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A chi studia troppo Giavazzi
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La
crisi’, intesa come crollo dei mercati azionari, non è prevedibile per definizione. Se io sapessi che domani il mercato crollerà, venderei subito; se tutti lo sapessero, il crollo sarebbe di oggi, e non di domani. Quando porta questo discorso alle estreme conseguenze, conclude che i prezzi di oggi riflettono già tutta linformazione disponibile. Non è difficile, naturalmente, trovare persone che predicano crolli repentini dei mercati azionari: ma queste previsioni vengono celebrate solo quando si realizzano, mentre non vengono  criticate quando non si realizzano. Non mi dica, la prego, che sto cercando di difendere qualcuno: avrei scritto la stessa cosa se i nomi che menziona avessero sostenuto di aver previsto la crisi. Le sto solo riportando lo stato dellarte nella scienza economica su questo punto.

Sul contenuto dell
articolo, che parla principalmente della relazione tra disoccupazione e integrazione internazionale, vorrei parlare un po più estensivamente. Credo di capire che Allais auspichi la creazione di zone con livelli di sviluppo economico omogenei, allinterno delle quali avere scambi liberi, e tra le quali avere scambi protetti. Mi pare che questa soluzione non convenga a nessuno. Non conviene certo ai Paesi in via  di sviluppo, chiamiamoli Cina’. Questi Paesi hanno ottenuto enormi progressi nel tenore  di vita dei loro abitanti esattamente perchè sono in grado di produrre merci di qualità comparabile a prezzi più bassi. Non conviene neppure ai Paesi sviluppati, chiamiamoliUSA’, o Francia, per Allais, o anche Italia, per noi. Il computer su cui io e lei scriviamo, per esempio, ci sarebbe costato molte volte di più. Va bene, dirà, ma qui stiamo guardando a noi come consumatori. Che succede al mercato del lavoro? Non cè evidenza empirica di una relazione positiva tra livelli di disoccupazione di un Paese e livelli di integrazione commerciale su orizzonti di lungo periodo, 20-30 anni per esempio. Il motivo è che quando i lavori vengono distrutti in un settore particolare
, i lavoratori si riallocano in settori diversi con occupazioni simili; se sono giovani, anche in occupazioni diverse - i lavori insegnano qualcosa anche ai lavoratori stessi. Su orizzonti più brevi non c’è molta ricerca empirica, ed il motivo è che - fino ad un periodo relativamente recente - non cerano molti dati, e gli avanzamenti teorici sono stati limitati dalla complessità dei modelli necessari a studiare questi fenomeni. Noti che in ogni caso, se voglio sostenere che questi costi di breve termine sono importanti’, devo dare un peso relativo a presente e futuro da un lato, nuove e vecchie generazioni dallaltro. Qual è il peso giusto? Non lo so. Ma non lo sa neppure Allais (torno sotto su questo punto).

La disoccupazione in Francia - cosi come in Italia - è causata da un mercato del lavoro estremamente rigido
(mi perdoni, ma non capisco come leggere il suo grafico: cosa sono i numeri negativi?). Su questo sì, ci sono assodate ragioni teoriche ed evidenze empiriche. Le faccio un solo esempio: se fa un istogramma della dimensione delle imprese italiane in termini di numero di dipendenti, cè un picco abnorme al numero 14. Il motivo è che il 15esimo dipendente è estremamente costoso (si applica lo Statuto dei Lavoratori su tutti e 15). Certo, saremmo tutti contenti di avere la stabilità del posto di lavoro: ma non la otteniamo per legge. Per legge, otteniamo che molte imprese si fermano a 14 dipendenti.

La storia che ho raccontato sul commercio è estremamente semplificata. Sono tutte rose e fiori? No
, ovviamente. Ci sono moltissimi studi, pubblicati in tempi recenti e lontani, che parlano delle conseguenze della globalizzazione. Non li sto riassumendo, e non vorrei essere criticato per avere punti di vista ‘parziali’. Il campo di ricerca è estremamente attivo, e si è rinvigorito negli ultimi 10-15 anni per via di notevoli progressi teorici e maggiore disponibilità di microdati (dati a livello individuale, di impresa e di lavoratori). Molti studiosi hanno versioni non pubblicate dei loro lavori, molto vicine a quella finale, sulle loro homepage. Lo dico perchè credo che un approccio scientifico a queste questioni aiuterebbe tutti. E vorrei assicurare che lideologia conta molto meno della reputazione: quando uno studioso va in una università a presentare una ricerca, viene facilmente ridicolizzato quando dice cose sbagliate.

Questo mi porta ad una ultimissima considerazione. L’argomento per il quale Allais è un premio Nobel, ergo Allais ha ragione (ma viene ignorato da tutti gli ideologi ufficiali), non è un argomento solido. Allais ha vinto il premio Nobel per importantissimi contributi alla formalizzazione matematica della scienza economica, il che non garantisce che sappia parlare di tutta l’economia in generale, e di integrazione internazionale in particolare. Tutti possono parlare di tutto, per carità. Il punto di vista di Allais è legittimo come quello di chiunque altro. Ma l’economia è specialistica (oggi molto più di 50-60 anni fa): se volessi curarmi l’ulcera, non andrei da un otorino.

Direttore
, la rigrazio se avrà voluto leggere questa lettera fino in fondo. Ho scritto senza animosità, per darle il punto di vista di una persona che studia queste cose quotidianamente, e con il solo interesse ad avvicinarsi alla verità.

La saluto cordialmente.

Ferdinando»



Caro Ferdinando di Trieste,

non sono d’accordo con le sue osservazioni. Nè Allais nè (molto più modestamente) io intendiamo per «crisi» il crollo dei mercati azionari, imprevedibile per definizione. Intendiamo la grande depressione  che abbiamo sotto gli occhi, col crollo epocale del commercio, del credito, delle produzioni industriali, e le decine di milioni di disoccupati nei Paesi (ex) sviluppati. E questa crisi è provocata proprio e direttamente, come dice Allais, dal «commercio internazionale». Ossia dalla globalizzazione, che a sua volta consiste nell’eliminazione obbligatoria dei dazi sulle importazioni, e nel «libero movimento di capitali».

Provo ad illustrarle il perchè.

Con la globalizzazione, il salario dell’operaio italiano, 1.200 euro mensili, viene messo in concorrenza diretta con il salario cinese, diciamo 70 euro mensili. Il calcolo delle multinazionali fautrici della globalizzazione era questo: produciamo i beni in Cina, dove la manodopera costa 70 euro, e li vendiamo in Europa e in USA, i Paesi ad alto potere d’acquisto.

Il guaio è che l’alto potere d’acquisto tende a sparire da Europa ed USA, perchè i posti di lavoro per gli operai a 1.200 euro sono emigrati in Cina. Infatti, da noi, i salari stagnano o calano, e i lavori diventano sempre più precari, e la disoccupazione giovanile aumenta.

Come vendere le merci prodotto a buon prezzo in Asia?

Ecco la «soluzione» trovata dai globalizzatori: l’espansione del credito al consumo. Tu, lavoratore occidentale, con la tua paga non puoi permetterti il televisore Sony, il telefonino Nokia, l’auto coreana? Noi, banche, ti facciamo credito. Quel che il salario ti nega in potere d’acquisto stagnante o calante, le banche ti offrono facendoti prestiti facili. Ciò che perdi in busta paga, ti viene compensato dal credito. Su cui s’intende pagherai gli interessi.

Il trucco è stato applicato col massimo rigore teorico in USA e in Gran Bretagna, che non a caso sono i Paesi del massimo indebitamento privato. Il rischio che americani ed inglesi consumatori alla fine non riuscissero a pagare i ratei del mutuo o della carta di credito perchè sovra-indebitati su salari calanti, non preoccupava le banche, perchè avevano trovato un altro trucco: la cartolarizzazione, la securitisation. Le banche hanno trasformato i debiti dei consumatori in «titoli ad interesse», e li hanno rifilati a risparmiatori e fondi, che cercano appunto titoli che rendano interessi. Insomma, le banche si sono liberate dal rischio del prestare, e l’hanno passato ad altri.

Da qui la crisi dei mutui subprime. Una ragazza-madre negra, cameriera in un bar, 800 dollari al mese di reddito, viene attratta a contrarre un mutuo per una casa da 400 mila dollari. Ovviamente, la ragazza-madre finisce per non poter pagare, e tutto va a pallino. Lo stesso con le auto: in USA, i concessionari offrivano non solo la copertura al credito al 100%, ma persino 3 mila dollari in contanti a chi comprava l’auto nuova: torme di clandestini messicani si sono precipitati, non foss’altro per quei 3 mila dollari in contanti mai visti. Ovviamente, poi, non pagavano.

Che importa? Il loro debito era già in mano di decine di ignari «investitori», che volevano titoli per lucrare interessi.

Così l’insolvenza delle ragazze-madri e dei messicani clandestini, o la prodigalità dei detentori di cinque o dieci carte di credito, ha determinato il crollo dei mercati finanziari, dei titoli ad alto e sicuro rendimento.

Da dove trae, caro amico, l’idea che la crisi economica «è stata causata da una serie di interferenze politiche nel mercato dei mutui americani, ed alcune altre concause nella regolamentazione dei mercati finanziari»?

Queste sono giustificazioni alla Giavazzi, che accusa «lo Stato» e le supposte interferenze politiche per assolvere i «mercati» finanziari. Lei legge troppo i libri di Giavazzi. La vera causa, la causa di fondo della grande crisi in corso, è la perdita del potere d’acquisto dei consumatori-lavoratori occidentali, causata a sua volta dalla concorrenza asiatica sui salari, e «compensata» con l’espansione inverosimile, e irresponsabile, del credito facile.

Un insieme di trucchi che non era sostenibile. E la cui insostenibilità era perfettamente prevedibile a menti intellettualmente oneste come Allais.

Oggi viviamo la distruzione di intere economie reali avanzate che finisce per nuocere alle banche stesse. Oggi, per esempio, in Italia, i giovani entrano tardissimo nel mondo del lavoro o non ci entrano mai (perchè i lavori sono emigrati in Asia), e restano precari a vita: e a dei precari permanenti le banche non possono accendere mutui, nè fare prestiti al consumo. Del resto, anche la richiesta di credito si è ridotta al lumicino, nella grande depressione in corso.

Allais propone zone di libero commercio solo tra Paesi a tenore di vita comparabile, come sarebbe l’Europa occidentale. Lei obietta: «Mi pare che questa soluzione non convenga a nessuno. Non conviene certo ai Paesi in via di sviluppo, chiamiamoli Cina’. Questi Paesi hanno ottenuto enormi progressi nel tenore di vita dei loro abitanti esattamente perchè sono in grado di produrre merci di qualità comparabile a prezzi più bassi. Non conviene neppure ai Paesi sviluppati, chiamiamoli USA’, o Francia, per Allais, o anche Italia, per noi. Il computer su cui io e lei scriviamo, per esempio, ci sarebbe costato molte volte di più».

Ancora una volta, lei fa il ventriloquo di Giavazzi. E’ il robot Giavazzi che, di fronte ai disoccupati nazionali, che hanno perso i posti di lavoro andati in Cina e in Romania, replica: «Ma i cinesi, i romeni  stanno meglio». E chi se ne frega dei cinesi, se qui i nostri figli non trovano lavori qualificati. L’economia politica non è la stessa cosa che l’economia aziendale. Le aziende possono «esternalizzare» i costi, licenziare i lavoratori poco produttivi o in sovrapiù. Uno Stato non può esternalizzare i suoi lavoratori, i suoi vecchi, i suoi disoccupati, i suoi bambini in età pre-lavorativa: sono «costi» che deve continuare ad accollarsi.

Lei si rallegra: «Il computer su cui scriviamo, senza la globalizzazione, ci sarebbe costato molto di più». Anche i telefonini, se è per questo. Magari non tanto di più, visto che avevamo industrie di questo settore, devastate dalla competizione asiatica. Mettiamo il 10% in più. Un telefonino da 100 euro, Made in Europe, 110 euro. Ma per risparmiare 10 euro su un telefonino, abbiamo sacrificato generazioni di giovani ingegneri che non trovano lavoro qualificato per il quale hanno studiato. Per risparmi sui consumi elettronici, abbiamo  ceduto competenze umane e professionali, necessarie ad una nazione e all’Europa, e che sarà molto difficile ricostruire, e forse non ricostruiremo mai più. Perchè oggi solo i taiwanesi e i cinesi o gli indiani sanno ancora fabbricare computers, TV hd a cristalli liquidi, software e microchip, mentre noi non li sappiamo più fare. Ma li sapevamo fare, anzi in gran parte erano invenzioni europee o americane.

Questo è il «costo» che i Giavazzi non calcolano mai, caro lettore: l’impoverimento delle risorse umane, delle intelligenze e delle competenze professionali, tecniche e scientifiche, che l’Europa (e l’America) hanno perso cedendo le produzioni industriali ai Paesi a basso salario. Una perdita irreversibile dopo due o tre generazioni che si abituano ad non aspettarsi nessun altro lavoro se non i call center o le veline in discoteca.

In Italia, l’ignoranza dei giovani diventa ogni giorno più abissale – lo constato dalla lettere che ricevo – ma il motivo di fondo è sempre  quello: la globalizzazione. Perchè dovrebbero studiare ingegneria elettronica, faticare a imparare la chimica fine, l’ingegneria nucleare o la matematica avanzata, o anche il latino e il greco antico, se poi i posti di lavoro per queste competenze rare non si trovano più? Se gli sbocchi sono solo lavori precari nel «terziario»?

Questa perdita è immensa, perchè porta gli europei a ridursi al livello degli indios peruviani, a vivere di stracci e di pannocchie, da residuati di una civiltà migliore e superata.

Se l’Europa avesse messo i dazi sui televisori hd, sui telefonini e i laptop, caro amico, per un po’ li avremmo pagati di più, ma avremmo sviluppato e lasciato crescere le nostre industrie in questo settore. Avremmo impiegato competenze e professionalità e creatività; e col tempo, anche i nostri computer sarebbero diventati competitivi. E avremmo dato dignità e fiducia in sè a generazioni che oggi si sentono prive di futuro, senza scopi nella vita, e invecchiano da bamboccioni senza spina dorsale e senza carattere: perchè è il lavoro che dà dignità e carattere, è la coscienza del senso della propria fatica che fa maturare e diventare adulti.

I Giavazzi non tengono conto di questi costi – i costi della distruzione delle speranze e prospettive di intere generazioni – perchè non sono monetizzabili, e non vengono quotati in Borsa. Ma sono proprio i valori non quotati quelli più inestimabili.

E’ per questo che non sono d’accordo quando mi dice che «leconomia è specialistica» e «ha fatto grandi progressi» da quando Allais ha preso il Nobel. Negli ultimi decenni, gli «economisti» che hanno preso i Nobel erano tutti matematici, specialisti in sistemi per vincere in Borsa, praticamente di sistemi per vincere nel gioco d’azzardo; privi dell’esperienza umana, umanistica, che richiede l’economia politica, l’economia a cui deve guardare lo Stato, inteso come il garante nei secoli di una comunità. A questi Nobel non importava nulla se l’America e l’Europa si impoverivano di competenze e di dignità e di intelligenze. Inoltre, per loro, il «rischio» di credito era solo un parametro, utile a chiedere maggior interessi: tutta una «scienza» economica, dei derivati e dei CDS (Credi Default Swaps), è nata per valutare questo «rischio» inteso come occasione di maggiori interessi.

Piccolo particolare: questi genii ignoravano che nell’economia reale, un «rischio di credito» che si avvera significa la chiusura di aziende per fallimento, il licenziamento di lavoratori, il collasso del potere d’acquisto e alla fine, anche la bancarotta degli «operatori finanziari» che avevano assicurato il «rischio».

Ed oggi, a che si riduce tutta la scienza di questi genii dei mercati?

In USA, si riduce a prendere a prestito dalla Federal Reserve denaro a tassi dello 0,5%, e a investire questo denaro in Buoni del Tesoro americani al 3,75%. Capirai. Ovviamente, questa operazione non porta alcun valore aggiunto all’economia, anzi avviene a spese dei contribuenti. E’ un comportamento criminale, ancorchè «scientifico».

Studi anche un po’ di economia politica, caro giovane lettore Ferdinando. Studi i testi di Friedrich List, il grande avversario di Adam Smith, che insegnò a tutti gli Stati europei a creare ricchezza, modulando i dazi.

Lo dico a lei: perchè temo molto che le «competenze» che lei sta acquistando con lo studio quotidiano dell’economia liberista «scientifica», presto non varranno più molto sui «mercati».

Maurizio Blondet



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