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Mali: Hollande, che successi!
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«Il fronte di guerra in Mali è a mille chilometri, quindi siamo abbastanza tranquilli. Ma stiamo ad occhi aperti»: così una delle guardie di frontiera guineane a Kouremalé dice al giornalista Paul Lieutaud, del periodico Marianne. Kouremalé è un polveroso villaggio schiacciato dalla calura, più tucul che case in muratura, che difficilmente troverete sulle carte. La sua sola caratteristica è di essere il posto di frontiera fra il Mali e la Guinea. Da giorni, il governo guineano l’ha riempito di poliziotti, militari e doganieri.

  
Il fatto è che l’intelligence occidentale ha segnalato che gruppi di islamisti facilmente sconfitti dall’intervento francese in Mali, non potendo fuggire per il nord (algerino), stanno ripiegando verso il Sud, ossia in Guinea. Di fatto, le facili vittorie di Hollande stanno allargando il contagio wahabita e guerrigliero in questa parte dell’Africa; il che è in qualche modo ironico, se si ricorda che l’intervento NATO che ha rovesciato Gheddafi per «liberare» la Libia è la causa prima dell’avvento degli islamisti in Mali, ultra-riforniti di armi saccheggiate dai grandi magazzini bellici di Gheddafi. Contagio dopo contagio, l’intervento francese in Mali è stato la causa dell’attacco wahabita sferrato per ritorsione contro il campo di gas naturale della BP nel deserto algerino (38 ostaggi uccisi).

È quindi comprensibile che le autorità della Guinea siano nervose: la capitale Conakry sta a 700 chilometri ossia a venti ore di sobbalzi su piste sfondate, di notte infestate da bande criminali che assaltano gli automezzi; difficile un intervento rapido al confine in caso di bisogno.

Maramany Cissé
  Maramany Cissé
Il 25 gennaio scorso il ministro della Sicurezza della Guinea, Maramany Cissé, è venuto di persona (non capita mai) a Kouremalé, panneggiato nel suo grand boubou da very important african, ed ha riunito tutti i responsabili civili e militari del posto di frontiera in una riunione a porte chiuse: due ore dopo le quali è ripartito senza lasciare dichiarazioni. Nello stesso giorno sono arrivati diversi americani dalle rispettive sedi diplomatiche di Bamako (Mali) e Conakry (Guinea): si sono chiusi in un vicino resort: scopo ufficiale, studiare un piano di evacuazione eventuale del personale diplomatico dalla capitale del Mali (Bamako è a solo 129 chilometri di strada ben asfaltata).

Se gli yankee abbiano anche avuto colloqui con il ministro guineano è ignoto. Certo è che questo è venuto a «stringere le viti» allo stracco personale di sorveglianza di Koremalé. Mentre da qualche settimana tutti i passeggeri che atterrano all’aeroporto di Conakry sono sistematicamente fotografati, a Kouremalè la sorveglianza sembra limitata a sfogliare passaporti e timbrarli. Dopodiché i passeggeri risalgono sui loro gipponi, sui pulmini di servizio pubblico rugginosi o grosse e vecchie Renault e proseguono. Magari dopo essersi fermati a ingollare un piatto di riso e pollo nelle bettole aperte che sorgono subito dopo il controllo.

«Come vede, è un viavai continuo, giorno e notte», ha detto al giornalista una delle guardie: «Gente di tutti i posti, Senegalesi, ivoriani, liberiani, mauritani...». Poi si tace perché ha ricevuto l’ordine di non parlare. Il capo-distretto, un anziano con la barbetta ed avvolto nel grande boubou bianco (segno d’importanza) è l’unico che dice qualcosa all’inviato: «Abbiamo dovuto accogliere un gruppo notevole di Tuareg con le loro greggi, ma non abbiamo visto passare tanti islamisti estremisti qui. Ma so che passano dalla parte di Labè». Un grosso agglomerato, a 300 chilometri da lì, nelle montagne del Fouta-Jalon, alla confluenza di tre frontiere – Guinea, Mali, Senegal – nel territorio dei nomadi Fulani (Peul in francese), dove il giornalista non se l’è sentita di andare. La trasferta da Conakry gli è bastata.

Questa è l’Africa: buco nero dell’informazione, distanze immani e impraticabili, assenza di controllo su territori vastissimi, nomadi, guerriglieri, aspiranti all’immigrazione in Europa che traversano incessantemente frontiere segnate solo sulle carte, peraltro imprecise. Quel che è certo è che i jihadisti che s’erano impadroniti di ampie zone del Mali, oggi, vengono denunciati dalla popolazione nera e segnalati alla polizia, ragion per cui sono in fuga; ma dove siano andati, di sicuro non si sa. Sono segnalati qua e là, Guinea, Niger, passati con i loro pick-up e pesantemente armati; di rado ai rari posti di blocco, per lo più tra la boscaglia. Cercano di stabilire dei loro santuari, in attesa della riscossa. In Niger sono ben accolti dalla popolazione: profondamente musulmana, è sensibile ai discorsi religiosi integralisti. In Senegal, dove sono dominanti le confraternite sufi (Murid, Tijaniyya) di cui i wahabiti sono feroci persecutori, esistono tuttavia frange di islamisti estremi, alcuni già con esperienze di guerriglia qaedista in Libia e Afghanistan, che possono ricevere aiuto (e armamento) dai nuovi arrivati. In Camerun dei residenti francesi sono stati rapiti da gruppi islamici forse collegati con Boko Haram nigeriano.

In Mali sono rimaste delle cellule, che si danno ad una guerra di attentati contro cui è difficile lottare. I circa 230 mila maliani profughi interni che, fuggiti davanti all’avanzata dei jihadisti stanno cercando di tornare al Nord dove abitavano, non possono ancora farlo, se non a loro rischio: «Abbiamo notizie che le tensioni etniche continuano e che gli islamisti si stiano raggruppando fra le montagne, da cui compiono raids in stile guerriglia, e in qualche caso attentatori suicidi», dice Elizabeth Rushing, esponente dello Internal Displacement Monitoring Centre (IDCM). C’è la vaga sensazione che i guerriglieri sono svaniti nel deserto e che i 4 mila soldati francesi si stiano impantanando in una guerra più lunga e costosa di quanto Parigi desiderasse; ed applica una censura quasi impenetrabile. I caccia supersonici Raphale decollano a volte per colpire un pick-up nel deserto. Nella città di Gao, appena abbandonata dai francesi dopo essere stata «liberata», si sono verificati due attentati suicidi (sventati di misura) e sono apparsi dei guerriglieri islamici che hanno attraversato il Niger su barche e si son dati alla macchia. Si sa anche di esecuzioni, tentativi di arruolare bambini-soldato, violenze carnali e bombe a lato strada che fanno saltare in aria i camion sopra i cui cassoni stracarichi di rifornimenti alimentari, viaggiano parecchi profughi interni.

«L’intervento militare non ha curato tutti i mali», conclude la Rushing, ed è il meno che si possa dire.

Alfpha Condé
  Alfpha Condé
Tutt’attorno (migliaia di chilometri) sono molti i regimi a dir poco fragili, con scarso controllo, con etnie da loro oppresse che gli sono contro; e che non attendono che d’essere destabilizzati dalla presenza di quella entità nebulosa che la propaganda americana vuol chiamare «Al Qaeda in Africa». Ad esempio il presidente della Guinea, Alfpha Condé, eletto due anni fa, affronta elezioni problematiche il prossimo maggio; certamente il suo gruppo di potere è ossessionato dai ricordi della sporca guerra che il dittatore della Liberia, Charles Taylor, ha fatto sconfinare nel territorio guineano: la città di Guekedu, investita dalla truppaglia liberiana, è stata teatro di atrocità che il regime (militare) di Guinea non ha nemmeno provato a contrastare. E nel 2012, una protesta popolare contro un caporione locale a Guekedu ha indotto il governo a mandare una truppa di élite, i berretti rossi, che hanno ucciso e violentato le donne... La cittadona ha 400 mila abitanti e sta a 700 chilometri da Conakry. E ribolle.

Si può capire che il verbo jihadista possa trovare orecchie pronte ad accoglierlo; motivo per cui la tv pubblica di Guinea (l’unica), ha ricevuto istruzioni di non parlare nemmeno del conflitto in Mali, nonostante il regime vi abbia inviato 500 soldati insieme ad altri stati africani, a sostegno dei francesi; per non dare certe idee alla popolazione. Ma quando i francesi se ne andranno, cosa succederà?

Il comando americano AFRICOM ha in progetto di impiantare una base di droni in Niger, o forse in Burkina Faso (non si sa ancora): misura in ritardo e poco influente, se si guarda alla vastità dei territori da sorvegliare (1).

L’analista Jean Paul Baquiast segnala un altro fattore decisivo per creare il terreno al potere wahabita: dopo la guerra in Mali, e l’insicurezza determinata dai gruppi armatisi nei magazzini di Gheddafi, «si allontanano sempre più le speranze di una rinascita economica che possa stabilizzare la gioventù locale». Chi investe in tali Paesi, dove ai rischi soliti dell’Africa si aggiungono questi altri? Ci sono solo imprese cinesi (miniere, agricoltura, qualche infrastruttura) e anglo-americane per il petrolio. Pochi posti di lavoro per i giovani locali, e si sa che la protesta contro la miseria e la disoccupazione, il malcontento di natura sociale, assume il tono di protesta «religiosa». Lo si è visto in Egitto, dove la «primavera» ha dato il potere ai Fratelli Musulmani. Lo si è visto in Tunisia, dove la rivolta nata dall’esasperazione per la miseria e la disoccupazione s’è conclusa con la salita al potere di Ennahda, il gruppo integralista pro-wahabita.

Vero è che in entrambi i casi la presa degli integralisti sullo Stato sembra contrastata: al Cairo lo mostrano le manifestazioni contro il neo-presidente Morsi; in Tunisia, l’assassinio dell’oppositore laico Chokri Belaid per mano di islamisti ha suscitato una tale furia popolare, del tutto imprevista, da spaventare il premier Hamad Jebali di Ennahda, al punto che questo ha azzerato il suo governo islamista e vuol rimpolparlo che «tecnici» a-partitici, soluzione che lo ha messo in collisione con il suo stesso partito Ennahda e soprattutto con il leader «duro» degli islamisti, Rachid Ghannouchi. Casi interessanti, se si vuole: sembra delinearsi in quei paesi mediterranei una reazione di rigetto, persino tra islamisti, del wahabismo importato e dei suoi eccessi di oscurantismo. Ma l’instabilità permanente in due Paesi dove tanti posti di lavoro vengono (o si dovrà dire «venivano») dal turismo, aggrava di sicuro la situazione sociale dei giovani, che abbiamo visto fa da brodo di coltura al jihadismo. (Tunisie: Ennahda contre Ennahda)

Che fare? I francesi non fanno filtrare notizie sulle loro operazioni; giornalisti che cercano di stare al seguito dei commandos ne vengono impediti dalle autorità (cosiddette) maliane. Però un generale francese, François Lecointre, ha sollecitato l’Unione Europea ad armare ed equipaggiare l’esercito maliano, fornendo tutto, dai veicoli agli apparecchi di telecomunicazioni, oltre ad addestramento; richiesta che ha qualcosa di umoristico, se si pensa che l’armata maliana che è scappata a gambe levate davanti ai guerriglieri jihadisti e ai Tuareg era stata addestrata da un decennio dagli americani, con grandi spese, nel quadro di un progetto anti-Al Qaeda in Africa. Scappando, i soldatini del Mali hanno lasciato nelle mani dei ribelli 87 gipponi fiammanti «land cruiser», nonché navigatori e telefoni satellitari tutti pagati da Zio Sam . In compenso è stato il capitano Amadou Sanogo, addestrato in USA, a guidare nel marzo scorso il colpo di Stato che ha detronizzato l’allora presidente Touré; causa golpe, la «comunità internazionale» ha decretato, com’è politicamente un embargo sugli armamenti dell’esercito maliano: almeno 140 blindati, 50 pezzi d’artiglieria, munizioni e persino alcuni Sukhoi sono bloccati nei porti di Conakry e Abidjan. Si tratta di materiali che il regime maliano aveva ordinato alla Russia per fornire al suo esercito appunto i mezzi di combattere i terroristi islamici; materiale reclamato dai militari golpisti, e che se fosse consegnato risolverebbe qualche problema. Invece di chiedere aiuti all’Europa (Ovviamente l’Italia ha aderito alla sollecitazione del generale Lecointre; sempre agli ordini, mon général). (French general urges EU to equip «impoverished» Mali army)

Naturalmente sarebbe più efficace schiacciare la testa al serpente, ossia alle due monarchie che diffondono, con gran impiego di mezzi, l’islamismo wahabita: il Katar e l’Arabia Saudita. Il Katar versa grossi finanziamenti ancor oggi ai Fratelli Musulmani in Egitto; in Tunisia i soldi sauditi e del Katar sono parimenti dietro la frangia più estremista di Ennahda. Ma dovunque nel Sahel essi finanziano scuole religiose dove loro imam retrivi, inviati come missionari, insegnano la versione più oscurantista dell’Islam, appunto il settarismo wahabita, impongono il velo e l’analfabetismo alle donne (e il divieto di studi «laici» agli uomini), e ovviamente il sogno fondamentalista di stati governati dalla Shariah, e l’odio anti-occidentale – idee e sentimenti che s’appiccano come il fuoco fra i giovani senza lavoro e senza prospettive che formano la maggioranza delle popolazioni in queste vaste aree. Ma nessuno in Occidente dice nulla a questi due corrotti regimi petroliferi, che stanno prolungando la loro esistenza con questa espansione esterna del wahabismo, che serve a loro, fra l’altro, per inviare nel mondo le teste calde jihadiste e salafite che altrimenti creano problemi in patria. L’emiro e la famiglia Saud sono «amici dell’Occidente» .

Quindi silenzio. Silenzio anche sui «ribelli» jihadisti che essi hanno arruolato in Libia, Afghanistan e Pakistan, armato e pagato per unirsi alla protesta civile siriana e tramutarla nel bagno di sangue che continua, con il sostegno di Francia, USA e UE. In stallo la situazione militare, i «ribelli» occupano il tempo nel saccheggio delle opere d’arte e nell’abbattimento dei tesori archeologici della Siria. Il danno è incalcolabile se si pensa che la Siria è stata per tre millenni crocevia di civiltà, religioni e culture tutte splendide: dai Seleucidi ellenistici agli Ommiadi, da Bisanzio a Roma ai Crociati e ai Templari, da Palmira ad Ebla, tutte vi hanno lasciato monumenti inestimabili. La ricchezza culturale della Siria può stari alla pari con quella dell’Italia per varietà e qualità. Ma tutto ciò, per i «ribelli», è solo l’odiato ricordo di idolatrie passate, da distruggere.

Il Krak des Chevaliers, la più imponente fortezza crociata costruita dagli Ospedalieri di San Giovanni dal 1147, patrimonio dell’umanità, è stata da loro cannoneggiata. I mosaici bizantini della città antico-romana di Apamea li hanno cancellati coi bulldozer. Ad Aleppo hanno dato fuoco ad edifici del suk in legno, vecchio di mille anni; hanno rubato mosaici dell’antichissima chiesa di San Simeone stilita; statue nabatee sono apparse sul mercato antiquario in Giordania, insieme a scimitarre islamiche ageminate, vasi dell’età del bronzo, teste di statue ellenistiche, vetri romani, oggetti d’oro: vengono per lo più da dodici dei 36 musei nazionali siriani che i ribelli hanno depredato per, dicono loro, autofinanziare la loro guerra liberatrice.

«È nel nostro diritto usare le risorse del nostro Paese su cui possiamo mettere le mani», ha detto al Washington Post un ufficiale della Free Syrian Army intento a guidare alcuni suoi uomini nella escavazione di una tomba romana fuori Damasco. L’eredità culturale della Siria sta subendo lo stesso destino della memoria storica dell’Iraq: la cancellazione, o per diretto intervento o per complicità dell’Occidente terminale con i nuovi barbari oscurantisti. (Syrian rebels loot artifacts to raise money for fight against Assad)

Anche in questo c’è qualcosa di escatologico.




1) E tuttavia, bisogna pur ammettere che i droni americani sono molto produttivi. Hanno già ammazzato 4700 individui. Lo ha rivelato il senatore Usa Lindsey Graham in una conferenza al Rotary Club del suo collegio elettorale, Soth Carolina. «The drone program has been very effective… We’ve killed 4,700… Sometimes you hit innocent people, and I hate that, but we’re at war, and we’ve taken out some very senior members of Al-Qaeda». Ossia: talvolta si colpiscono innocenti, e lo detesto, ma siamo in guerra... (Sen. Lindsey Graham says US drones have killed nearly 5,000 people)


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