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Ho visto il nemico in faccia: fa paura
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Scusate la scarsa lucidità: il fatto è che dormo poco e passo notti agitate da quando, domenica sera, ho visto  l’inchiesta di «Report» sulla burocrazia «in cui si perde chi vuole costruire o ristrutturare secondo le regole». Solo chi non l’ha visto può darmi dell’esagerato. Vedere e toccare con mano i vertici dell’assurdo e delle angherie cui possono arrivare le caste burocratiche nostrane, è come vedere il nemico in faccia. Un nemico che ti vuole morto, e aspetta la prima occasione per torturarti.

Per chi non l’avesse visto, racconto solo due episodi fra i tanti.

Primo caso: uno studio di geometra nel bolognese. Un cliente vuole chiudere una porta interna al suo appartamento, in modo da ricavarne due. Non c’è nulla di più da fare salvo fare un muro là dov’è la porta; l’appartamento ha già due entrate indipendenti. Per fare una modifica interna come questa, lo studio del geometra deve consultare: il testo unico nazionale sull’edilizia, il testo unico «regionale» sull’edilizia; e inoltre il regolamento comunale del comune interessato. Tre tomi alti così.

Ora, una minima logica vorrebbe che, se esiste un testo legislativo nazionale, quello regionale è di troppo; oppure, magari, che basterebbe consultare il regolamento comunale, dato che dovrebbe in qualche modo aver «recepito» (come si dice in burocratese) i due testi delle istanze superiori.

Invece no: tutti e tre i testi normativi hanno la stessa voce in capitolo. Non ce n’è uno che faccia più autorità degli altri due, sicchè occorre obbedire a tutti e tre contemporaneamente.

Il fatto è che i tre testi, che s’incastrano ed intrecciano, si ignorano a vicenda e si contraddicono l’un l’altro. Tanto che spesso il geometra deve chiedere «chiarimenti» su come interpretare  le norme. A chi? Al Comune (perchè no anche a Regione e Stato?). Con apposita supplica in carta da bollo, si deve chiedere un appuntamento al competente ufficio municipale per porre «un quesito».

Un quesito per volta. Il geometra può avere tre o più quesiti da porre, per essere sicuro di non infrangere le nostre draconiane normative plurime: in tal caso deve chiedere tre appuntamenti distinti. Per lo stesso appartamento, per la stessa modifica dello stesso appartamento.

«Sennò si formerebbbero code negli uffici», si giustifica un tizio del comune. E naturalmente, ogni volta l’addetto comunale che si degna di farsi sottoporre il nuovo quesito non è lo stesso che ha ascoltato il quesito precedente: sicchè bisogna raccontare e spiegare tutto daccapo, e spesso il secondo addetto trova «irregolarità» in ciò che ha fatto il primo addetto, e si deve ricominciare da capo. Sempre, ad ogni passaggio, con carta bollata da 16 euro.

Mettiamo che le autorità comunali finiscano per accettare la «regolarità» dell’opera : ricordiamo, si tratta di chiudere una porta all’interno del mio e del vostro appartamento. Un vano di due metri per uno e mezzo da chiudere con un muretto.

Ma prima di mettere un mattone sull’altro, il proprietario deve presentare al Comune delle «certificazioni». Cioè, se ho ben capito, deve comprovare al Comune, con perizie e documenti, che la costruzione del muretto dentro la sua casa non comporti l’attuazione di altre «irregolarità», che sia tutto «a norma». Quante sono le certificazioni? Una trentina. Quasi tutte insensate.

Per esempio: per chiudere una porta interna con un muretto, il proprietario deve certificare l’impianto elettrico della casa, che quasi certamente era già a norma prima: dunque deve ricertificarlo di nuovo. Deve certificare che quel suo odioso muretto non minaccia lo «smaltimento degli aeriformi» nè è causa di «emissioni dannose», non riduce «l’approvvigionamento idrico» nè «lo smaltimento delle acque reflue».

Che un muretto a chiusura di una porta possa minacciare lo smaltimento regolare delle acque reflue è ovviamente escluso per natura; ma le pubbliche autorità approfittano che voi avete chiesto quella piccola modifica per ripassarvi al setaccio tutto l’appartamento, per ficcare il naso nei fatti vostri, onde vedere se possono in qualche modo punirvi e multarvi per qualche dimenticanza o «irregolarità». O almeno ostacolarvi in quella vostra arrogante pretesa di fare, in casa vostra, quel che vi pare.

Infatti, vi chiedono anche di certificare – cito a memoria – che chiudere quella porta non influisce sul «contenimento dei consumi energetici». Che non turba il «rispetto dei campi elettromagnetici».  Dovete fornire, inoltre, la certificazione antisismica, anche se volete costruire il muretto in cartongesso. Soprattutto, dovete certificare che il vostro muretto (interno) è «in conformità con gli aspetti urbanistici».

Aspetti urbanistici, capite!? A parte che se siete italiano vivete sicuramente in un abitato dove gli «aspetti urbanistici» semplicemente non esistono, essendo da gran tempo violentati da immani palazzoni abusivi che hanno ottenuto «la deroga» o il condono... come far capire che la modifica di una parete interna non ha nulla a che fare con l’urbanistica, e ciò per definizione, essendo «interna»?

Ma lo capiscono, certo che lo capiscono: solo che lorsignori vi vogliono dimostrare chi è che comanda. In un’Italia dove è normale l’abusivismo, voi che fate l’errore di chiedere alle «autorità competenti» cosa dovete fare per essere «in regola», siete la loro vittima preferita. Avete poggiato volontariamente la testa sul loro ceppo.

M’immagino come vengano stilati i regolamenti comunali, in aggiunta alla legge nazionale e a quella regionale: è una giornata di festa negli uffici, persino gli assenteisti più incalliti tornano dalla finte ferie per malattia per partecipare al divertimento. Tutti s’ingegnano di inventare nuovi lacci e laccciuoli, fanno a gara per escogitare le più inaudite normative da imporvi: «Chiediamogli di dimostrarci che non viola le leggi antisismiche», grida uno. «E becchiamolo sulle acque reflue!», si spancia un altro. «L’urbanistica!», evoca un terzo. «I campi elettromagnetici! Prendiamolo in castagna coi campi elettromagnetici!», strilla gaudente un altro. «Ma è legale...?», chiede un quarto, dubbioso sull’esistenza dei campi elettromagnetici in un appartamento; segue una frenetica consultazione di piani nazionali e regionali: «Sì, si può!», strillano tutti, e giù risate.

Anzi: vi aggiungono l’obbligo di accertare che i muratori che vi tirano su il muretto ricevono i
contributi previdenziali. E vi impongono pure di presentare un «piano di sicurezza» anti-infortuni...

Perche questo è il punto. Loro possono escogitare tutti gli «adempimenti obbligatori» che vogliono, anche trenta o quaranta per un muretto, perchè – tanto – il loro lavoro non aumenta. Siete voi che dovete certificare, non loro. Siete voi che dovete sapere se l’azienda costruttrice paga i contributi ai suoi operai, non la pubblica autorità. Siete voi che vi dovete occupare degli infortuni potenziali del muratore, non lorsignori.

Il «servizio pubblico» esiste per questo: per mettere voi al suo servizio, per evitare a loro la minima fatica. E per dimostrare il suo potere su di voi.

«Report» ha intervistato un tecnico comunale di Grunwald, sobborgo di Monaco. Domanda: che permessi ci vogliono, in Germania, per chiudere una porta? Il tecnico cade dalle nuvole: «Non c’è bisogno di nessuna autorizzazione per un muro interno». Anche se col muretto un cittadino trasforma il suo appartamento in due appartamenti? «Non ci interessa se da un appartamento ne ricava due. Quel che ci interessa è che ci sia il posto auto per il secondo».
Ah, il posto auto: ecco cosa interessa ai Comuni tedeschi. Ai nostri, interessano i campi elettromagnetici.

Domanda insistente: «Ma nel caso che uno voglia farsi un secondo bagno...?». Il tedesco: «Quanti muri o bagni ci sono in un interno, non è cosa che riguarda il Comune. Riguarda la sfera privata».

La sfera privata, ragazzi: in Europa, la burocrazia rispetta una «sfera privata». Risulta che in Germania, il Comune si occupa solo dei «muri esterni, del tetto e dell’altezza dell’edificio», quel che riguarda la sfera pubblica, i famosi «aspetti urbanistici». Le regole sono poche e chiare: non c’è un piano nazionale, uno regionale, e un regolamento comunale di mille pagine ciascuno. Ci sono tre foglietti con 15 punti, che il cittadino costruttore deve rispettare: essenzialmente altezze, aspetto dei muri esterni e del tetto, punto e basta. Definiti dal piano regolatore comunale.

«Se si attiene a questi dati senza variazioni, per costruire gli basta dare una comunicazione di inizio lavori» (1). Non ha bisogno di alcuna licenza nè permesso. Anzi: ricevuta la comunicazione di inizio lavori, «ci pensa il Comune ad informare le autorità di controllo, il catasto, ed altri enti in caso di edifici vincolati».

A Grunwald, il Comune avvisa il catasto! Non il cittadino, ma il Comune! Il municipio e il catasto – due uffici pubblici – comunicano tra loro! C’è gente che esce dall’ufficio non per fare shopping, ma per «controllare» che l’edificio sia in regola! Non si fa mandare faldoni di certificazioni sulla scrivania, con tanto di bollo. Insomma, i dipendenti pubblici... lavorano, in quanto stipendiati per lavorare al posto del cittadino! Non ci si può credere.

E chi ha visto Monaco di Baviera, ha visto che città è, quanti edifici abusivi esistono. In Italia, per alzare quel muretto da meno di 1.000 euro, uno già ne deve spendere oltre 5 mila in «certificazioni», licenze e carte bollate; a Monaco, niente è dovuto al Comune. E si apprende che a Bologna, la civile Bologna, se uno si vuol mettere in giardino un casotto per gli attrezzi, di quelli che si possono comprare già fatti negli ipermercati per 1.500 euro, deve chiedere «la licenza edilizia». Non vi dico Afragola, dove vige – come afferma un competente comunale – «la cultura dell’abusivismo».

Vorrei essere breve. Ma non posso non rievocare il caso del ponte crollato. Il trafficatissimo ponte che scavalca il Po sulla via Emilia, fra Lodi e Piacenza, abbattuto da una mezza piena del Po nell’aprile 2009 (scarsa manutenzione). Lo deve ricostruire l’Anas. Ma non ce la farebbe senza un decreto governativo d’emergenza, che obbliga tutti gli enti che hanno voce in capitolo a riunirsi attorno ad un tavolo: perchè gli enti sono 18, e tutti  gelosissimi delle loro prerogative.

Le due Regioni (Lombardia ed Emilia); le due Provincie. Inoltre, le soprintendenze delle due Provincie. E inoltre, e contemporaneamente, le soprintendenze delle due Regioni. E ancora, i due Comuni. Siamo già a 10 enti. Bastano? No: bisogna avere il consenso, perchè hanno il potere di veto sulla ricostruzione, anche l’Agenzia interregionale del Po, un ente misterioso chiamato ARNI (pare che gestisca il demanio di navigazione fluviale per conto della Regione Emilia), la «Autorità di Bacino», una «Agenzia di navigazione»... L’idea di accorpare tutti questi enti – inutili, dato che il Po è navigabile per modo di dire – nella sola Agenzia Interregionale del Po è stata ventilata dal un consigliere regionale, tale Filippo Fabi di Forza Italia («Serve solo a dare stipendi a dirigenti e funzionari») nel 2007, ma è stata sdegnosamente respinta. Quattro enti fluviali hanno dovuto dire la loro. E non basta ancora: dulcis in fundu, si è dovuto avere il consenso anche del Servizio Parchi Emilia Romagna, poichè un pilone del ponte poggiava su un isolotto del Po dove nidificano uccelli protetti: non poteva mancare il veto ecologico.

Si noti: non si trattava di costruire un ponte ex novo, ma solo di tirare in piedi un ponte che esisteva già, e sul quale i 18 enti non avevano espresso alcun parere negativo, anche perchè quando il ponte fu costruito, gli enti non esistevano. Ora, come mai una ricostruzione nello stesso luogo dello stesso ponte di prima, esige la voce in capitolo degli enti? L’Anas non ha il diritto di ricostruire da sè, per decisione autonoma, il manufatto che gestisce?

No. La mente si perde  nella contemplazione dell’assurdo burocratico.

Ma il fulmine non è arrivato dal Servizio Parchi. E’ arrivato – inevitabile – da una delle 4, diconsi 4, soprintendenze (le cosiddette Belle Arti) di cui è obbligatorio il parere. Per la precisione, la soprintendenza della provincia di Piacenza. La sua obiezione: bisogna rifare il ponte identico a quello crollato. Ma è un ponte moderno, del ‘900! hanno esclamato sgomenti gli ingegneri Anas.  Replica: infatti. Si tratta del primo ponte nella Provincia costruito in cemento armato.

Ora, viene da pensare che se un primo ponte fatto di cemento armato è protetto dalle Belle Arti, non siamo lontani dal momento in cui le Belle Arti vieteranno l’abbattimento degli immobili abusivi, in quanto monumenti della «cultura italiana» da preservare.

Invece, a quanto pare, il veto posto dalla soprintendenza provinciale ha creato un certo malumore, persino fra gli altri enti inutili chiamati a dire la loro. Report ha ascoltato tale Gisella Capponi, una signora della Soprintendenza, che ha detto: «Anzi, c’è stato un linciaggio contro di noi». E ha spiegato, offesa, il suo perchè: «Ritengo perchè qui alla Soprintendenza siamo tutte donne».

Una risposta – dirà qualcuno – che, se ci fosse rimasto un barlume di ragione in Italia, varrebbe il licenziamento in tronco della pubblica dipendente. Per giusta causa in base al Lodo Rosy Bindi: più bella che intelligente.

E invece, io difendo la signora Cappelli: essa stessa è un monumento della ideologia burocratica italiota, che merita di persona la protezione delle Belle Arti. La sua risposta è ideologica, di un’ideologia di terza mano, appresa leggiucchiando il «Manifesto», l’organo ufficioso delle caste fancazziste che affollano i numerosissimi uffici pubblici. L’ideologia degli statali e provinciali è  debitamente «di sinistra». E il caso dimostra benissimo che l’ideologismo serve da copertura all’incompetenza e all’irresponsabilità.

Alla signora Cappelli e alle sue colleghe tutte donne non gliene frega niente che il loro veto costi alla comunità e ai privati centinaia di milioni di euro (sul ponte passavano 25 mila veicoli al giorno; non essendo ancora ricostruito dopo mesi, sarà sostituito da un costoso ponte di barche provvisorio, che non si vede ancora); non accetta che il suo veto sia definito idiota, aritrario e cervellotico; lo statale non sbaglia mai per definizione, se qualcuno critica è perchè «siamo donne», e si sa che gli uomini ce l’hanno con «le donne».

Qui, il teatro dell’assurdo supera i suoi inarrivabili vertici comici, per diventare tragicommedia. Il pubblico dipendente mostra qui che, per far valere il suo potere, è pronto a superare i limiti del delirio psicotico; tanto c’è la legge Basaglia che impedisce il ricovero coatto.

Si intuisce quel che è successo davvero. La grigia ancorchè opima pianura tra Lodi e Piacenza scarseggia acutamente di acquedotti romani, di basiliche imperiali, di scavi pompeiani, di templi greci e di dimore storiche. Il che significa, per le signore della soprintendenza locale, che sono deplorevolmente rare le occasioni per impicciarsi e bloccare progetti di utilità sociale. E’ una noia: si ha un bello sferruzzare, leggere e commentare rotocalchi (femminili), uscire al bar per il sesto cappuccino e coprirsi a vicenda («La direttrice è fuori stanza») per andar fuori a comprare il prosciutto e il cavolfiore. Ci si annoia. Non si sa come tirare la giornata. Magari si teme, vagamente, che un giorno qualche Brunetta si accorga che la Soprintendenza è del tutto inutile, e decida di spostare alcune signore, poniamo, alla Soprintendenza di Roma, dove manca disperatamente il personale per l’abbondanza di scavi, Pantehon, terme di Caracalla, palazzi rinascimentali, statue e vasellami. Non è in discussione «il posto», che è garantito in eterno: ma chissà, la «mobilità»... Si perderebbero delle amiche, il doppio lavoro in loco...

Il crollo del ponte novecentesco sulla via Emilia viene come una grande occasione: è la prima opera in cemento armato! Va difesa! Deve dimostrare la nostra utilità! Finalmente ci mobilitiamo per una causa!

Concludo che le signore l’hanno avuta vinta: il ponte sarà moderno, ma dovrà fingere di essere vecchio come prima, coi suoi piloni di cemento armato applicati su strutture metalliche elastiche. Altre spese, altri costi. Chi se ne frega, paga il contribuente.

Quindi mi capite se dico che non dormo bene la notte, e mi scuserete se vi ho raccontato cose che probabilmente la maggior parte di voi avrà visto a Report: è che ho i brividi. Una cosa è sapere che la burocrazia è il nemico assoluto di noi cittadini; un’altra è vederlo in faccia. Vedere in prima persona la sua molteplicità persecutoria in continua proliferazione. Toccarne con mano non solo l’incompetenza e il fancazzismo, ma il vero e proprio odio per il cittadino – specificamente, per il cittadino onesto, che non  vuole compiere abusi edilizi – espresso nell’ossessione per i controlli delle sue azioni più insignifcanti, come elevare un muretto o ricavare un secondo bagno in casa sua.

C’è  l’odio ideologico, robespierriano, per la volontà privata (il cui altro nome è libertà), sentita dalle burocrazie come violazione della «Volontà Generale», di cui si sentono depositarie e tutelatrici. Le burocrazie non si vivono come ausiliarie della vita; si vivono come enti giustizieri, arcangeli-poliziotti: per loro, la «sfera privata» non deve esistere, è il peccato capitale.

Tu, cittadino sospetto, fingi soltanto di voler alzare un muretto: la tua vera intenzione è di manomettere l’impianto elettrico perchè non sia più a norma; se ti lasciassimo fare, tu mescoleresti sacrilegamente le acque reflue, sconvolgeresti i campi elettromagnetici, ammorberesti la società con le emissioni puzzolenti... Ma noi ti smascheriamo! Ti chiediamo di certificare! Tutto ciò che è già stato certificato! Non fare il furbo! Devi passare il nostro esame, e non solo uno: perchè siamo qui, quattro sovrintendenze, due Comuni, due Regioni, uno Stato, gli enti fluviali, l’autorità ecologica del caso... «Il nostro nome è Legione».

E devi certificare tu: non siamo noi che dobbiamo dimostrare che sei disonesto, sei tu che devi  comprovare la tua adesione minuziosa alla volontà generale. Noi non usciamo, noi non sappiamo se un muretto ha a che fare con le acque reflue, o se magari ti si possa chiedere questo per un WC.  Noi non ci occupiamo di WC nè di muretti (di cui siamo incompetenti, e che non vogliamo nemmeno venire a vedere): il nostro compito, la nostra missione, è coglierti in fallo.

Si intende che questo controllo minuziosissimo e fiscale, non lascia ai giustizieri molto altro tempo. Le coste sicule si riempiono di casotti abusivi e non a norma, a cui però viene dato l’allacciamento di luce, acqua e gas; ad Afragola, e attorno ai templi di Agrigento, si elevano palazzoni di otto piani del tutto «fuori norma»; l’assillo di controllare come costruisci un muretto a casa tua non consente di vedere e punire lo scempio edilizio e urbanistico macroscopico.

Diceva Report: «Le norme edilizie in Italia sono le più restrittive d’Europa, eppure in nessun Paese europeo è possibile costruire abusivamente interi quartieri come da noi».

Che ingenuità: è proprio perchè le norme edilizie sono le più restrittive e minuziose, che l’abusivismo dilaga impunito. E’ il controllo ossessivo e poliziesco, il moltiplicarsi di divieti e di richieste di permessi, il sovrapporsi di tre o quattro «piani urbanistici» e una ventina di uffici il cui unico intento è ostacolare – è proprio questo che incita all’abusivismo. A dire il vero, incita anche a delitti peggiori tipo: strage di dipendenti in uffici pubblici.

E da Report si capisce anche che questo groviglio burocratico di angherie è del tutto irriformabile. Il «Piano casa» di Berlusconi demonizzato dalle sinistre come «un permesso di abusivismo» è inapplicabile, perchè non intacca nemmeno una delle prerogative locali e degli uffici «competenti» d’incompetenza: è un vacuo proclama, come al solito. La civile Bologna ha «recepito» il Piano Casa di Berlusconi, ma intanto se vuoi metterti in giardino un casotto di legno per gli attrezzi, di quelli che si comprano in certi ipermercati per 1.500 euro, devi richiedere la licenza edilizia.

Perchè la soluzione è lì pronta, mica c’è niente da inventare. Basterebbe copiare il regolamento di Monaco di Baviera, quei 15 punti che stanno in tre paginette, appese in bacheca. Sicuramente lì, tutti gli intoccabili e irrimediabili problemi di conflitti di «competenze», prerogative ed autonomie sono stati risolti una volta per tutte. E a Monaco non c’è una sola casa abusiva, e – se è per questo – nemmeno una casa scrostata, non dipinta, maltenuta e sporcata da graffiti. Come fanno?

Bisognerebbe leggerele tre paginette. Ma non lo faremo mai. Le «riforme», da noi, devono anzitutto salvaguardare le migliaia di posti del settore pubblico, regionale, provinciale, comunale, inter-regionale e chi più ne ha più ne metta: nessuno dei quali si assume la minima responsabilità dell’insieme, del bene comune, della economia da far funzionare, visto che è l’economia privata che li paga... Devono giustificare lo stipendio di migliaia di fannulloni e di assenteisti, che si sono ricavati la loro pretesa utilità sociale nel controllo della nostra vita privata. Non si farà mai, perchè questi sono un pullulare di Caste, hanno il coltello per il mainco, e persino la pronta scusa psicotica: «Ci volete mettere da parte perchè siamo donne».

Scusate lo sfogo.




1) La stessa cosa ho appurato avvenire nella felice isola ispanica di Lanzarote. Lì, ogni casa nuova va costruita secondo i dettami dell’architettura locale tradizionale; e di fatto tutti costruiscono così e non in altro modo, a capocchia loro. Come si è ottenuto questo risultato? Irrogando multe miliardarie ai trasgressori, esercitando strumenti punitivi feroci onde dissuadere «l’abusivismo»?  No. Semplicemente, il Comune offre cinque moduli-tipo già pronti: chi accetta di costruire secondo uno di questi  modelli architettonici, non spende nemmeno i soldi per stilare il progetto, prende quello già pronto fornito dal comune. Tutto gratis. E pensare che in Spagna si lamentano dei pubblici dipendenti, con l’impiego sicuro.


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