dall’esercito di Kiev, i poveri abitanti bombardati, e i civili morti ammazzati per le strade del Donbass:


L’inviata Laura Slier in diretta dal Donbass


Ma prima, avevano fatto lo stesso a Gaza, documentando le atrocità israeliane da dentro la Striscia, assediati fra gli assediati, fra le esplosioni e le macerie; e prima ancora, sono stati servizi audacissimi al seguito immediato delle truppe combattenti del Governo siriano, casa per casa, sotto il fuoco. Per non parlare dei servizi sugli Stati Uniti, che rivelano la miseria americana, l’abbandono in cui sono lasciati i reduci e mutilati di guerra americani, la guerra civile, razziale e sociale che cova sottopelle, il fracking che fa uscire dai rubinetti dei poveri acqua sporca e puzzolente: tutte le verità che i network americani trascurano.

E tutti i reporters e gli analisti sono americani o britannici, anche se spesso (non sempre) con cognomi russi. Il fatto che Larry King, la superstar della tv, sia passato a Russia Today, dovrebbe dirla lunga sul cambiamento in corso.

Il vantaggio della tv russa, commenta Dedefensa, «è che sull’Ucraina, i russi lavorano sulla verità della situazione, mentre gli anglosassoni lavorano su una narrativa che è totalmente contraria alla verità della situazione: appoggiano la loro comunicazione sulla premessa iniziale e fondamentale che l’Ucraina s’è “liberata” democraticamente da tutte le influenze straniere (leggi: russe), quando si sa esattamente, e ciò senza alcuna discussione, che il 22 febbraio scorso c’è stato un colpo di Stato del blocco occidentale, gli USA in testa, per la presa del potere a Kiev».

In conclusione: oggi, La Pravda (ridicolo ed albagioso organo della «narrativa» ufficiale sovietica) è diventata la BBC.




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