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Dio benedica gli inglesi...
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Vinti 155 seggi locali: Nick Farage ha convinto gli inglesi. Dei seggi, i conservatori ne hanno perso 201 e hanno perso il governo di 11 «authorities», come si chiamano lì i comprensori locali, tra provincie e regione. I Lib-Dem hanno perso di più, 284 seggi in meno. Il punto è che i Lib-Dem sono parte della coalizione egemonizzata dai conservatori e da David Cameron: e ciò cambierà molte cose, perché evidentemente gli inglesi hanno tolto ai tories quella stampella. I laboristi hanno 269 seggi locali adesso, e quindi possono vincer le prossime elezioni politiche.

Dio benedica gli inglesi. Dio sa quanto mi costi scrivere la frase, ma la confermo: il vecchio istinto di libertà, e il coraggio, hanno avuto la meglio sul politicamente corretto europeista, sulle intimidazioni mediatiche, sui tecnocrati, sugli insulti veri e propri (fruitcakes ossia «fuori di testa» e «loons», ossia mattoidi: così hanno bollato i politici avversari, e i media loro asserviti, gli elettori di Farage; quanto a lui, gli hanno dato del clown e del «razzista»).

Si faccia solo il confronto con gli olandesi: invece di votare Geert Wilders «il razzista xenofobo», sono rimasti a casa in massa da conigli, con l’astensione inaudita dando la vittoria alle cosche europeiste.

Adesso, dai Tories si levano inviti autorevolissimi (Jacob Rees-Mogg, figlio di un direttore del Times) a «trattare con gli amici Ukip», e precisamente: a «assumere una linea più dura contro l’immigrazione dalla UE», e riconsiderare le riforme austeritarie dello stato sociale. Il premier, Cameron, ha ammesso che i Tories devono dimostrare che hanno «risposte da dare» su queste due questioni.

Ecco perché benedico gli inglesi: là, la volontà popolare espressa ha ancora un peso. Il voto all’Ukip è chiamato (là) «un terremoto politico». I Tories adotteranno una parte del programma di Farage. Il processo politico messo in moto può ben portare al ritiro del Regno Unito dall’Unione Europea (in cui già sta con un piede solo) e mettere l’eurocrazia in crisi comunque, perché adesso Londra batterà i pugni sui tavoli europei, porrà nuove condizioni: e non importa che lo faccia nel suo esclusivo interesse e nella sua visione atlantica: battere i pugni è qualcosa che né Roma né Madrid possono fare — e che Parigi, con La Pera all’Eliseo, non vuol né sa fare. Non si dimentichi che David Cameron ha promesso il referendum sul ritiro della Gran Bretagna nella UE se il suo partito vinceva le prossime elezioni politiche che dovranno tenersi a maggio: referendum, capite?, qualcosa di vietato nel resto d’Europa — visti i risultati di quelli consentiti... L’entrata nel ridicolo «parlamento» europeo ostaggio della Commissione, di membri di una formazione che si chiama «United Kingdom Independence Party», già di per sé apre a una speranza: nel resto d’Europa, «independence» sta diventando una parola-tabù, espulsa dalla neolingua orwelliana eurocratica.

Indipendence evoca appunto il vecchio istinto di libertà britannico. Sono i soli dove viga ancora la coscienza collettiva che «la sovranità è la base delle leggi», che la sovranità è «la fonte dell’autorità» legale; senza sovranità resta inevasa la domanda fondamentale della politica: «Chi ha diritto di comandare?», e si oscura «la funzione centrale del diritto, che è di mettere il debole e il forte sullo stesso piano». Insomma, gli inglesi sono ancora in grado di capire che la sovranità è la stessa cosa che «libertà». Non la libertà dei finocchi di sposarsi, di fare aborti, di drogarsi, o le altre «libertà» trasgressive che il potere ci concede perché non gli costano, ma la libertà dei cittadini di farsi comandare da chi ha diritto di comandare, e non da altri.

Per questo in Inghilterra, e solo lì, in tutti questi anni è stata mantenuta la sorda diffidenza contro una concezione della «statualità» eurocratica, non già come un corpo giuridico che promuove la libertà, ma «una struttura di comando ed obbedienza», quale si configura in modo sempre più evidente la UE: dove i cittadini sono sempre meno concepiti come «responsabili e liberi», ma «meri ricevitori di istruzioni». In Inghilterra s’è guardato con sempre crescente sospetto la pretesa delle normative e regolamenti europei di atteggiarsi leggi: troppo chiaro rimane lì il senso che la legge non ha il compito di regolamentare discrezionalmente la società; non ha quello di abolire i conflitti nella nazione, bensì di riconoscerli e istituzionalizzarli. È rimasta là la visione che confondere la «sovranità» con il potere reale e la forza economica significa cedere sovranità alla Germania e al suo mai morto prussianesimo, il suo pedagogismo da maestro di scuola kantiano («l’imperativo categorico», la frusta sulle mani agli indisciplinati che «vivono sopra i propri mezzi»).

Naturalmente, là c’è ancora la coscienza – da noi perduta, taciuta, censurata – che col trattato di Maastricht tutti gli altri Stati membri della UE sono soggetti alle normative europee — tutti tranne uno: la Germania. Con una famosa sentenza, la Corte di Karlsruhe ha sancito negli anni ’90 che se una norma europoide confligge con una legge tedesca, quest’ultima prevale. Da quel giorno stesso gli altri Stati dovevano mettere tutto in discussione, perché Berlino si esentava dalle norme comuni, mantenendo la sua sovranità (e il potere di fatto – non di diritto – di dominare gli altri); noi non lo abbiamo mai fatto.

Londra ha capito, per quel vecchio istinto, e di fatto è entrata in Europa a metà: solo nella parte che le fa comodo. Questo è – piaccia o no – senso di libertà, quella libertà che si basa sul coraggio, ossia la volontà del popolo di difenderla. Con la forza, se occorre.

Penserete che sto esagerando nelle mie lodi al Regno Unito? Scusatemi, forse mi son lasciato trascinare. Il fatto è che ho appena letto che un ricercatore e storico britannico, Perry Anderson, ha scritto un saggio – The Italian Disaster – che mette nella giusta luce la fonte della nostra infinita corruzione italiota. Tale fonte è per Anderson nella corruzione del diritto, più precisamente del diritto costituzionale, del fondamentale diritto di porre la domanda: chi «deve» comandare? E il britannico indica chiaramente il colpevole definitivo di questo disastro: Giorgio Napolitano. Quello che i nostri media incensano, il venerato maestro e caro padre, è per Anderson «una vera pericolosa anomalia, un politico che ha costruito tutta la carriera su un principio: stare sempre dalla parte del vincitore».

Nel suo The Italian Disaster, Anderson rievoca la storia del nostro capo di Stato: da studente aderisce al Gruppo Universitario Fascista, poi diventa comunista tutto d’un pezzo. Nel 1956 plaude l0intervento sovietico in Ungheria, nel 1964 si felicita per l0espulsione di Solgenitsyn, sostenendo che «solo i folli e i faziosi possono davvero credere allo spettro dello stalinismo». Fedele alla linea del più forte, vota sì all’espulsione del Gruppo del Manifesto per i fatti di Cecoslovacchia e negli anni Settanta diventa «il comunista favorito di Kissinger», perché il nuovo potere da coltivare sono ora gli Stati Uniti.

Anderson sottolinea che «gli USA e Craxi sono i nuovi fari di Napolitano e dei miglioristi (la corrente era finanziata con i soldi della Fininvest) e nel 1996 il nostro diventa Ministro degli Interni (per la prima volta uno di sinistra), garantendo agli avversari che “non avrebbe tirato fuori scheletri dall’armadio”».

Ma il meglio Napolitano, secondo lo storico britannico, lo dà da presidente della Repubblica: «Nel 2008 firma del lodo Alfano, che “garantisce a Berlusconi come primo ministro e a lui stesso come presidente l’immunità giudiziaria”, dichiarato poi incostituzionale e trasformato nel 2010 nel “legittimo impedimento”, anch’esso dichiarato incostituzionale nel 2011».

L’elenco delle violazioni costituzionali – di legittimità – commesse da Napolitano è puntiglioso e lungo: il mancato scioglimento delle Camere nel 2008, l’entrata in guerra contro la Libia del 2011 (scavalcando costituzione, senza voto parlamentare, violando un trattato di non aggressione), le trame con Monti e Passera per sostituire Berlusconi, modo – secondo Anderson – «completamente incostituzionale». Per non parlare della vicenda della ri-elezione al secondo mandato («a 87 anni, battuto solo da Mugabe, Peres e dal moribondo re saudita») e delle ultime vicende, con il siluramento del governo Letta. Napolitano, che dovrebbe essere «il guardiano imparziale dell’ordine parlamentare e non interferire con le sue decisione», scrive lo storico britannico, rompe ogni regola. «La corruzione negli affari, nella burocrazia e nella politica tipiche dell’Italia sono adesso aggravate dalla corruzione costituzionale». E poi il caso Mancino e la richiesta di impeachment contro il presidente da parte di Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ucciso, e l’invocazione della totale immunità nella trattativa Stato-mafia, che Anderson definisce “Nixon-style”, termine che evoca scandali come il Watergate. «”Ma gli esiti italiani sono stati diversi, come ben sappiamo”, fa notare lo storico» (Da Libero)

Perciò, Dio benedica gli inglesi. Almeno alcuni.




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