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L’Italia è sempre più avanti (Qui lo dico e qui lo nego. E non faccio nomi)
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In quel giorno – ricorderà la storia minore – a Madrid, Podemos, un partito nato da poche settimane, portava in piazza centomila persone in rivolta contro l’oppressione eurocratica: «È il momento del cambiamento e che la Grecia ha dimostrato che è possibile», ha gridato alla folla il leader Pablo Iglesias, 36 anni. Poche ore avanti, la piccola Grecia, per bocca dei capi di Syriza che aveva appena eletto, diceva: «Non riconosciamo la Troika, trattiamo ma solo con la UE». E il nuovo premier Tsipras, 40 anni, intimava al tedesco Martin Schultz, presidente del Parlamento europeo: «la Germania ha fatto fallire il mio Paese ed in questo memoriale ci sono tutti gli scandali con le prove necessarie: la Siemens , i treni, i sommergibili, le società di costruzioni, le evasioni fiscali e la continua immunità concessa per questi delitti».

Ebbene: mentre nell’Europa del Sud s’alzava il vento e la speranza del rinnovamento politico, in quello stesso giorno l’Italia, il più grosso Paese del Sud oppresso e immiserito dall’eurocrazia, dalla corruzione e dal clientelismo, si dava come presidente della repubblica un dinosauro di un’epoca politica ammuffita — dirà la storia minore. Un fantasma ahimè ancor vivo del passato che non vuol passare. Un sopravvissuto, ma voracissimo, del pre-Tangentopoli. In una parola, il simbolo stesso dell’immobilismo dei privilegiati pubblici meridionali, dei ricchi di Stato a spese dei contribuenti poveri, che nulla vogliono cedere del loro potere e dei loro emolumenti.

Era costui – dirà la piccola storiografia – l’incarnazione stessa della Casta, anzi di una mezza dozzina di caste riunite in un solo corpo: il siculo «compare», il figlio di tre generazioni di notabili poppanti alla mammella pubblica (papà Bernardo fu addirittura nella Costituente), il professore universitario «c’o concuorzo» dai lontani anni ‘60 di una materia inventata (il «diritto parlamentare») in quella culla del giurie che è Palermo, poi il politico per filiazione e cooptazione – 38 anni in parlamento con relativo beneficio vitalizio. Capo-bastone siculo per conto di De Mita, dopo sette legislatura sette, infine rinunciò al seggio. Ma non restò appiedato: gli si trova una poltrona nel CPGA, ente di cui mai avete sentito parlare (et pour cause) ma che viene definito da chi se ne intende (di dietro-le-quinte) «il CSM dei giudici amministrativi, incarico di nicchia, ma discretamente remunerato», nonché posto di potere di primordine, che fuori dallo sguardo dei cittadini e dell’opinione pubblica decide «su assunzioni, assegnazioni di sedi e di funzioni, trasferimenti, promozioni, conferimento di uffici direttivi e su ogni altro provvedimento riguardante lo stato giuridico dei magistrati», auto-governo dei leggendari TAR, che tanto bene hanno fatto allo snellimento della burocrazia e all’alleviamento dell’oppressione burocratica.

Il suo partito, ex progressista e financo proletario nell’era mesozoica, non volle privarsi di un simile fossile vivente: e lo immette nella Corte Costituzionale, che come spiega un biografo-paleontologo, «è la più bella poltrona che ci sia. Dura nove anni, più di ogni alta carica; sei rispettato come un dio, pagato come un principe, intoccabile come un re, in un vorticare di auto blu, autisti, segretari e privilegi vari». A 400 mila euro annui, di soldi nostri, infatti; ed evidentemente con quella promozione lo si preparava ad essere fra le riserve della repubblika, ossia all’augusto posto di potere supremo. La massima Istituzione della istituzionalità presente, ossia la legalità che s’è liberata di ogni legittimità — e se la cava ancor meglio.

Come si vede, un’intera vita di stipendi pubblici — e sempre più giganteschi. Senza mai provare il vento forte e gelido della competizione, le ansie della concorrenza e le esigenze impietose del giudizio di produttività, che travagliano e spesso travolgono i normali esseri umani — gli inferiori. Ciò finisce per creare una certa mentalità: la mentalità di quelli che i soldi pubblici «li prendono», li sentono come «diritti acquisiti», e come tali ritengono nemici quelli che i soldi allo stato «li danno»: perché secondo loro non ne danno mai abbastanza, bisogna prendergliene di più, certo li nascondono sotto la mattonella per defraudare della giusta mercede (di 400 mila annui) i supremi magistrati della Costituzione — Costituzione, come tutti sanno, che è più bella del mondo e dunque deve restare immobile nei secoli.

È la speciale lotta di classe italica nella sua forma più pura: quelli che i soldi li prendono contro quelli che li danno. I ricchi (pubblici) che depredano i poveri (contribuenti lavoratori). Continuano a vincere i primi, grazie a tali venerabili personalità immarcescibili.

È naturale che una simile alta personalità, discendente da generazioni di notabili meridionali (1), natante dalla nascita nello specifico settarismo democristo-siculiano di sinistra, gaudiosamente dedita a vendette interne, piacevolmente chiusa nel dialetto stretto («Seggiuzzo», lo chiamano gli amici) nonché nel dorato ambiente di cacicchi, proconsoli, capi-bastone (sia chiaro a scanso di querele: non di mafia, ma della specie «professionisti dell’antimafia» — il nostro è il creatore di Leoluca Orlando (2)), tra vincitori «d’o concuorso» che rende inamovibili e insindacabili, sia all’università sia in magistratura — è inevitabile dicevo, che un tale individuo sviluppi un senso dell’appartenenza speciale, direi etnico: il mondo gli appare diviso in «compari» (i nostri, o meglio «noiautri») (3) e nemici delle istituzioni (tutti gli altri componenti del popolo che non hanno vinto o concuorso, che non sono jùdesce d’a cassazzione o non appartengono all’onnipotente «Tar del Lazio», ma sono soltanto spregevoli contribuenti).

Dagli amici notabili, Rosi Bindi e siculi estasiati all’avere uno al Quirinale che porta l’odore della tana, nonché dalle slinguate mediatiche salivosissime, siamo assicurati: egli è un fermo, rigoroso devoto delle Istituzioni, la costituzione trova in lui il garante supremo e vigile. Vero, verissimo. Tanto più che l’ascendenza dinastica e la lunghissima abitudine al poppamento nelle istituzioni medesime, gli ha dato di queste una concezione «proprietaria», non priva di analogia con quella nutrita dalla numerosa famiglia Saud rispetto alle istituzioni dell’Arabia, appunto, Saudita: è cosa nostra, ce la siamo sudata, che ci avete a che fare voi?

Egli coltiva una gelosa adorazione dell’ordinamento giuridico vigente che non ammette estranei, e vigila che nelle istituzioni non entrino a sporcarle dei parvenus per via elettorale, degli intrusi vocianti che si credono legittimati da quella cosa volgare che è il voto popolare non disciplinato e contenuto entro precisi argini. Votanti, settentrionali, Berlusconi (a cui ha tributato un odio implacabile), contribuenti vanno tenuti a distanza da tanto perfette creazioni democratiche, perché sennò le sciupano.

È per questo che, quando il popolo italiano, a schiacciante maggioranza, espresse la volontà – per referendum – di avere il sistema elettorale maggioritario, questo garante si sentì urtato: che cos’è ‘sto referendum’? Questo rumore in anticamera? Sbatteteli fuori! Sia confezionata una legge con il 30% di proporzionale, che tradisce la volontà popolare espressa nei modi legittimi, onde i partiti antichi e accettati possano inserirvi i loro e i loro yes men. Naturalmente, i politici gli sono da sempre grati per aver inventato il «mattarellum», la legge elettorale che ha bloccato «sull’orlo del baratro, la spinta riformatrice che stava spazzando via il vecchio sistema di potere» (Nino Alongi)

Come giudesce d’a suprema Cuorte, egli si è illustrato in grandi sentenze a presidio intransigente delle istituzioni più sacre. Per esempio, l’Autonomia della Regione Sicilia nello spendere e spandere quanto vuole e come vuole, nel modo più scialacquatore, con il corrispondente obbligo dello Stato centrale di coprire a piè di lista le suddette spese, senza discutere e senza controllare. La sacra istituzione chiamata «ruberia della Casta siciliana». Il grande siculo è infatti il redattore della sentenza 225, sancita della Cuorte il 3 novembre scorso, che vieta al commissario dello Stato di impugnare le leggine dell’Assemblea Regionale Sicula, divina istituzione dove nel caldo afrore di tana e di Trinacria, la malavita si unisce alla politica con la naturalezza con cui laggiù si dilapida denaro pubblico a miliardi, sapendo che c’è sempre qualcun altro che paga. L’austerità, la pratichino gli altri.

Più recentemente, il magistrato costituzionale super partes ha respinto come inammissibile la proposta di referendum di Salvini (Lega) per abrogare la riforma Fornero e restituire la pensione a chi se l’era vista portar via, con tutti i diritti acquisiti.

A tal magistrato con una tale storia – non meravigli – dà fastidio giuridico il referendum in sé, danno fastidio i pensionati esodati che pretendono il rispetto dei loro diritti acquisiti senza aver lo status di parassiti pubblici, e ancor più danno fastidio i lombardi, che non hanno diritto di esistere se non per pagare le tasse. «La questione settentrionale non esiste», ha sancito una volta per tutte, «l’idea che il Nord paghi le tasse per il Sud è ridicola».

Questa è anche la sua concezione fondamentale dell’economia. Troppo si è detto che non ne capisce nulla, nulla sa di derivati, deflazione, subprime, «mercati» mondiali e industria, e di come si inneschi una ripresa. È una calunnia. Sergiuzzo di economia capisce l’essenziale. Capisce quel che c’è da capire essendo nato e cresciuto come membro alto della Casta, anzi di almeno tre o quattro caste riunite: che quelli che i soldi allo Stato li danno, devono darne sempre di più; e quelli che i soldi dallo Stato li prendono, devono prenderne senza limite alcuno: la legalità esiste per questo. È una concezione economica semplice e che, fino ad oggi, ha funzionato per lorsignori.

Tanto più che gli italiani, come se dica a Roma, «abbozzano». In Grecia è sorto Tsipras e il cambiamento, in Spagna tira il vento della protesta e della rivolta. In Italia, il Rottamatore eleva al Quirinale un mai rottamato, che garantisce che nulla cambierà nel rapporto tra i parassiti e i contribuenti, tra chi è esposto alla competizione globale e chi sta nel calduccio della tana scavata col concuorso.

State allegri, italioti. Sempre avanti a tutti.





1) Su papà Bernardo si dovrà registrare quanto segue nella relazione che Beppe Niccolai, deputato del Msi, scrisse sui rapporti mafia-politica: «‘Gaspare Pisciotta – c’era scritto nella relazione – fu arrestato il 9 dicembre del 1950 e nel processo che si tenne a Viterbo, per la strage di Portella delle Ginestre, ammise di avere ucciso Giuliano nel sonno; dichiarò che l’incarico gli era stato affidato personalmente dal Ministro dell’Interno, il democristiano siciliano Mario Scelba (quello della legge contro la ricostruzione dei partito fascista!), e che la strage di Portella delle Ginestre era stata ordinata dal democristiano Bernardo Mattarella e dai monarchici Alliata di Montereale e Cusumano Geloso’’. Beninteso, la dichiarazione su Mario Scelba fu giudicata estranea al processo. Mattarella, Alliata di Montereale e Cusumano Geloso furono prosciolti in istruttoria. Nel nel ’92 fu l’allora Guardasigilli Claudio Martelli a scagliarsi contro il vecchio Bernardo, già all’epoca defunto, provocando la reazione di Sergio Mattarella. «Bernardo Mattarella – disse l’allora ministro – secondo gli atti della Commissione antimafia e secondo Pio La Torre, fu il leader politico che traghettò la mafia siciliana dal fascismo, dalla monarchia e dal separatismo, verso la Dc”. A quel punto, Sergio Mattarella ruppe il tradizionale riserbo e sbottò: “Martelli la deve smettere con questa incivile abitudine di insultare le persone morte da tempo; questo attiene non alla politica ma soltanto alla educazione e alle basi elementari della convivenza civile ed umana. E poi, le sue, sono tutte menzogne».
2) Il giornale L’Opinione ha rievocato «la polemica sui professionisti dell’anti mafia instaurata da Leonardo Sciascia sui presenzialisti da talk-show dell’epoca. Tra cui lo stesso Orlando. Che con le proprie parole di accusa a «Tempo Reale» determinò anche il suicidio del maresciallo Lombardo, quello che si era recato in America a interrogare Tano Badalamenti. Badalamenti che diceva di voler consegnare agli inquirenti informazioni importanti (forse anche in grado di ribaltare la tesi di Tommaso Buscetta riguardo all'omicidio Pecorelli), e che aveva conosciuto Lombardo in due precedenti incontri negli Usa, stabilì, come condizione al suo rientro in Italia per testimoniare, che venisse a prenderlo proprio il maresciallo. Pur facendo notare la pericolosità dell'operazione, Lombardo infine accettò di organizzarla e fissò la propria partenza per il 26 febbraio 1995. Tuttavia, tre giorni prima di questa data, Lombardo ricevette un duro colpo su un fronte inaspettato: nella trasmissione «Tempo Reale», condotta da Michele Santoro, i due ospiti Leoluca Orlando e Manlio Mele, sindaci rispettivamente di Palermo e Terrasini, mossero accuse pesanti verso di lui, pur senza nominarlo mai esplicitamente (ma riferendosi all’«ex capo della stazione di Terrasini»). A Luigi Federici, allora comandante generale dell’Arma, che telefonò alla Rai in difesa di Lombardo, non fu concesso di intervenire». Il maresciallo Lombardo dovette spararsi, per dimostrare a Badalamenti che non era lui a tendergli una trappola. (Fu questo un vero delitto dei professionisti dell’antimafia – il vostro cronista Blondet coprì questo evento tragico – organizzato perché Badalamenti «non» venisse a testimoniare, invalidando con la sua deposizione il teorema del procuratore Caselli basato sulle testimonianze di Buscetta - il bacio di Andreotti a Riina eccetera). «Un nome come quello di Mattarella appare per una volta non tanto «divisivo», quanto piuttosto troppo «unificante», rispetto ai due rovesci della medaglia costituti dalla «mafia» e dall’antimafia dei cosiddetti «professionisti». Così conclude Dimitri Buffa, direttore de L’Opinione (La storia controversa dei Mattarella, 31 gennaio 2015).
3) Un breve elenco degli amici che si sono complimentati con lui dà un’idea assai espressiva del mondo del Nostro: Carlo Vizzini, docente di diritto finanziario, Giovanni Fiandaca, docente di diritto penale, Calogero Mannino, Sergio D’Antoni, già potente segretario della Cisl, oggi presidente del Coni siculo (meglio che niente) Salvatore Butera già presidente della Fondazione Banco di Sicilia (slurp), Vito Riggio capo dell’Enac...Una galleria di nomi da film. Mancano solo Al Pacino, Joe Pesci, Joe Valachi.



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