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Amerikani a Kiev: istigano la guerra civile?
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Adesso c’è anche il senatore John McCain , candidato repubblicano alla Casa Bianca la volta scorsa, a Kiev: arringa i manifestanti ( «Entrate nella nostra Europa!») e minaccia il governo ucraino di sanzioni USA se non lo fa, come l’Iran e Cuba. Pochi giorni prima era piombata lì la viceministra degli esteri americana, Victoria Nuland, ha incitato i manifestanti, minacciato il governo, subito spalleggiata dal suo ministro – il noto John Kerry – che da Washington esprimeva «disgusto» per come la polizia di Yanukovitch aveva trattato i cari manifestanti (senti chi parla) «con randelli e bulldozer», insomma lacrimante per i diritti umani violati.

Questa ingerenza spudorata del potere americano è una umiliazione, prima ancora per lo Stato ucraino, per la stessa Unione Europea. Qualcuno a Bruxelles dovrebbe dire a questi americani: è problema nostro, siamo noi che dobbiamo accettare Kiev. E a voi americani – direbbe un ingenuo – come mai interessa tanto che l’Ucraina entri sotto la UE? Siete europei anche voi?

Del resto, una tale plateale ingerenza americana in Ucraina è di un’insolenza, anzi inciviltà che non è mai stata tollerata e mai lo sarebbe, a parti invertite. Pensate, ad esempio, se – essendoci in Italia le manifestazioni dei Forconi contro il governo – atterrasse da Mosca il ministro degli Esteri Lavrov, arringasse i manifestanti, distribuisse loro aringhe in scatola (la Nuland ha distribuito dolcetti) e li incitasse ad uscire dalla UE: tutti i nostri media sarebbero lì a strillare contro l’intollerabile intromissione nei nostri affari interni; sarebbero tutti di colpo difensori della «sovranità nazionale» e della nostra dignità di patria offesa.

Invece no. Perché è l’ennesima dimostrazione della dottrina americana che ha liquidato Westfalia (per loro, nessun altro stato è legittimo e merita il rispetto della sovranità) che Bush jr. ha inaugurato nel 2002, essendo manovrato dalla cosca neocon con doppia cittadinanza (ricordate?, quando al Pentagono s’erano insediati tre ministri: Wolfowitz, Feith e il rabbino Dov Zakheim). Victoria Nuland del resto fa’ parte della consorteria: di vero nome non è Nuland ma «Nudelman», ed è moglie di Robert Kagan, esponente di una intera famiglia di neocon d’origine «luttwak», ossia lituana, originariamente trozkisti emigrati dalla Russia dopo che Trotzki era stato liquidato da Stalin. Robert Kagan, per dire, è tra i fondatori del «pensatoio» Project for a New American Century (PNAC), che nel 2000 consigliò una «nuova Pearl Harbor» come fatto traumatico necessario per convincere il popolo americano ad avviare un enorme programma di riarmo e un futuro di guerre senza limite...profezia che si avverò l’11 Settembre 2001.

Dunque i neocon israeliani sono ancora al potere. E Victoria Nudelman, che è la responsabile del mai chiarito attacco di Bengasi dell’11 settembre 2012 dove fu massacrato l’ambasciatore USA Chris Stevens (in un’operazione di arruolamento di islamisti da mandare in Siria) è sicuramente idrofoba per il fatto che Putin ha sventato l’attacco americano alla Siria e, ancor più, per la parte che ha avuto nell’inserire l’Iran in nuove trattative, sventando o allontanando l’attacco israeliano (i neocon ora hanno mobilitato i coniugi Clinton per far fallire l’avvicinamento Washington-Teheran).

Vladimir Putin sta cercando esplicitamente di restaurare l’ordine di Westfalia che gli israeliani hanno distrutto prima nella loro area (ovviamente nessun altro stato è legittimo per l’ideologia sionista, sono tutti nemici attaccabili) e che gli americani sotto loro dittatura hanno liquidato nel mondo. Gli interventi europei, dei Barroso e della Ashton (chissà perché questa ministra degli esteri eurocratica dev’essere per forza britannica) e degli altri serventi ala politica americana, non sono stati abbastanza audaci e decisi per la Nudelman-Kagan e il noto ambiente, ed ecco che, impazienti, hanno preso l’iniziativa e inviato McCain. «Isteria», ha definito Lavrov questa- diciamo così – diplomazia americana. Ma la cosa è seria e grave: quelli fanno sul serio, e non conoscono ritegno.

Difatti immediatamente Bruxelles ha capito e si è adeguata: ha annunciato che le trattative fra UE ed Ucraina sono «congelate»: è un ultimatum a Yanukovitch, che cercava di guadagnare tempo e strappare più ampie concessioni. «Prendere o lasciare», gli risponde ora Bruxelles, sapendo che è premuto da una piazza, che l’Occidente ha il potere di trasformare in «rivoluzione arancione». Yanukovitvch dunque è fra due fuochi, tutti e due accesi dal cosiddetto Occidente: piazza irrazionale da una parte, e tavolo eurocratico dei negoziati.

È ovvio che, razionalmente, all’Ucraina conviene restare nella unione doganale con la Russia e gli altri paesi ex-sovietici. Come mostra l’economista Jacques Sapir, l’export ucraino verso la Russia aumenta rigogliosamente: nel 2004 era il 14% delle esportazioni totali, oggi più del 22%, ossia una crescita del 58% (e l’export di Bielorussiae Kazakstan crescono del pari).



I saldi sono ancora negativi a svantaggio di Kiev, ma lo svantaggio si sta decisamente colmando. È ovvio, dato che il sistema industriale ucraino e quello russo erano già stati resi complementari in epoca sovietica, e questa complementarità viene ravvivata dall’unione doganale.



Scrive Sapir: «Se l’Ucraina dovesse firmare un accordo con la UE che escluda le relazioni economiche con la Russia, bisognerebbe che la UE compensasse il grosso lucro cessante delle industrie ucraine. Dovrebbe realizzare trasferimenti per 20 miliardi di euro. Chiaramente la UE non ha più i mezzi per versare una tale somma all’Ucraina «. E agli eurocrati ed «europeisti» occidentali, Sapir dice: «Non cercate di provocare una guerra civile dalle conseguenze geopolitiche incalcolabili per la difesa dei vostri interessi particolari».

Guerra civile? L’Ucraina è storicamente fratturata fra un’area cattolica o uniate e che gravita culturalmente sulla Polonia, e un’area russofona, ortodossa e filorussa. Questa incrinatura è evidente anche oggi, come mostra questa mappa delle elezioni del 2010, che hanno visto la vittoria di Yanukovitch sulla Timoshenko.



L’Ucraina è divisa non in due, ma addirittura in tre parti, e «si tratta di vedere dove tracollerà l’Ucraina centrale», scrive Sapir. Non è una questione leggera, l’ambiguità ucraina centrale ha sempre avuto una parte, e l’incrinatura è una ferita che potenze straniere hanno più volte lacerato, e brutalmente. Lasciamo da parte l’invasione svedese dove (secondo i russi) un importante etmano ucraino, Jan Mazepa, avrebbe tradito o si sarebbe accordato con il re guerriero di Svezia, e che lo Zar avrebbe concluso con la battaglia di Poltava (1709) schiacciando Carlo XII. .

Ricordiamo piuttosto che Kiev è stata conquistata dalle truppe polacche del maresciallo Pilsudski solo l’altro ieri, nel 1920; Pilsudski voleva fare della sua parte di Ucraina uno stato satellite, anche se la sua era una crociata contro l’Armata Rossa. Simon Petliura, giornalista e politico, organizzò un’armata che – da anticomunista e anti-sovietico – schierò a fianco dei polacchi; per forza, ossia non contento nemmeno dell’imperialismo di Varsavia. L’Armata Rossa fu cacciata da Kiev, che aveva occupato nel 1920.

Ucraini combatterono da entrambe le parti. Anzi le parti furono ancora più numerose: nella guerra guerreggiata c’erano i bianchi di Denikin, i makhonivsti (unico governo anarchico della storia, nato in Ucraina e governante su ampi territorio secondo le idee di Kropotkin, che i bolscevichi sterminarono alla fine) con una propria temibile «armata partigiana»; entrarono nel conflitto forze romene, germaniche, e bande autonome guidate da signori della guerra locali (1). I bolscevichi ripresero alla fine il sopravvento con l’Armata a Cavallo descritta da Isaac Babel, lo scrittore-propagandista che ne faceva parte, una formazione mista di cosacchi ed ebrei che praticò scientificamente il terrore rosso per paralizzare con la paura la inerme popolazione ucraina: bruciando interi villaggi, massacrando civili e saccheggiando tutti i beni, trucidando col colpo alla nuca prigionieri di guerra. Le atrocità ebraico-cosacche culminarono con l’incendio di un ospedale a Berdychiv con dentro i 600 ricoverati e le infermiere della Croce Rossa (naturalmente Babel ha denunciato, con particolari agghiaccianti, delle atrocità polacche).

Anche allora, l’ambivalenza della popolazione ucraina giocò la parte decisiva: sospettosa di Pilsudski e del suo alleato ucraino Petliura, fece loro mancare l’appoggio atteso, e facilitò di fatto la controffensiva bolscevica. Il compenso che la nazione ricevette, fu lo sterminio rosso dei piccoli coltivatori diretti (kulaki, forse milioni di uccisi) e la conseguente carestia, che ammazzò cinque milioni di ucraini, morenti di fame nel granaio d’Europa. L’autore e il gestore dell’olocausto fu il ciabattino ebreo Lazar Kaganovicv, divenuto il numero 2 del regime bolscevico a fianco del georgiano Stalin, ferocissimo (anzi, più precisamente, anti-umano) sterminatore degli ucraini. Il che non ha impedito ai nazionalisti ucraini d’oggi di accusare del loro Olocausto, i russi...

Seguirono le avanzate germaniche degli anni ’40, una nuova conquista di Kiev
, con formazioni ucraine combattenti a fianco dei tedeschi «per forza», altri a fianco dei rossi, e la stessa «ambivalenza». Dopo la vittoria delle «democrazie», gli Alleati riconsegnarono 300 mila cosacchi combattenti per Hitler, riparatisi con le famiglie sotto la protezione britannica, a Stalin: che li fece sterminare tutti, fino all’ultimo.

L’Ucraina è un campo di corpi umani e malsepolti, che il ghiaccio sovietico ha trattenuto per 70 anni; il disgelo e la fine dell’URSS, li rifà sanguinare, spaventosamente, e rivivere, e chiedere giustizia. Per questo il grande Solgenitsin aveva suggerito alla sua patria, Russia, di chiedere perdono, e agli ucraini di accettare il perdono, essendo le colpe reciproche dei due popoli-fratelli inestricabili, ed essendo in qualche modo i due popoli entrambi vittime di un sistema estraneo, quanto carnefici ai suoi ordini. E’ forse chiedere troppo, anche a Putin.

Così, come si vede, l’Ucraina rivela tutta la sua crepa storica. Rivela anche la sua ambivalenza fatale: è stato notato che l’Est russofono che aveva votato Yanukovich, non è sceso in piazza a sua difesa (se non tardivamente e organizzato dal governo). Yanukovich è raccolto discredito per la corruzione del suo entourage, gli oligarchi, , il cattivo governo dell’economia, i clientelismi.

Anche l’opposizione scesa in piazza, a quanto si capisce, è stata mossa dalla volontà di protesta contro il governo, cogliendo quasi come pretesto il voltafaccia di Yanukovich contro Bruxelles. In quanto tali, le manifestazioni ucraine si inseriscono – nella misura in cui sono spontanee – nella reazione di rigetto delle popolazioni verso le attuali classi politiche, dovunque in Occidente – dai Tea Party ai Forconi – nelle «primavere arabe», e financo in Turchia, dove Erdogan ha trattato i manifestanti di Taksim molto peggio di quanto la polizia di Kiev abbia trattato i dimostranti di Maidan. Una reazione in parte cieca al disordine internazionale imposto come ordine globale sotto la finanza? Forse è l’esito inevitabile e terminale dalla totale secolarizzazione del potere politico, che non può non coincidere con la sua trasformazione delinquenziale?

Forse. Ciò che stupisce, è che gli ucraini «arancione», se sono in buona fede, vogliano entrare in questa Europa burocratica.

«Prigione dei popoli», chiamava la propaganda massonica british e J l’impero multinazionale degli Zar. Oggi è la UE la «prigione dei popoli» del nostro tempo: greci e portoghesi vi muoiono, spagnoli e italiani vi languono, i popoli meridionali sono tutti sotto il tallone di ferro dell’amministrazione controllata eurocratica-germanica e bancaria, coi suoi pignoramenti.

Forse gli ucraini che sfidano il gelo agitando le bandiere blu con le dodici stelle, sperano che l’Europa li liberi della propria classe dirigente indegna. È un equivoco in cui siamo caduti a lungo anche noi italiani: il popolo più «europeista» nella speranza che «gli europei» sarebbero venuti a governarci al posto dei nostri politici stupidi e corrotti. Come potremmo spiegare agli amici ucraini, è successo invece che i politici sono diventati ancora più corrotti, che si ritaglino porzioni sempre più scandalose della ricchezza pubblica, e persino più irresponsabili di prima: non devono rispondere a noi ma a Bruxelles, e non hanno più bisogno di pensare politicamente, essendo la legislazione tutta indicata dalle normative europee (che loro si limitano a ratificare), avendo portato all’ammasso la sovranità e la libertà, e sgovernando, oggi, su mandato europoide. La speranza che l’Europa versi i miliardi per il sostegno alla transizione, o che consenta agli ucraini l’immigrazione senza visto – era cosa che sperava anche Yanukovich, per scaricare qui i suoi disoccupati. Oggi, qui, abbiamo abbastanza disoccupati, e l’epoca della solidarietà pan-europea è tramontata. Chiedete ai greci.

Un piano Kivunim per l’Ucraina? L’intromissione dei «diplomatici» americani a favore dei pro-europei di piazza Maidan, un intervento a scarpe chiodate sui cadaveri mal sepolti di questa dolorosa zona del mondo, fa pensare al peggio. Ricordiamo che le sovversioni neocon-americane nei paesi islamici hanno ricalcato la strategia proposta nel 1982, sulla rivista Kivunim (Direttive, interna all’Organizzazione Sionista Mondiale e non destinata al vasto pubblico noachico): in essa, un giornalista vicino a ministero degli Esteri sionista, Oded Yinon, preconizzava il frazionamento degli Stati islamici per linee etnico-religiose, linee di crepa da sempre ben visibili, onde ridurli a piccole ed innocue entità attorno ad Israele, unica potenza dell’area. Ciò doveva avvenire aizzando le varie etnie e sette le une contro le altre, cosa che si è dimostrata fin troppo facile. Dove non è stata facile (nell’Iraq di Saddam, uscito ancora unito da 8 anni di guerra contro l’Iran), i neocon hanno provocato l’intervento militare diretto statunitense; un milione di morti in più. (2)

Naturalmente, per espandere la democrazia. Anche in Ucraina si tratta di espandere la democrazia – con tutto quel che ne segue: tra cui l’intero Granaio d’Europa a disposizione per le sementi geneticamente modificate OGM e la partecipazione alle mega-partnership commerciali «atlantica»e «pacifica» in corso di realizzazione, ossia il risucchio nella globalizzazione sotto regole americane. Non è escluso che, però, che esista un «Piano Kivunim» che spacchi le due metà ucraine, tentando di aizzare una guerra civile. Anzi, l’identità degli istigatori, quei neocon di cui la Nedelman-Kagan detta Nuland è parte così preminente, rende questa prospettiva più che probabile. (3)

Un’altra volta nella storia, gli ucraini rischiano di pagare un prezzo altissimo ai loro sogni, e alla loro ambivalenza.





1) Mikhail Bulgakov ha narrato con lancinante partecipaione la tragedia di Kiev nel 1920 nel suo romanzo «La Guardia Bianca».
2) Ecco alcuni passi dello studio di Yino: ««La dissoluzione di Siria e Iraq in aree separate che riuniscano in un unico gruppo persone di diversa etnia e religione, proprio come avviene in Libano, è per Israele uno degli obiettivi primari sul fronte orientale. L'Iraq in particolare, ricco di petrolio da una parte, ma totalmente diviso dall'altra, è, fra gli obiettivi israeliani, uno dei maggiori candidati. Il suo smembramento è anche più importante per noi rispetto a quello siriano, essendo l'Iraq più forte della Siria. A breve termine, è proprio la potenza irachena a costituire la maggiore minaccia per Israele. «Una guerra fra Iran e Iraq lacererebbe quest'ultimo causando la sua sconfitta interna ancor prima che riesca ad organizzare una lotta su un ampio fronte contro di noi.. Ogni tipo di scontro inter-arabo sarà a nostro favore e accellererà il nostro scopo più importante di dividere l'Iraq in piccoli statarelli, come per la Siria e il Libano. (...) «In Iraq una divisione in province sulla base di criteri etnici e religiosi, come in Siria all'epoca dell'impero ottomano, è possibile. Così tre (o più) stati sorgerebbero intorno alle tre maggiori città - Bassora, Baghdad e Mosul - così le aree scite del sud si separeranno dal nord sunnita e curdo».
3) Al novero va aggiunto Gideon Rachman, uno dei principali editor del Financial Times, che giunge a minacciare Putin per la sua intromissione in Uicraina. Esponente di quegli inglesi dal nome J, a cui non par vero di dar ragione al detto della Thatcher: «Non conosco cittadini, conosco consumatori». Ma non dimentichiamo i “francesi” Hollande e Fabius, che vogliono boicottare le olimpiadi invernali di Soci per vendetta contro Putin. Il discusso politico e scrittore Eduard Limonov, benché avversario di Putin, ha espresso alle izvestia la consapevolezza di tutti i politici russi su questo gran gioco: «Molto più grande della Polonia, l’Ucraina ha sempre suscitato l’appetito dell’Occidente. Vediamo che la storia si ripete, pugnace e competitiva, che l’Occidente ci pesta i piedi e che la sua natura aggressiva non è mutata». Come per caso, il vice-premier Dimitri Rogozin, che a fianco di Putin presiede alle industrie militari, ha ricordato a chi se ne fosse dimenticato che «la Russia userà l’arma nucleare se attaccata». Una riproposizione della dottrina di De Gaulle: l’arma atomica come deterrente «dal debole al forte».






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