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Rispostaccia ai giovani
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Quando, nell’articolo di Blondet «Sull’immigrazione, peggio di quanto credessi» (24-08-2006), ho visto le lettere di due giovani, che hanno avuto esperienze di lavoro oltre che negative anche umilianti, ho pensato che la società italiana si stia impegnando a distruggere se stessa a cominciare proprio dalle speranze dei giovani.
Ho avuto un moto di rabbia.
Le due lettere, molto ben scritte e molto piene di auto-compatimento, rivelano tuttavia una realtà che è anche più tragica: i giovani di oggi e degli ultimi anni non hanno in sè alcuna capacità di lottare e poi sono anche i carnefici di se stessi.
Gli incidenti stradali sono la principale causa di morte per le età inferiori a 40 anni (attorno al 30%). Tutte le energie, che non sanno impiegare nella guerra quotidiana per conquistarsi un posto nella società, le scaricano quando guidano un veicolo motorizzato.
Ma il peggio è che la mobilità dei lavoratori permette che in Italia arrivino anche i laureati, e soprattutto i laureati in materie tecniche, dove maggiormente abbiamo perso terreno rispetto al livello di insegnamento impartito nelle nazioni in via di sviluppo, come ad esempio l’India, la Cina e la Corea del Sud.
In questi Paesi è stato adottato per le lauree tecniche il modello di insegnamento anglo-americano. Nel marzo di quest’anno il problema dell’importazione di laureati era arrivato sulle pagine dei giornali ed ebbe una certa risonanza, che si spense sotto i clamori della campagna elettorale.

Vorrei rimandare al mio articolo che venne pubblicato da effedieffe on line: «La società dei nuovo preti» in data 18-03-2006.
In realtà gran parte di quell’articolo era stato già pubblicato sulla rivista dei fisici italiani: Il Nuovo Saggiatore (volume 15, numero 5-6, 1999), con il titolo: «La scienza applicata e l’analisi di Pasolini».
La rivista è letta anche da molti studenti del corso di laurea in Fisica.
L’articolo si concludeva con la constatazione che in Italia avevamo dimenticato che la nostra era è immersa nel mondo delle macchine e che i giovani, essendo scomparse le industrie maggiori, non avrebbero più trovato sbocchi di lavoro se non per svolgere mansioni in attività «umanistiche», che due secoli prima erano svolte da persone appartenenti agli allora molto vasti ordini religiosi. Affermavo cose che oggi stanno esplodendo.
Ma tanta mia «preveggenza» ebbe come unico risultato la rabbia dei colleghi di sinistra che non disponevano di molti argomenti per replicare.
Le vere preoccupazioni dei colleghi universitari riguardavano e riguardano il rischio della decurtazione del numero delle cattedre a causa del calo degli iscritti.
Dagli studenti non ricevetti nessun segnale.
Erano troppo impegnati a seguire supinamente le richieste dei loro professori cercando di ottenere voti alti, possibilmente studiando poco.

I giovani vogliono vivere la loro gioventù, dalla quale vogliono trarre il maggior godimento possibile, d’accordo.
Ma con risultati almeno contraddittori.
Infatti pochi anni prima ci aveva molto addolorato la morte di un giovane laureando, che durante
il mese di agosto, in una città deserta, correndo con la sua moto, si era schiantato contro una unica macchina che faceva manovra davanti a lui.
I giovani dovrebbero riflettere su qualche argomento non banale esercitando un briciolo di senso critico.
Una visita al cimitero potrebbe ricordare quanti loro amici sono morti in incidenti stradali.
Una visita ad un istituto di riabilitazione mostrerebbe poi le lunghe sofferenze di quelli che dagli incidenti sono usciti «solo» feriti.
Mi si dice: ma che cosa possono fare questi poveri giovani?
Possono informarsi, discutere, sospendendo ogni tanto le loro estenuanti risate e risatine.
Potrebbero discutere anche via internet.
Potrebbero influenzare la pubblica opinione invece di andare a rimorchio delle idee che ricevono già confezionate dalla televisione.
Verrebbero così a conoscenza del fatto incontrovertibile che in Italia l’industria è scomparsa.

Esiste una miriade di aziendine che possono vivere solo frodando un fisco troppo esoso, che ha pensato di tassare per ogni lavoratore assunto, un extra, tanto per facilitare le assunzioni. Ovviamente si tratta di attività spesso al limite della legalità, le uniche che danno un reddito in grado di soddisfare le sempre più feroci richieste del capitale investito.
In questo quadro chi viene colpito maggiormente è il laureato, che i sindacati non hanno mai protetto e continueranno ad ignorare.
Il sociologo Luciano Gallino ha pubblicato con Einaudi un libro: «La scomparsa dell’Italia industriale».
Posso dire che Gallino è persino ottimista ed ha omesso certe «dismissioni» più recenti.
Si dice chiaro che l’Italia non ha più un’industria.
Non si tratta di un argomento da poco.
Orbene si sono visti cortei di giovani rumoreggiare sotto i palazzi del potere per ottenere che venisse formulata una qualsivoglia politica industriale?
No, nessuno.
Quando ho tenuto una conferenza per illustrare il succo del libro la casa editrice, alla quale avevo chiesto qualche copia che certamente i convenuti avrebbero acquistato, mi è stato risposto che, dopo poco più di un anno dalla pubblicazione, il libro era esaurito e non sarebbe stato ristampato.
E’ chiedere troppo ad un giovane di informarsi, se esista ancora un’industria in grado di accoglierlo dopo la laurea?
Oggi abbiamo la sinistra al governo, una sinistra che sembra già aver raggiunto almeno una parte dell’obbiettivo che si era prefissato dagli anni cinquanta: la distruzione del potere del capitale che si pensava rappresentato dalle fabbriche.

Sulle rovine del capitalismo essa progettava di creare la società comunista.
Il capitale ha risposto delocalizzando le strutture produttive, ed ha stravinto la sfida lasciando schiere di disoccupati dove prima c’erano le fabbriche.
Abbiamo avuto così la moltiplicazione delle banche e delle loro sedi lussuose.
Da alcuni anni quasi tutte le grandi fabbriche hanno chiuso i battenti, ma la sinistra ha creduto di aver vinto ed ora è al governo con il compito impossibile di ricreare una struttura produttiva.
Pochi ricordano i comizi infuocati e gli articoli feroci che uscivano dalle pagine dell’Unità: obbiettivo era distruggere il capitalismo, a cominciare da quello di casa nostra, dalle nostre nascenti multinazionali.
Pochi ricordano le acrobazie che dovettero compiere i dirigenti delle industrie italiane sopravvissute alla guerra per salvarsi dagli scioperi politici che volevano non tanto aumenti salariali quanto consegnare tutto il potere ai comunisti.
 Pochi ricordano che l’IRI venne riesumata e potenziata con l’appoggio forte delle sinistre nella prospettiva di costruire un’industria di Stato che potesse liquidare in futuro tutta l’industria privata.
Pochi ricordano che l’IRI ebbe molto successo, nonostante venisse taglieggiata dai partiti politici, nessuno escluso, e nonostante spesso venissero nominati d’imperio dirigenti di chiara fama per assoluta incompetenza.
In compenso molti sanno che la destra non ha fatto quasi nulla per rimediare ai guasti della sinistra, ed anzi in molti casi li ha avvallati, come la riforma universitaria del 3 + 2, voluta da Berlinguer, osteggiata da molti professori di destra e di sinistra, ma brillantemente portata a compimento dall’ineffabile donna Letizia Moratti.

Pochi hanno letto il libro di Massimo Pini: «I giorni dell’IRI», nel quale viene documentato il malgoverno che il grande Prodi esercitò nelle vesti di responsabile dell’ente, svendendo ad amici e sodali pezzo a pezzo patrimoni pubblici.
Forse qualcuno ricorda la foga privatizzatoria delle sinistre arrivate al potere, che corsero con grande solerzia a disfare ciò che avevano voluto creare lungo i precedenti quarant’anni.
Tanta volontà di pretto sapore capitalistico veniva scatenata per accontentare i desideri e le brame dei poteri forti internazionali, dai quali in cambio sarebbe arrivata la tanto agognata legittimazione politica.
Per le ferrovie  (un «monopolio naturale», dicevano un tempo gli economisti) abbiamo ricalcato la strada percorsa dagli inglesi, trascurando che la privatizzazione delle ferrovie ha incontrato in Inghilterra un fallimento totale.
Lo Stato ha dovuto di fatto riprendersi tutto il comparto con l’onere di 25.000 miliardi di lire da spendere per rinnovare gli impianti rovinati da anni di mancata manutenzione.
Per l’acciaio abbiamo dismesso, per fare un favore ai tedeschi, l’acciaieria di Taranto, una delle migliori del mondo.
Nella foga di privatizzare non ci si è accorti che l’ostilità durata decenni verso l’industria privata l’aveva resa asfittica e dipendente da gruppi esteri.
Le privatizzazioni non sono state fatte verso acquirenti nazionali privati sani e robusti perché non c’erano più.
Le privatizzazione si sono tradotte nello scempio di patrimoni pubblici accumulati con tanti sacrifici, e pagati da noi contribuenti.

Ma soprattutto si sono distrutte le competenze tecniche che come noto richiedono anni per essere ricreate, ed insieme si sono distrutti molti futuri posti di lavoro per i nostri ingegneri.
La vendita dei gioielli di famiglia, come le autostrade, all’amico Benetton, ha di recente fatto un brutto scherzo alla sinistra, non ancora uscita dalla travagliata campagna elettorale.
Benetton ha venduto tutto agli spagnoli dopo non aver neppure ottemperato agli obblighi contrattuali relativi alle opere di manutenzione.
Di Pietro per ora ha fermato, ma non si è sentito il plauso salire da folle di giovani interessati al futuro della nazione e quindi egoisticamente anche al loro futuro.
Di tutte queste cose, vitali per il loro futuro, non sembra che i giovani si siano data una gran pena.
Negli ultimi due decenni i giovani hanno due slogan come fondamento: il primo viene dai loro genitori: non voglio che mio figlio soffra quello che ho sofferto io, il secondo se lo sono fabbricato in proprio: io spero che me la cavo.
Il primo slogan ha generato bambocci coscienti di essere stati felicemente imbottiti di tutto, dal cibo eccessivo ai vestiti pesanti quando non è freddo, dalla moto sino ai soldi con cui comprare di nascosto (ma non troppo) la droga.
Il secondo ha insegnato ad avere un totale disinteresse per quelli che vengono definiti affari degli altri, cercando di trarre beneficio esclusivamente per se stessi.
Blondet dice che finiremo come i Paesi dell’America latina.
Errore: questi Paesi per lo più sono pieni di materie prime.
L’Argentina, totalmente depredata da un sapiente meccanismo speculativo-finanziario, si è risollevata in poco tempo.

Ha chiuso le frontiere, si è data una moneta locale provvisoria e non convertibile, ha utilizzato in proprio le sue risorse sfruttando le competenze tecniche di cui disponeva al suo interno e si è ritrovata fuori dalla cappa dei creditori, banche e speculatori, che speravano di poter lucrare per decenni alle sue spalle.
Noi non possiamo.
L’Italia non ha mai avuto risorse naturali sufficienti ed ha sempre dovuto vendere qualche cosa per comprare le materie prime indispensabili alla sua sopravvivenza.
Se continuiamo con tanta stupidità ci ritroveremo alla fame.
Questo semplice discorso non piace ai nostri giovani abituati ad essere coccolati a partire dai genitori sino ai professori dell’università.
Poi all’improvviso arriva la mazzata, quando cercano di entrare nel mondo del lavoro.
Allora piangono tutte le loro lacrime e noi anziani, che non abbiamo un cuore di pietra, rischiamo di piangere anche noi e di imprecare contro qualche governante presente o passato.
Ma è un errore il nostro, dico di noi anziani.
A costo di apparire crudeli, per amore dei nostri figli, la verità dobbiamo dirgliela: siamo al capolinea, adesso basta con le fesserie e le paroline politically correct.
O diamo una sterzata, o ci rimbocchiamo le macchine e la smettiamo di frignare, o ci buttiamo a lavorare, qualsiasi lavoro sia, oppure finiamo alla fame dopo esserci venduto tutto, Colosseo compreso.

Professor Raffaele Giovannelli

 
Nota di Blondet

Pubblichiamo la «rispostaccia» dell’amico Giovanelli anche se so che parrà ingiusta, non almeno per i giovani che ci hanno scritto, laureati tecnici, disposti a lavori umili (uno ha mandato 700 curricola!) e più serii della media nazionale.
D’altra parte, la stupidità giovanile che Giovanelli denuncia mi pare meno colpa dei giovani che dei loro genitori e governanti.
E’ un prodotto del media, di una politica che consiste nell’arraffare, dell’«educazione» affidata
ai pubblicitari - i più irresponsabili degli educatori - del sistema che promuove e onora palesemente gli idioti purchè belli nel «mondo dello spettacolo», i furbi e i disonesti.
E tuttavia, l’esasperazione di Giovanelli viene da decenni di esperienza didattica e scientifica, dolorosamente personale: ingegnere, docente al Politecnico, impegnato nella ricerca (quando qualche ricerca si faceva ancora), Giovanelli ha visto, anno dopo anno, l’apparato tecnico-scientifico italiano smantellato, svenduto, umiliato, osteggiato e isterilito; ha visto competenze disperse e non più recuperate ( queste competenze erano «dentro» vite umane, con le loro legittime speranze tradite); ha sofferto sulla sua pelle la pochezza morale dei «dirigenti» smantellatori del futuro della nazione.
E in tutti questi anni, ha cercato di avvertire gli studenti - studenti del Politecnico milanese, un’elite in fatto di scelte serie apparentemente - di quel che stava succedendo a loro danno; li ha esortati alla rivolta, alla protesta, o almeno alla presa di coscienza.
Invano.
Ora, quel che dice ai giovani è duro.
Ma quel che dice è questo: svegliatevi, perché nessuno vi salverà; pensate voi al vostro futuro, perchè nessuno si occuperà di voi.
Le parole dure, che vengono dall’esperienza, sono lezioni.
Non sono le parole dei pubblicitari che, mentre vi vogliono vendere delle merci, vi insegnano anche una filosofia da edonismo ormai risaputo, che dovrebbe avervi stancato e dovete rifiutare («Odio le rinunce», dice la pubblicità di un latte digeribile).
Quelle parole sono dolci e vi lisciano il pelo, per ingannarvi.
Quelle di Giovanelli, sono dure e amare,  per il vostro bene.