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No e no e poi no: guerra alla Siria, guerra all’Iran!
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«La Siria accoglie volentieri la proposta russa di mettere le sue armi chimiche sotto controllo internazionale»: così il ministro degli Esteri di Damasco, Walid Al-Moualem, uscito da un incontro con il ministro russo Sergei Lavrov.

Stavo compitando questo articolo quando le agenzie hanno lanciato la notizia: colpo magistrale della diplomazia russa e siriana. Mettendo sotto controllo internazionale gli arsenali, la Siria non solo rinuncia ad usarli, ma rende chiaro che se accade un altro attacco chimico dentro il Paese, a farlo non possono essere che i ribelli, o i loro mandanti. Washington dovrebbe esprimere soddisfazione; magari, vantare di aver piegato, con la minaccia il dittatore Assad. Così l’ha intesa, a caldo, un ex portavoce del Dipartimento di Stato Philip Crowley: «Putin ha lanciato ad Obama una ciambella di salvataggio. Una soluzione diplomatica permette il rimando di un voto sull’azione militare (al Congresso, ndr) che può anche perdere».

Dopotutto, in mattinata, John Kerry aveva intimato: «Assad potrebbe evitare un attacco consegnando le sue armi chimiche alla comunità internazionale entro la settimana». Una sortita, un ultimatum subito corretto dai suoi uffici con un comico comunicato: «Quella del segretario di Stato era solo un’argomentazione retorica, perché Assad è un dittatore brutale di cui non ci si può fidare».

Invece, i comunicati da parte americana sono un crescendo di rabbiosa sorpresa, dispetto, di affermazioni che paiono deporre per un oscuramento della ragione e dovuti ad alienazione mentale, a idrofobia. Vi si produce, ora dopo ora, soprattutto la consigliera della sicurezza nazionale Susan Rice. Ecco una lista dei lanci dementi che detta alle agenzie:

«La linea dei russi non risolve il conflitto in Siria – i terroristi non esisterebbero ad usare le armi chimiche contro soldati americani, diplomatici ed anche civili nel territorio Usa».

«Le armi siriane possono cadere nelle mani di Hezbollah o di Al Qaeda, creando una minaccia per gli Usa».

«Rice: non rispondere (con l’attacco ndr) farà imbaldanzire la Corea del Nord, l’Iran, i terroristi».

«Susan Rice: gli Usa possono prendere in considerazione una conferenza sulla Siria (per mettere sotto controllo i suoi armamenti chimici, ndr) ma non prima di sferrare l’azione militare contro il regime di Assad».

«Rice: il nostro scopo complessivo è mettere fine al conflitto sottostante attraverso una transizione negoziata politica in cui Assad lascia il potere»: dunque il «regime change» prima negato diventa il vero scopo. E sì ad un negoziato, ma solo se prima Assad se ne va, cioè non-negoziato.

Interviene Hillary Clinton, da tempo desaparecida: «Può essere un passo importante, ma la proposta russa non può essere un’altra scusa per ritardare ed ostruire».

Francois Hollande da Parigi emette il suo piccolo ringhio, tramite Laurent Fabius: «Il presidente Assad deve impegnarsi all’eliminazione dei suoi arsenali chimici immediatamente». Non basta che Assad accetti la proposta russa. Deve distruggere le sue armi immediatamente, subito, senza por tempo in mezzo. E sì che Kerry aveva dato «una settimana». Ma niente paura, Kerry telefona a Lavrov e poi emette il suo comunicato sulla conversazione: «Kerry ha chiarito al collega che i suoi commenti sulla Siria (ultimatum, ndr) non andavano intesi come una proposta». Kerry preferisce far la figura del cretino pur di non apparire incline al negoziato: agli occhi di qualcuno che lo giudica.

Al governo è tutto uno straparlare, un ululare con la bava alla bocca: no, no e no, l’America attacca! Ha già deciso! Non si può fermare! (Syrian chemical weapons threat to America – Susan Rice)

In tutto questo ululare si indovina qualcosa di simile al panico. Perché l’attacco è stato già deciso da qualcuno di cui gli americani al potere hanno paura. Ma chi?

«La guerra di Obama in Siria è in realtà la guerra all’Iran per Israele»: un titolo così chiaro su un media americano, non è cosa da tutti i giorni. D’accordo, è apparso su The Nation, influente periodico della sinistra «intelligente»; ed è firmato da un ebreo, Bob Dreyfuss (i soli che possano dire certe verità). Ma è comunque una novità nella sua esplicitezza. (Obama's Syria War Is Really About Iran and Israel)

È un segreto di pulcinella. Tutti gli osservatori in Usa stanno notando che, mentre il governo sionista ha le bocche cucite (Netanyahu ha intimato a suoi ministri di non lasciare dichiarazione alcuna sulla Siria), è l’AIPAC – American Israeli Political Action Committee, il braccio della lobby che «cura» i parlamentari – ad essersi lanciato in una campagna senza precedenti per far pressione sui membri del Congresso indecisi. Senatori e deputati conoscono bene il potere dell’AIPAC e ne tremano: basta incorrere nel suo sfavore per non essere rieletto, se invece lo si compiace, i fondi elettorali e le donazioni piovono in abbondanza. Sicché, basta che l’AIPAC espliciti la sua volontà perché sia obbedito. E la volontà che i lobbisti ebrei espongono ai parlamentari ancora indecisi è precisamente questa: «Noi vediamo un legame diretto tra questo voto (il sì all’aggressione a Damasco, ndr) e il problema nucleare iraniano. Il nostro punto di vista è che se il voto è negativo, sarà devastante per la credibilità americana ed invierà un messaggio chiaro all’Iran, ossia che può accelerare il suo programma nucleare. Di fatto, Assad ed Hezbollah sono dei tentacoli di Teheran».

Si noti che molti senatori democratici e repubblicani hanno sollecitato il parere dell’AIPAC: a loro attaccare il regime laico di Assad per consegnare la Siria a forsennati jihadisti sembra a prima vista un errore; le «prove» dell’uso di armi chimiche da parte del regime mostrate loro da Kerry sono meno che convincenti... ma cosa ne dice il Padrone? Prego, ci guidi, si esprima...

Anche la Casa Bianca ha chiesto qual era la posizione della lobby sulla domanda di autorizzazione al Congresso: Obama – chiaramente vacillante, visto che ha l’intera opinione pubblica contro – ha temuto di aver irritato o offeso la lobby, chiedendo al Congresso il voto sull’attacco invece di agire da «comandante in capo» come Bush jr. Sicché un alto esponente della Casa Bianca ha alzato il telefono per parlare con alti esponenti dell’AIPAC. Il colloquio ha avuto «carattere informale».

Probabilmente gli è stata articolata la visione ebraica sulla questione. Essa è approfondita, del resto, da una nota del Washington Institute for Middle East Policy (WINEP), che è «il principale think-tank della Israeli Lobby», chiarisce The Nation. In una colonna dal titolo: «attaccare la Siria è il miglior modo di attaccare l’Iran», un analista ebraico di nome Andrew Tabler scrive: «... Attacchi americani al regime di Assad, se ben calibrati come parte di un piano generale per degradare il regime, forzeranno Teheran a coinvolgersi più profondamente in Siria per salvare il suo alleato. Ciò sarà costoso per l’Iran, dal punto di vista finanziario, militare e politico. Questi costi indurranno il regime e il popolo iraniano a rivedere le sue aspirazioni a diventare nucleare». È la solita ossessione: l’Iran si fa la bomba, dunque è «una minaccia esistenziale per Israele».

Il segretario di Stato John Kerry mostra di aver capito la lezione: in tutte le occasioni pubbliche sottolinea che bombardare la Siria serve a mandare un segnale all’Iran, ed è giunto a minacciare la guerra al regime. Sabato, a Fox News, ha detto: «Se agiamo e se agiamo in concerto, allora l’Iran saprà che questa nazione è capace di parlare con una voce sola e che questo ha gravi, profonde implicazioni rispetto ad un potenziale confronto sul loro programma nucleare. Questa è una delle cose in gioco qui».

Robert Satloff, un altro esponente del WINEP ossia della lobby, parlando confidenzialmente con Dreyfuss di The Nation, l’ha messa così: «Se gli iraniani non hanno paura di Obama, allora gli israeliani perdono fiducia in Obama» (sic).

Come nota The Nation, la politica imposta dalla lobby è controproducente, ossia rischia di rafforzare a Teheran i «falchi», proprio nel momento in cui – deposto Ahmadinejad dal voto degli iraniani – il nuovo presidente Hassan Rouhani ha mostrato apertamente di volere un nuovo inizio nei rapporti con Washington, e di aderire a posizioni più concilianti fino ad arrivare a trattative sul tema nucleare. Il nuovo ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, è arrivato al punto da riconoscere pubblicamente che «il governo siriano ha fatto gravi errori che, purtroppo, ha posto le basi per la situazione in cui il Paese oggi è violentato». Un tono nuovo ed inedito.

Ma quasi certamente questo è il pericolo per la lobby e per Netanyahu: che Teheran si mostri con una faccia migliore, pronta a negoziare, e che la Casa Bianca sia tentata di afferrare quella mano tesa. Rouhani parlerà all’assemblea generale dell’ONU a fine settembre: occorre impedire che mostri la nuova, conciliante faccia della diplomazia iraniana, smentendo la propaganda demonizzante giudaica, che è riuscita a far passare quello degli ayatollah per un regime irrazionale, fanatico fino al suicidio. Bisogna che l’attacco alla Siria sia sferrato prima che Rouhani compaia all’ONU e possa far udire la sua voce.

Dopo, una volta cominciato l’attacco, che sarà comunque assai più pesante di quello «limitato» promesso da Obama, Israele avrà mille occasioni per indurre gli americani ad espandere il conflitto all’Iran (ed Hezbollah), non esclusi possibili «false flag» di ogni genere.

In questo senso, alti ex funzionari dell’intelligence americano scrivono «La Siria è una trappola tesa dai gruppi di pressione sionisti» in un clamoroso Memorandum al Presidente. Costoro informano il presidente dei dati che indicano, come autori dell’attacco chimico in Siria, gli stessi ribelli: i loro capi erano stati informati in anticipo, in una riunione ad Istanbul, di tenersi pronti per un evento «che avrebbe cambiato la guerra» (a war changing development), ed armamenti erano stati distribuiti in anticipo da emissari del Katar e della Turchia ai ribelli, perché facessero da ausiliari all’attacco americano. Sottolineano l’interesse israeliano a trascinare le forze Usa nella guerra; e non esitano ad evocare possibili «false flag di una parte interessata», per esempio «il naufragio e il danneggiamento di uno dei cinque incrociatori che pattugliano all’Est della Siria», per espandere l’impegno militare Usa oltre la Siria, contro l’Iran.

Il documento è firmato da personaggi notevoli dello spionaggio e controspionaggio: Thomas Drake, Senior Executive, NSA (former); Philip Giraldi, CIA, Operations Officer (ret.); Matthew Hoh, former Capt., USMC, Iraq & Foreign Service Officer, Afghanistan; Larry Johnson, CIA & State Department (ret.); W. Patrick Lang, Senior Executive and Defense Intelligence Officer, DIA (ret.); David MacMichael, National Intelligence Council (ret.); Ray McGovern, former US Army infantry/intelligence officer & CIA analyst (ret.); Elizabeth Murray, Deputy National Intelligence Officer for Middle East (ret.), Todd Pierce, US Army Judge Advocate General (ret.), Sam Provance, former Sgt., US Army, Iraq, Coleen Rowley, Division Council & Special Agent, FBI (ret.), Ann Wright, Col., US Army (ret); Foreign Service Officer (ret.)

Il fatto che siano «ex» non tragga in inganno: essi danno voce agli agenti in servizio, che non possono parlare. (Obama Warned on Syrian Intel)

Da nostre informazioni, i nuovi governanti a Teheran valutano la situazione così: né l’Amministrazione né «gli altri centri decisionali» americani (Pentagono, parte del Congresso) hanno alcun desiderio di andare in guerra in Siria; ma la pressione della Lobby è così forte, «da paralizzare la politica Usa e trascinarla in pericolose avventure» sanguinose. E nota che l’opinione pubblica americana, stavolta, è fortemente contro. E così la maggioranza dei media, i militari e i centri di intelligence.

Effettivamente il New York Times ha mostrato gli atroci video dei guerriglieri che la superpotenza aiuterebbe con l’attacco: gente che trucida soldati prigionieri, tagliagole che cannibalizzano cadaveri di nemici e ne mangiano il cuore... manca poco che gasare simili mostri sia persino una conclusione giustificata (1). Il Washington Post ha osato scrivere che «l’Amministrazione manda di prove irrefutabili ogni oltre ragionevole dubbio» della colpevolezza del regime siriano. Un numero crescente di membri del Congresso, a cui Kerry ha mostrato «le prove» segretate per il resto del mondo, s’è dichiarato «ancor meno convinto di prima». Mike Rogers, capo della Commissione Intelligence della Camera, repubblicano e dunque di suo bellicista, ha detto: «Adesso io stesso sono scettico». Justin Amash, altro parlamentare: «Se gli americani potessero vedere la documentazione segretata, sarebbero ancor più contrari all’azione contro la Siria. Non posso credere che il Presidente spinga alla guerra». Anche altri, Tom Harkin e Michael Burgess si sono dichiarati poco convinti dalle «prove segrete» loro mostrate. E l’hanno dichiarato pubblicamente, o per tweet ai loro elettori. Il che renderà più difficile una loro marcia indietro su ordine dell’AIPAC. Secondo lo Huffington Post, alla Camera bassa 233 deputati su 434 tendono per il «no» all’attacco. Ma naturalmente la Lobby ebraica tiene saldamente in pugno i senatori, che sono meno numerosi e più importanti: un loro voto favorevole annullerà quello contrario della Camera. Ma lo sfondo è tale, per dirla con Jason Ditz di Antiwar.com, che «può dar luogo letteralmente alla più grossa crisi costituzionale della storia americana». È la democrazia (o la sua finzione) ad essere in gioco. E Obama, agendo contro la volontà popolare, mette in gioco anche il suo destino.

Perché lo fa? È la domanda che corre anche nelle cancellerie. Putin stesso si stupisce della corsa di Obama verso la guerra, dopotutto controproducente anche per lui. Al G20 Putin ha fatto un’affermazione inaudita: «Non è piacevole per me dirlo. Mentre noi comunichiamo con loro (gli americani) assumendo di parlare con gente decente, lui (Kerry) mente. Apertamente, e sa di mentire. È triste».

Per Mosca, la politica di Washington è oggi indecifrabile. È questa la tesi di Anatoly Lukianov, uno dei più rispettati analisti russi e vicino al potere, dopo il G-20 a Pietroburgo: «Visto dalla Russia, ciò che accade attorno alla Siria oggi è una grandiosa campagna di propaganda per uno scopo incomprensibile, perché chiunque guardi alla faccia di Obama può dire quanto egli non voglia essere trascinato in un’altra azione militare nel Medio Oriente. I dati sono manipolati (...) in Russia, gli Stati Uniti sono visti sempre più come fonte di instabilità globale (...). Fino ad ieri, la veduta dominante in Russia era che gli Stati Uniti sanno sempre quello che vogliono e perseguono i loro scopo (...). I conservatori in Russia tendono alla tesi del “caos gestito”, ossia che gli Stati Uniti stanno intenzionalmente creando caos e disordine in Medio Oriente per controllare meglio le cose nelle acque fangose della crisi infinita. Ma oggi l’opinione prevalente è un’altra: gli Americani sono confusi. Essi non sanno cosa vogliono, ma vedono l’uso della forza come la soluzione di ogni problema, anche se le conseguenze sono ignote. E la Russia non sa come lavorare con una simile controparte. Putin sembra inclinare per questa opinione». (Putin: US on Dangerous Course In Syria)

Se Putin vede giusto, prende atto di un passo tragico del mondo, in mano ad una superpotenza impazzita, un burattino irretito dalle sue incontrollabili forze di male e di menzogna: un partner con cui non si sa come trattare, e a cui sarebbe suicida resistere con la forza perché l’America ha forze armate pari ai cinque o sei più grossi Paesi del mondo messi insieme, Cina, Russia, Gran Bretagna, India e Francia addizionati.

Incomprensibile: è la cifra per molti anche in America, persino per il Washington Post e il New York Times. Incomprensibile fu anche per il generale Wesley Clark (il comandante della Nato in Kossovo), che ha raccontato più volte, pubblicamente, ciò che un generale gli disse al Pentagono. Era il 20 settembre 2001, pochi giorni dopo l’immane «attentato di Al Qaeda». Clark era andato a visitare Rumsfeld e Wolfowitz, che preparavano febbrilmente l’invasione dell’Iraq con il falso pretesto delle «armi di distruzione di massa». Un generale, un collega, lo chiamò da parte e gli mostrò un memorandum del Segretario alla Difesa (Rumsfeld): «Mica solo l’Iraq», gli disse il generale: «Ecco il memorandum che dice che andiamo ad attaccare sette Paesi in cinque anni: cominciamo con l’Iraq, poi Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan e per finire, l’Iran».

Qui i video dove il generale racconta questo episodio: 4 Questions for Supporters of a Strike Against Syria

Rumsfeld, Wolfowitz non sono più al posto di potere in apparenza. Ma il programma neocon-israeliano viene attuato, inesorabilmente, incomprensibilmente, anonimamente forse contro la volontà dello stesso presidente. Tragica attesa.




1) Ultima arrivata, la testimonianza del giornalista Domenico Quirico di La Stampa e del suo compagno di prigionia in mano ai ribelli, il maestro belga Pierre Piccinin. Dall’Ansa: «È un dovere morale dirlo. Non è il governo di Bashar al-Assad ad avere utilizzato il gas sarin o un altro gas nella periferia di Damasco». Così Pierre Piccinin alla radio RTL-TVi, dicendo di avere sorpreso una conversazione tra ribelli in proposito insieme a Domenico Quirico. E inoltre: Piccinin: Domenico subì due false esecuzioni - Domenico Quirico «ha subito due false esecuzioni con una pistola». Lo ha rivelato l’insegnante belga Pierre Piccinin, il suo compagno di prigionia, alla radio Bel RTL. Il giornalista de ‘La Stampa’ e l’insegnante belga, ha raccontato quest’ultimo, hanno subito «violenze fisiche molto dure». Ora «fisicamente va bene, nonostante le orribili torture che abbiamo subito, Domenico ed io», ha detto alla radio Piccinin, nonostante «umiliazioni, vessazioni, false esecuzioni. Domenico ha subito due false esecuzioni con una pistola».

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