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Delhi passa con Putin. E cambia tutto
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Quando a settembre si riunirà lo SCO, Organizzazione di Cooperazione di Shangai di cui Russia e Cina sono i grandi soci, anche l’India ne farà parte. Beninteso, lo SCO non è un’alleanza militare d’acciaio come la NATO, ma un alquanto vago impegno alla collaborazione militare «contro il terrorismo». E tuttavia, l’evento è rivoluzionario.

Anzitutto, è la Cina che invita l’India nello SCO. Fino ad oggi, Pechino era stato poco propenso ad accettare l’antico nemico bellico, in cui – per giunta – temeva il posizionamento «filo-americano» assunto da Delhi dal crollo dell’URSS in poi. Ma adesso c’è stato l’arrivo la potere indiano di Narendra Modi, nazionalista BJP: un enigma per quasi tutti, dato che nelle sue campagne elettorali, sulle sue idee di politica estera aveva detto niente. Nella riunione dei BRICS a Fortaleza, il presidente Xi Jinping s’è appartato con Modi per un’ora e mezza. Dopo, il cinese «ha cambiato posizione da cima a fondo» (così l’ex Diplomatico indiano Bhadrakumar) non solo sull’India, ma sulla natura da dare allo SCO. In una riunione dei Ministri degli esteri del gruppo, tenutasi a Duchanbe in Tagikistan (uno dei soci), è stato ufficialmente annunciato che, al prossimo vertice di settembre, lo SCO inviterà ufficialmente non solo l’India, ma il Pakistan, l’Iran e la Mongolia.

Ciò cambia fondamentalmente il peso dello SCO: se oggi a parte Russia e Cina riunisce Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan, un po’ patetici residui dell’URSS, adesso – fa notare Bhadrakumar – comprenderà (se la cosa va in porto) le quattro potenze atomiche dell’Asia, più un Iran che è in grado di diventarlo. Dal punto di visia geopolitico, cessa di essere un blocco terragno dell’Asia centrale, ma si bagna nell’Oceano indiano e nel Golfo Persico.

Come ha detto l’analista Alexei Maslov a Russia Today il 3 agosto, «Lo SCO comincia a giocare il ruolo di contrappeso dell’attività della NATO in Asia. È per questo. Oggi, lo SCO è più apprezzato in Asia proprio perché la politica americana in Asia è troppo dura verso questi Paesi (asiatici), ci sono troppe pressioni sui loro interessi, e questa politica era in contraddizione con gli interessi asiatici; sicché la volontà di India, Iran, Pakistan e Mongolia di entrare nello SCO è da questo punto di vista del tutto naturale. C’è un altro punto da tener presente: la crescita del ruolo della Cina nel mondo fa sì che molti Paesi abbiano timore di cooperare direttamente con essa senza delle garanzie. E lo SCO garantisce che la Cina rispetterà gli interessi di questi Paesi nel quadro delle norme in vigore nello SCO». Sembra quasi di sentire le parole con cui il biondino abitante fra le colonne in malachite del Cremlino ha persuaso Xi.

Modi nuovo Nehru?

Ma anche Modi, il nuovo premier indiano, ci ha messo del suo. Appena preso possesso dell’ufficio, ha rifiutato di ratificare l’ennesimo trattato commerciale col WTO – il gendarme della globalizzazione a firma anglo, di «facilitazione» degli scambi – sulla base che metteva in pericolo la «sicurezza alimentare dell’India» , (leggeteci una pulsione all’autarchia) e che le preoccupazioni indiane su questo punto andavano prese in considerazione prima di ogni firma. Era un trattato che il Governo precedente, di Manmohan Singh, aveva già accettato nel vertice del WTO tenutosi a Bali a fine dicembre 2013. Un duro colpo, forse mortale, all’intero progetto globalista. Washington, colta completamente di sorpresa (si aspettava l’indiano scodinzolante) ha risposto, come al suo solito, con minacce: le azioni dell’India «sono completamente inaccettabili e la mettono in dubbio come partner responsabile», ha sibilato il presidente della Commissione competente (Ways and Means) alla Camera USA. Un altro presidente della sottocommissione al commercio, ha avvisato: l’India «corre il rischio di eliminare ogni senso di buona volontà verso di essa». Il segretario di Stato – l’incredibile John Kerry – ha dichiarato che rifiutandosi di firmare il trattato del WTO, Delhi «manda il messaggio sbagliato».

Praticamente, dopo affermazioni simili, un paese deve aspettarsi i bombardamenti umanitari e un «regime change»... .Ma Modi, per nulla perturbato, ha rincarato la dose: anzitutto ha partecipato alla riunione dei BRICS a Belo Horizonte, sorprendendo anche gli indiani, e i poteri economici che avevano sostenuto la sua candidatura credendolo un nazionalista che avrebbe mostrato i muscoli a Cina e Pakistan e, perciò, forzatamente filo-USA.



Poi, ha fatto subìto sapere che l’India non approvava né si associava alle sanzioni che USA, Europa e Giappone hanno ordinato contro la Russia. Anzi peggio: ha annunciato a Parigi che, fino a quando la Francia non consegnerà le navi Mistral che la Russia ha comprato, nemmeno l’India pagherà i 126 caccia Rafale che ha ordinato, un affare da 20 miliardi di dollari. È noto che Parigi riceve pressioni brutali dagli statunitensi. «Dopo l’abbattimento del volo MH17, la Francia deve cancellare la vendita delle navi da guerra alla Russia. Dovrebbe vendere i due Mistral, invece, alla US Navy». Questi anfibi porta-elicotteri sono dei gioielli concupiti dalla superpotenza...

Un altro schiaffo, e Kerry ha dovuto abbassare le ali: «Saremmo ovviamente lieti di poter avere l’India con noi riguardo a questo (le sanzioni anti-Mosca), ma è la scelta dell’India», ha detto ai giornalisti che gli facevano la domanda. Si aggiunga che il nuovo Governo indiano, in base alle rivelazioni di Snowden, ha protestato ufficialmente con Washington per il fatto che l’americana NSA spiava e intercettava i dirigenti del partito BJP quando era all’opposizione (Washington ha espresso «regret»).

Insomma, una politica estera tanto solidamente indipendente, da far sperare l’Ambasciatore Bhadrakumar che «Modi sarà il nuovo Nehru», ossia che rimetta in funzione la politica di «non allineamento» degli anni ’50, quando l’India capeggiava (con lo jugoslavo Tito) il blocco dei Paesi che non stavano né con USA né con l’URSS, corteggiati da entrambi i blocchi.

Con l’entrata nello SCO, Modi dà un dispiacere definitivo alla superpotenza: «l’India non è disponibile a fare da contrappeso contro la Cina né come partner silente per isolare la Russia». Per di più, ovviamente, il passaggio del gigante indiano nello SCO rafforza la strategia di Putin di creare un contraltare credibile alle imposizioni americane; indebolisce la superiorità USA nei negoziati con l’Iran, rendendo meno efficaci e credibili le sanzioni e minacce di sanzioni. Riduce, inoltre, la capacità americana di sovversione, attraverso la manipolazione dei jihadisti e del terrorismo islamico (per esempio in funzione anti-cinese, eccitando gli uiguri) nell’intera Asia centrale. A tal proposito, è interessante l’invito cinese rivolto anche al Pakistan, l’ossessivo avversario dell’India: se ben giocata, spera Bhadrakumar, potremmo vedere i tradizionali nemici scongiurare quello che sarebbe occasione di guerra: la destabilizzazione dell’Afghanistan dopo «il ritiro americano» ( ma con basi missilistiche e militari nell’Hindukush). Invece di gareggiare per l’egemonia nel Paese, potrebbero cooperare a stabilizzarlo e restituirgli la sovranità perduta.

C’è, alla base di questo, una evidente profonda valutazione (e revisione) degli interessi a lungo termine dell’India, in un’Asia dove la Cina crescerà e l’egemonia americana , storicamente, calerà. Modi ha scelto di posizionare il Paese in un futuro multipolare (i membri dellla SCO possono perseguire ciascuno la propria politica estera in base ai propri interessi nazionali) scommettendo che il futuro sarà asiatico, ed è meglio aver voce in capito in questo emisfero.

Tanti sfidano l’embargo USA

E l’India non è la sola: anche se piccola (ma è una potenza economica), financo la Corea del Sud ha educatamente mostrato la porta all’inviato americano Peter Harrel (suo titolo: Deputy Assistant Secretary for Counter Threat Finance and Sanctions) atterrato a Seul per esigere che anche il Paese della Samsung partecipasse alle sanzioni punitive contro Putin per la presunta responsabilità nell’abbattimento del Malaysia Airlines. «La Russia ha un interesse nell’Estremo Oriente che data da più di 200 anni», è stata la risposta del Governo coreano, «e la Corea del Sud può essere un partner importante della Russia».

È appena il caso di fare il confronto con la politica degli europei, assoggettatisi tremebondi alle direttive della UE ormai divenuta «prigione dei popoli», e obbedienti fino al servilismo all’egemonia americana che ci ha ingabbiato nella NATO in una rotta di scontro con la Russia e, in prospettiva, la Cina, danneggiando a fondo i nostri interessi reali. E ancor peggio ci prepara il nostro «alleato» in futuro, se il direttore civile della NATO può impunemente diramare ai servi europei un tweet così:



«L’Europa è più pericolosa e meno stabile di un anno fa. La NATO dev’essere pronta a qualunque evenienza il futuro porti». Ovviamente l’Europa è più pericolosa e meno stabile, perché tale l’hanno resa gli Stati Uniti. I quali ora ci avvisano che dobbiamo esser pronti alla loro guerra....


Al contrario, nel quadro del blocco di interessi nazionali che si sta consolidando in funzione di contrappeso alla Superpotenza, è indicativo che l’egiziano Al-Sisi sia andato a Soci a stipulare con Putin un patto così concepito: l’Egitto fornirà ai russi beni alimentari per aggirare l’embargo, e Mosca pagherà con armi. Ossia, non con dollari. Il generale Al Sisi non ha dimenticato le lezioni di moralità ricevute da Washington (1) per il colpo di Stato che lui ha sferrato contro i Fratelli Musulmani, né soprattutto l’interruzione degli aiuti militari da 1,3 miliardi di dollari che gli USA hanno sempre dato all’Egitto, più precisamente alle forze armate egiziane, che compravano così armi americane. Adesso, da febbraio, sono passati a comprare armamenti russi. Sarà da vedere da che parte penderà Erdogan, adesso che ha vinto le elezioni presidenziali e conta di restare al potere fino al 2023... Anche lui ha ricevuto le lezioni di morale da Washington per come ha represso le manifestazioni di Gezy Park.

Possiamo indovinare che il biondino del Cremlino tanto demonizzato dai nostri media non sia affatto scontento di questi sviluppi.

A Fortaleza, Modi è stato fra i più convinti promotori della Nuova Banca di Sviluppo, creata dai BRICS con lo scopo di liberarsi dalla soggezione finanziaria internazionale esercitata dal Fondo Monetario e dalla Banca Mondiale, noti pilastri degli interessi anglo-americani. Anzi, con il Brasile, è stato Modi ad opporsi all’idea di Pechino di dare, nel consiglio d’amministrazione della New Development Bank, più potere ai Paesi che più contribuiscono alla nuova struttura: un meccanismo che avrebbe replicato la disuguaglianza fondativa del Fondo Monetario, dove USA e Gran Bretagna hanno la maggioranza assoluta. Invece, Modi ha fatto vincere l’idea dell’uguaglianza: eguali quote ed eguale diritto di voto. Per di più,, se la sede sarà a Shanghai, il direttore sarà indiano. I cinque fondatori hanno versato 10 miliardi ciascuno, e a pieno regime la banca avrà un fondo di 100 milioni per lo sviluppo di infrastrutture fra i membri, e superare problemi di liquidità a breve dei membri attraverso «currency swaps», ossia senza ricorrere al dollaro.

Naturalmente è alquanto prematuro salutare la banca dei BRICS come l’inizio della fine dell’egemonia del dollaro; i Paesi emergenti sono troppo disparati, con interessi troppo diversi – e relativamente troppo deboli rispetto all’impero globale della finanza, almeno per molti anni ancora.

E tuttavia, chi può dirlo? Chi avrebbe detto fino ad ieri che i BRICS avrebbero invitato fra loro la povera Argentina umiliata dalla sentenza del tribunale americano che ha violato la sua sovranità nell’interesse di un fondo speculativo privato? Ricordiamo gli ultimi sviluppi: il giudice statunitense Griesa ha fatto sequestrare 539 milioni di dollari che il Governo argentino aveva depositato presso la banca Mellon di New York, ma che – come ha gridato Buenos Aires – non erano più suoi, essendo destinati ai creditori dei bond argentini che avevano accettato la ristrutturazione del debito: un sopruso rivoltante. Di fatto il «diritto» americano ha favorito un creditore, il fondo speculativo di Singer, contro gli altri creditori, almeno legittimi quanto il primo, se non di più (il fondo di Singer aveva comprato i bond in suo possesso dopo il default, non prima) . L’Argentina è stata buttata fra le braccia della Russia, e un numero crescente di altri paesi vede ormai il sistema americano di finanza globale come una minaccia. Una minaccia tale, da valere la pena di rovesciarlo anche a prezzo di sacrifici e danni da sopportare.

Spieghiamoci. Non è mai facile cambiare un sistema finanziario mondiale come quello uscito da Bretton Woods e che assicura l’egemonia del dollaro: per quanto difettoso e sostanzialmente sleale (perché dà agli americani la possibilità di comprare le merci altrui con la carta che stampa senza ritegno), è il sistema da cui centinaia di milioni di lavoratori dipendono per i loro salari, milioni di esportatori per i loro guadagni, milioni di risparmiatori per i loro risparmi. È un sistema che le parti hanno imparato a capire. La sua stessa esistenza e stabilità nei decenni lo rende preferibile (per tutti o quasi gli attori economici) agli incerti, svalutazioni, guerre e tempeste valutarie che la sua detronizzazione provocherebbe.

Ma ora, negli ultimi anni, gli Stati Uniti hanno preso ad usare – anzi ad abusare – il sistema finanziario da loro dominato come un’arma di aggressione per i suoi scopo politici più momentanei, arbitrari e schizofrenici. Nel 2012, su ordine del Governo USA, Mastercard, Visa e Paypal hanno hanno cessato di versare le donazioni che WikiLeaks riceveva per mezzo di carte di credito; parimenti nel marzo scorso le ditte di carte di credito hanno bloccato le transazioni da e verso la Russia, in nome della sanzioni contro Putin e il suo entourage. L’Iran e le sue banche sono state escluse dal sistema di clearing mondiale SWIFT, e quindi paralizzate, come sanzione per il suo programma nucleare, che ha il diritto di condurre (sanzione, questa, dettata dalla UE sotto dettatura americana).

E non basta. Un giudice di New York ha condannato la BNP Paribas a pagare l’inverosimile multa di 9 miliardi di dollari per supposte malversazioni sul suolo americano, anche se parecchi vi hanno letto una ritorsione alla Francia per la vendita delle navi Mistral alla Russia. Una corte di arbitrato dell’Aja ha condannato Mosca a rifondere al noto Khodorkovski la cifra di 50 miliardi di dollari per aver sequestrato a costui la Yukos (oggi Gazprom), e ciò in base a un trattato che la Russia non ha ratificato e dunque, che non la vincola. Il Crédit Suisse ed altre banche svizzere sono state condannate a pagare miliardi di dollari in USA per complicità nell’evasione fiscale di cittadini americani. Naturalmente nessuna moralistica, miliardaria punizione legale è mai stata comminata alle mega-banche d’affari americane colpevoli della crisi economica da loro iniziata (crisi dei subprime); anzi, banche di cui è stata comprovata la complicità nel riciclaggio del narcotraffico messicano sono state esentate da multe, perché il loro crack avrebbe provocato «un rischio sistemico» al sistema bancario mondiale, essendo questi mostri «too big to fail»: troppo grandi per fallire (2).

E questo abuso arbitrario del potere finanziario coincide con il folle avventurismo bellicista americano, l’occupazione dell’Afghanistan, l’invasione dell’Iraq, la sovversione delle «rivoluzioni colorate», i sanguinosi «regime change» riusciti o accanitamente tentati in Libia, Siria, Ucraina, insomma con l’espansione del caos Made in USA (o Israel) e della destabilizzazione violenta di Stati sovrani in gran numero.

Russia e Argentina si sono così trovate a lottare per la loro stessa esistenza, e paradossalmente interessate entrambe alla nascita di un sistema mondiale monetario «US-free». La Cina ha cominciato a vedere i vantaggi di un avvicinamento a Mosca e alla formazione di un sistema monetario mondiale alternativo. E Brasile, Argentina, Ecuador, Cile, India si affrettano a sostituire con il loro export alimentare alla Russia quello che gli europei non forniscono più, per obbedire alle sanzioni statunitensi. Conclusione: «Ben poche nazioni sono ancora attratte dal modello imperiale anglo-sionista, e poche ne hanno ancora paura», come dice il blog Vineyard of the Saker.

Il fallimento dell’ebraismo imperiale

La dizione «anglo-sionismo» non è affatto un termine polemico antisemita. Indica precisamente la causa per cui l’impero americano è impazzito in quest’orgia di sangue e di caos, e punta alla nichilistica distruzione dell’umanità. Piaccia o no, gli anglo sono stati costruttori d’Impero, inteso – ricordiamolo – come un sistema d’incorporazione politica e giuridica di popoli diversi, «la chiamata a genti diverse e potenzialmente ostili a fare qualcosa di grande assieme», hanno saputo esercitarla. Eisenhower, Ronald Reagan che trattò con Gorbaciov, il Nixon che aprì alla Cina maoista, il suo consigliere generale Kissinger (il metternichiano), sembrano dei giganti dello spirito in confronto ai neocon di seconda fila che forsennati guidano la politica estera americana dal dipartimento di Stato (Victoria Nuland alias Nudelman, sposata Kagan), e i posseduti, il senatore McCain, Hillary Clinton – ma tutti i politici americani, oggi, se vogliono piacere alla cricca ebraica al potere e dunque essere rieletti, devono gareggiare l’un l’altro a chi è più estremista, più ostile verso gli altri popoli, più gratuitamente guerrafondaio: ossia devono adottare esattamente il vizio mentale ebraico che fa dello Stato d’Israele e della sua popolazione un manicomio di follia, crudeltà e paura, che fa urlare di gioia tutti gli ebrei nella distruzione di Gaza, e sentirsi circondato da nemici.

Ovviamente, perché gli ebrei sono incapaci di instaurare un Impero. Non vogliono, non sanno nemmeno concepire il «comando sul mondo» come un cordiale richiamo agli altri a condividere un qualche progetto comune, non fosse che di benessere materiale, o un «american way of life». Bibbia e Talmud gli hanno insegnato un solo modo di comando: la mera oppressione del non-ebreo come animale da soma e servo sub-umano, il disconoscimento di ogni sistema giuridico che non sia quello talmudico: anti-giuridico per eccellenza, in quanto non conosce leggi che obblighino «anche» gli ebrei a quel che obbligano i non-ebrei. Essi credono di essere stati eletti da JHVH all’impero del mondo, ma ecco come sanno comandare: lo mostrano a Gaza e Cisgiordania, immotivata distruzione, sangue, vendetta senza fine , spietatezza inumana, spropositato uso della violenza, gratuito massacro di donne e bambini, rapina di terre e beni altrui, oppressione ed umiliazione senza tregua dei soggetti, loro disumanizzazione.

È questo il solo modo in cui concepiscono il comando: «Saranno resi ciechi, leccheranno la polvere, saranno forzati a strisciare come vermi per paura di Dio e del suo popolo» (Michea 7,16). «Damasco cessa di essere una città, diverrà un cumulo di rovine». JHVH ha promesso: «Io nutrirò i tuoi oppressori con la loro carne, ed essi saranno ubriachi del loro stesso sangue come di vino dolce» (Isaia 49, 26).

Dopotutto, come insegna il Talmud, «Gli ebrei sono chiamati esseri umani, ma i non-ebrei non sono umani. Sono bestie» (Talmud: Baba mezia, 114b).

Allo stesso modo, i neocon – come i geni di Wall Street – sono capaci solo di una cosa: distruggere, assassinare, rubare, tenere per sé e nulla agli altri. Possono trasformare il mondo in un caos di sangue e di rovine, in una immensa Gaza — ma non costruire un Impero. La loro idiozia morale, il volersi «nemici del genere umano», non glielo permette. L’Impero ebraico non esisterà mai – anzi, stanno distruggendo lo stesso Impero americano, di cui hanno parassitato la forza bruta – e loro non usciranno mai dall’angoscia e dalla paura, dalla malvagità e dal nichilistico fallimento esistenziale. Sono gente che possiede il subconscio, e che nel subconscio si sa figlia di Satana, dell’Anticristo, votata al Nulla. Con l’entrata dell’India nello SCO, a fianco della Cina, Russia e BRICS, è metà della popolazione mondiale si distanzia da loro e da questa prospettiva di assassinio totale.

Loro, i ventriloqui della Superpotenza, il Falso Agnello suggeritore del cosiddetto Occidente, si preparano alla guerra contro questa parte del mondo; vi anelano, la provocano con ogni mezzo, non sanno darsi pace... e l’Europa dove sta?




1) Forse anche più di lezioni. Sui social media arabi circolano frasi, attribuite ad Hillary Clinton nel suo libro di memorie («Hard Choiuces»), secondo cui gli Usa – che avevano appoggiato il governo dei Fratelli Musulmani – sarebbero stati colti di sorpresa dal colpo di stato del generale Al-Sisi: «Abbiamo anche pensato all’uso della forza (...) quando degli elementi della nostra flotta si sono diretti verso le coste di Alessandria, erano guidati da sottomarini Seawolf- 21 con armi e sistemi di sorveglianza fra i più efficaci. Ma a sorpresa, appena avvicinatisi al mar Rosso, siamo stati accolti da una squadra di vecchi MiG-21 di fabbricazione russa, che i nostri radar non avevano segnalato. Da dove venivano e dove sono andati? Abbiamo preferito tornare indietro». Anche se queste affermazioni non sono veramente di Hillary Clinton, esse possono essere fatte circolare dai comandi egiziani, onde far sapere agli USA che Al-Sisi conosce fin troppo bene le loro intenzioni. Da notare: l’ambasciata Usa a Beirut ha emesso un comunicato in cui afferma chhe «le voci secondo cui, nelle sue memorie, la signora Clinton avrebbe ammesso che gli Stati Uniti hanno creato l’ISIS sono false» (!).
2) È il caso di aggiungere questo: mentre gli USA ci impongono, e a Bruxelles obbediscono, di attuare contro la Russia sanzioni che ci danneggiano enormemente (l’’Italia è il quarto partner commerciale per Mosca, ha un interscambio di 54miliardi di euro), l’americana Exxon ha ottenuto da Washington il permesso di continuare a sfruttare i giacimenti russi nel mare di Kara, estremo Nord artico, in società con la russa Rosneft. Dovunque, la politica neocon-imperiale è «due pesi due misure».

 

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