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Noi, futuri servi della gleba
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Riprendo il commento di un lettore:

«Pensare che la sinistra (sedicente) voglia limitarsi a lasciare le cose come stanno è un grosso errore. Le cose e letat desprit nella gente sta cambiando radicalmente.È impressionante la velocità con cui ci stiamo abituando ad accettare quel che fino a qualche tempo fa sarebbe apparso improponibile’. Questo pezzo di Curzio Maltese, pubblicato sul Venerdì di Repubblica del 13 aprile, è sorprendente nella sua schiettezza: una classe dirigente europea è pronta a prendere il potere’ (!) in tutte le nazioni di Europa, lItalia e la Grecia non sono che anticipazioni, noi saremo governati per lungo tempo da tecnici e tutto questo è positivo per il Paese. Leggere per credere. Presto lidea che il governo sia diretta espressione di elezioni politiche sembrerà un relitto ideologico novecentesco, come la Costituzione o i sindacati’». (Vedi articolo di Repubblica)

Il commento coglie bene il mutamento epocale che viene messo in atto con questa crisi del debito, e con la gestione della crisi da parte delle eurocrazie e della finanza: le istituzioni della libertà politica stanno già mutando sotto i nostri occhi con la scusa dello stato di necessità; e i più applaudono alle limitazioni della libertà politica, e anche chi non applaude vi si rassegna perchè, se è vero che il governo Monti non è nato da elezioni, c’è qualcosa che fa tremare ancor più, ed è la prospettiva di un ritorno alla partitocrazia che ci dà in questi giorni i suoi ultimi, indecenti spettacoli. Siamo pronti a farci dominare dalla «tecnocrazia che guiderà l’Europa» con un suo governo delegato tecnico «il quale dovrà fare i conti con l’autentico premier, il governatore Mario Draghi», per il quale si esalta Curzio Maltese. E già il solo fatto che Repubblica, con tutto il suo passato «democratico» e «progressista» possa pubblicare un così brutale diktat massonico, senza che i suoi lettori si ribellino, la dice lunga sul cambiamento già avvenuto.

Cambiamento epocale, storico, analogo al collasso dell’impero romano e alla sua metamorfosi nel feudalesimo, con la trasformazione di cittadini romani in servi della gleba, legati alla terra come cose. Anche allora, per ragioni di schiavitù fiscale.

Il dilemma resta però di sapere su cosa regnerà la classe tecnocratica coi banchieri: su un immenso arretramento economico, materiale e di civiltà, come appunto avvenne alla fine dell’impero romano. I suicidi di imprenditori e disoccupati, la distruzione dello Stato sociale (preconizzata da Draghi), lo strangolamento dell’economia a forza di tributi, è solo l’inizio. Quello che fa Monti – messo lì per assicurare i creditori (speculatori, finanza, banchieri, tedeschi) che il nostro debito pubblico sarà pagato, – diventa ogni giorno più chiaro: prosciugare la ricchezza accumulata dagli italiani nei passati decenni in cui sono stati cittadini liberi, e non solo contribuenti incatenati.

Monti sta riducendo infatti il deficit di bilancio (lo Stato spende meno di quel che incamera in tasse) a forza di attivi primari, in sè recessivi; inoltre, ha firmato il Fiscal Compact, ossia l’obbligo per l’Italia di ridurre il suo debito pubblico dal 120% al 60% del PIL in vent’anni: il che significa un prelievo di 45-70 miliardi di euro annui in più da estrarre dalla società e dall’economia per i prossimi vent’anni. Gli economisti del Principe (vedi La voce.info) ci hanno spiegato che questo prelievo astronomico è tollerabile, a patto che «il PIL nominale cresca del 2,5%». Ma oggi siamo in recessione economica, il PIL decresce. Monti e i tecnocrati pretendono che il debito sia pagato e ridotto «ad ogni prezzo»; se la cosa non verrà loro impedita, sanno dove prelevare questo immane balzello.

L’unico modo è intaccare il patrimonio privati del popolo italiano: poichè il popolo non produce quella ricchezza in più da devolvere ai creditori, ma dovrà comunque sborsare di tasca sua il 5% del PIL ogni anno, dovrà attingere alle ricchezze accumulate. Ai patrimoni, ai risparmi investiti, ai beni mobili e immobili.

Come sappiamo, il patrimonio privati degli italiani, buoni risparmiatori quasi come i giapponesi, è tanto. Ma a questo ritmo – 450-700 miliardi in dieci anni – finirà. Ed è questo impoverimento epocale che ci ridurrà nella condizione analoga – mutatis mutandis – a quella di servi della gleba in cui, a poco a poco, si trovarono gli ex-liberi cittadini romani. E per lo stesso motivo.

Ma prima, bisogna ricordare ancora una volta che, nella storia, si sono dati solo tre modi di sistemare un debito impossibile da assumere finanziariamente:

1) Il ripudio sovrano o la bancarotta di necessità. Più volte avvenuto nella storia anche recente.

2) L’inflazione, che significa restituire il debito al creditore in termini puramente nominali, annacquandolo in realtà con la creazione di moneta aggiuntiva in grandi quantità, il che provoca inflazione e screditamento della moneta in questione come capace di sostenere gli impegni contratti dai debitori. Si può provare che un aumento della massa monetaria dal 10% al 20% del PIL può ridurre il debito pubblico – in termini nominali – dal 200% del PIL al più virtuoso e maneggevole 66%. Ovviamente, nel frattempo, i prezzi interni sono triplicati dall’inflazione. Ma non sempre occorre mettere in atto questo trucco: basta che uno Stato abbia la possibilità di minacciarlo. È per questo che il Giappone, con un debito pubblico del 220% del PIL, non viene attaccato dalla speculazione: perchè questa sa che il Giappone può sempre pagare – stampando la sua moneta.

3) Rimborso del debito «a qualunque costo». È quello che sta mettendo in atto Monti su ordine dei banchieri e di Berlino.
 
È infatti evidente che le soluzioni 1 e 2 richiedono la sovranità monetaria – a cui abbiamo rinunciato adottando la moneta estera chiamata Euro, per cui non possiamo nè svalutare nè fallire, nè stampare. Sono inoltre i due metodi usati quando il debitore-Stato è in posizione di forza sui creditori (banche) e può imporre il suo regolamento dei conti con la forza pubblica e le sue leggi, e quando un governo decide, o si sente obbligato di preferire l’interesse dei suoi cittadini a quello dei suoi creditori: ossia di perseguire la piena occupazione anzichè la stabilità della moneta, ossia dei prezzi, che interessa ai ricchi. È questo il motivo ultimo per cui le tecnocrazie bancarie vogliono una moneta unica mondiale, ovviamente stabile a garanzia dei creditori.

La soluzione numero 3 è invece quella tipica dei periodi storici in cui sono i creditori ad essere in posizione di forza (1): sia quando il creditore è pubblico (Stato che esige le imposte) e i debitori privati (che devono allo Stato le imposte), sia – come oggi – quando i grandi creditori privati transnazionali hanno comprato (2) i politici e l’apparato pubblico, governativo, in modo da poter imporre alla massa il rimborso del loro dovuto «a qualunque prezzo».

Ed è qui che la situazione presenta impressionanti analogie con la crisi del Basso Impero, con il degrado fatale della civiltà, delle istituzioni e delle libertà dei cittadini.

Anche allora gli imperatori, di fronte a problemi finanziari insolubili, furono indotti ad aumentare la torchia fiscale fino al punto da spegnere ogni capacità di pagamento della maggioranza dei contribuenti, uccidendo la gallina delle uova d’oro.

Le cause dei problemi finanziari esorbitanti dell’impero romano sono plurime. Ma in sintesi sono quattro, collegati fra loro: 

• I costi della politica erano diventati proibitivi, in quanto i concorrenti alla porpora imperiale – spesso in competizione armata – dovevano comprare il favore, o almeno l’acquiescenza delle legioni, pagando regalie in denari d’argento.

La burocrazia diventava sempre più complessa, costosa ed auto-referenziale: il governo viene organizzato in veri e propri ministeri, con una gerarchia di burocrati che si danno titoli formali che indicano il grado: i funzionari «illustri» erano superiori agli «spettabili», eccetera. Il tutto catalogato nella «Notitia Dignitatum», inverosimile lista del 5° secolo che dettaglia le cariche di migliaia di funzionari, dalla corte imperiale alle più piccole provincie. Appaiono anche il titolo di «conte» (Comes rerum privatarum, Come domesticorum equitum…) e i relativi stemmi araldici di cui gli alti burocrati cominciavano a fregiarsi di diritto.

La crisi demografica – come l’attuale in Europa – riduceva il numero dei cittadini arruolabili, e dunque aumentava quello che potremmo chiamare il costo unitario del soldato; problema a cui si trovò una soluzione d’emergenza, ma non soddisfacente, arruolando extracomunitari, specie germanici che premevano dal Danubio, non romanizzati, dopo un superficiale addestramento al combattimento legionario, che si rivelò insufficiente.

La riduzione della base tributaria: via via che le legioni sempre meno efficienti dovevano cedere territori in cui si insediavano i barbari, ancorchè questi spesso proclamassero di voler mettersi al servizio di Roma come cittadini e non come nemici, in quei territori si cessava di prelevare le tasse.

Di conseguenza, laccresciuta esazione fiscale sui contribuenti rimasti, fino alla spoliazione e la perdita di libertà dei contribuenti e debitori che non riuscivano a pagare. Ciò perchè l’impero e i suoi burocrati dovevano far pagare il «debito» di Stato «a qualunque prezzo», se non altro perchè, in regime monetario metallico, non si poteva nemmeno concepire il debito pubblico nel senso moderno: i legionari volevano essere pagati in denarii argentei, i re barbari in chili d’oro per la loro «lealtà», mica in Buoni del Tesoro.

È così che nel Basso Impero i piccoli coltivatori diretti e artigiani, discendenti della plebe e di ex-legionari (che avevano ricevuto l’appezzamento come pensione di vecchiaia), sono schiacciati dal tributo, al punto da perdere i loro diritti di «franchi» o affrancati (liberi), e diventare «coloni» legati alla terra che coltivano, primo seme del servaggio medievale.

Come? Impossibilitati a far fronte alla torchia tributaria, questi piccoli uomini liberi si mettono sotto la protezione del potente locale. È l’antico istituto romano della clientela, che però assume un colore diverso, da disperazione. La protezione del potente è tanto più imperiosa in quanto la corruzione dell’apparato dello Stato (quegli «inlustris», quegli «spectabiles») giunge al punto in cui gli stessi alti funzionari si mettono al servizio dei ricchi, i soli capaci di assicurare la sussistenza dei militari e dei burocrati, che lo Stato comincia a pagare prima in ritardo (come oggi lo Stato italiano i suoi fornitori), poi a singhiozzo.

I piccoli proprietari, schiacciati dai debiti e dalle tasse, finiscono per dover cedere i loro piccoli appezzamenti al ricco protettore: ma costui non vuole la proprietà, su cui dovrebbe pagare le imposte; dunque, si limita ad esigere dal piccolo coltivatore – che resta formalmente proprietario – che coltivi quella terra non più sua, a condizioni che il potente impone.

La cessione dei terreni dal povero al ricco non viene registrata. Questo accordo leonino sottobanco si chiama «patrocinium», ed offre un doppio vantaggio al ricco possidente, spesso già latifondista: accresce il suo patrimonio terriero e si appropria di una parte dei raccolti (dei poveri che «protegge»), il tutto sfuggendo al fisco. Mentre il coltivatore diretto continua a precipitare nella spirale dell’indebitamento senza fine, le imposte dovute e non pagate accumulandosi proprio mentre le sue risorse sono ridotte dalla necessità di dare una parte del raccolto al ricco.

Una gigantesca evasione fiscale dei ricchi, che l’impero tentò ripetutamente di colpire, prima sotto Costantino e poi con Arcadio (377-408), senza successo. Alla fine, nel 415 l’amministrazione imperiale riconosce la validità delle cessioni, in cambio del pagamento, da parte dei ricchi patroni, delle imposte arretrate. Pagati gli arretrati, il debitore, il piccolo coltivatore, diventa però giuridicamente un «colono». Non è propriamente uno schiavo (ha esistenza giuridica) ma perde la sua libertà e quella dei suoi discendenti: perde il diritto di sposare una donna di classe diversa, quello di abbandonare la sua residenza, di cambiare mestiere; è tenuto a prestazioni in forma di lavoro non pagato, che nella Francia feudale dureranno secoli, e verranno chiamate «corvée».

Allora si chiamavano «Munera». E con la Origo (il luogo obbligatorio di residenza) e la Obnoxatio (la «libera» vendita di sè per debiti), fissano il trittico a cui il colono è legato come sulla croce.

Un cambiamento epocale che Salviano di Marsiglia, scrittore cristiano nato attorno al 400 dopo Cristo, denuncerà così: «Tramutati come se avessero bevuto il filtro di Circe, coloro che erano liberi si mutano in schiavi» (De Gubernatione Dei, V, 8, 44).

È la fine dell’impero romano e delle sue magnifiche istituzioni e infrastrutture – divenute ormai relitti del passato – e della cittadinanza che aveva esteso a tutta la popolazione dell’impero. Ormai, nasce l’«oscuro» Medio Evo.

E sappiamo che non fu tutto oscuro, perchè vi brillava la Fede e nei conventi si conservò la cultura; ma questo sboccerà dopo il Mille, con la travolgente ripersa demografico-economica. Quei quattro secoli che vanno dal 400 a Carlomagno, furono davvero lunghi secoli di tenebra e miseria, servaggio, violenza. La Valpadana, prima fittamente coltivata e centuriata, tornò palude, e lo rimase fino a quando, nel decimo secolo, i cistercensi – con infinita fatica e sacrificio delle vite falciate dalla malaria – non le riportarono a fertilità con la geniale invenzione delle marcite. Quattro secoli di frammentazione localistica, di isolamento e di “economia curtense”, ossia di autoconsumo, militarizzata e sorvegliata da castelli o conventi fortificati.

Quattro secoli in cui, come hanno comprovato archeologi britannici, diminuì persino la taglia del bestiame, mal nutrito dalla cessata coltivazione del fieno; e le ossa umane dell’epoca mostrano consunzione da violenza, da rachitismo e da fame, sconosciuti finchè Roma dominò.

Scomparvero nel Nord Europa le tegole sulle case (le navi romane le portavano come zavorra, costavano poco o nulla), sostituite da malsane capanne con tetti di paglia che in Gran Bretagna durarono fino al 1400. Furono secoli in cui delle superbe strade romane, lasciate senza manutenzione, si perse anche la traccia: insieme agli acquedotti spezzati da barbari durante l’assedio di Roma e mai più restaurati, relitti di un passato migliore.

La libertà romana come «diritto» del cittadino, fu sostituita dalla libertà germanica: il perimetro che il forte può difendere con la sua spada, e di conseguenza la faida e il guidrigildo, l’ordalia come duello giudiziario, il vassallaggio, le consuetudini etniche orali in cui consistè il «diritto» dei clan.

Presto anche da noi «l’idea che il governo sia diretta espressione di elezioni politiche sembrerà un relitto ideologico novecentesco, come la Costituzione o i sindacati. È quel che succede quando si vuol far pagare un debito impagabile «a qualunque costo».




1) L’assoluta egemonia della finanza privata sul potere pubblico riposa, radicalmente, sul fatto che agli Stati non è più concesso di battere moneta; oggi la moneta circolante è creata dalle banche indebitando tutti noi, anzitutto lo Stato, le imprese e le famiglie. A propriamente parlare, non c’è più «emissione di moneta», ma «emissione di debito». Le banche creano la moneta dal nulla e la prestano a noi e agli Stati, che dobbiamo pagarci gli interessi. Per definizione, è impossibile ripagare un simile debito così creato, per l’elementare motivo che il debito sarà sempre più grande della disponibilità di moneta. Ci hanno indebitato per sempre, come servi della gleba di tipo virtuale. «Quando il nostro governo, che ha la potestà esclusiva di creare moneta, crea quella moneta e poi va sul mercato aperto e la prende in prestito e paga gli interessi per luso della sua moneta, mi pare che si sia andati troppo oltre. Non ho mai trovato nessuno che, usando la logica e la ragione, sia capace di giustificare il fatto che il governo prenda a prestito luso della propria moneta». Così Wright Patman, senatore del Texas, il 26 settembre 1941.
2) «Uno dei fatti più stupefacenti della vita americana è che la ricchezza e la proprietà del Paese, e il controllo dellapparato di governo, sono nelle mani di meno del 2% dei suoi abitanti: un gruppo di individui eccessivamente ricchi (...), un piccolissimo gruppo di banchieri internazionali e prestatori di denaro, sfruttatori di utilità pubbliche e beneficiari di tariffe hanno effettivamente dettato le nomine negli uffici fino alla Presidenza compresa». John Hyland, sindaco di New York, 1922.



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