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Necessità del sacro nel diritto
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Tempo fa, quando querelai Massimo Teodori per avermi diffamato in TV, ho provato sulla mia schiena l’orrenda inefficacia della cosidetta giustizia. Il giorno stabilito per l’escussione dei testimoni, s’è presentato al palazzo di Giustizia di Viterbo l’amico Franco Cardini, per deporre a mio favore, con grave sacrificio personale, visto che abita a Firenze e doveva avere nel primo pomeriggio un incontro a Roma. Non ha potuto testimoniare. Ha dovuto sorbirsi con me lunghissime ore di attesa (il giudice ti convoca «alle ore 9», anche se la tua è la sesta udienza della mattinata) per poi apprendere che, dato che le udienze degli altri processi previsti per quel giorno erano andate per le lunghe (e i giudici non lavorano il pomeriggio) il mio processo e la tetsimonianza di Cardini era rimandata. A quando?

A tre mesi dopo.

Per questa ragione ho preferito rinunciare, accettando una transazione al ribasso con l’imputato Teodori. Non potevo pretendere che Cardini si ripresentasse a Viterbo tre mesi dopo, con il rischio evidente di un altro rimando alle calende greche; lo sfilacciamento del processo dovuto a una simile prassi giudiziaria era scoraggiante – gli avvocati e i magistrati si dimenticano la causa e devono ristudiarsela, sarebbe svanita l’impressione lasciata dalla visione su videocassetta del dibattito TV in cui Teodori mi diffamava, che la corte aveva visionato... tre mesi prima.

Ora, ascoltando su Radio Radicale il congresso dell’Unione Camere Penali tenuto a Rimini a metà ottobre, ho scoperto che ciò è contrario alla legge. Un avvocato di nome Gustavo Pausini (di notevole dottrina, come m’è parso, quasi tutti i partecipanti) ha ricordato che il codice prescrive «la concentrazione del dibattito», e ne impone il rinvio alla «udienza successiva», cioè all’indomani. Si tratta di un «termine perentorio» per i codici; ma, dice l’avvocato con sarcasmo, è diventato un «termine canzonatorio», come molti altri che obbligano la magistratura (per la quale restano «perentori» solo gli obblighi del cittadino).

Tali e tante sono le violazioni che avvengono ormai come normali nel corso dei processi, che l’avvocato Pausini – sempre più sarcastico – si propone di stilare un secondo codice di «procedura penale di fatto» per rendere legale ciò che si fa normalmente nelle aule in piena illegalità.

Esempi da lui citati: «La competenza territoriale è illimitata quando cè di mezzo Woodkock o Guariniello»; le «intercettazioni telefoniche sono autorizzate a cercare reati a cui nessuno aveva pensato». L’avvocato propone anche di inserire nei codici una «modifica delle norme sulla carcerazione preventiva per esigenze mediatiche», e via di seguito, in un crescendo di umorismo nero. «Le leggi che non piacciono non vengono applicate», conclude; «sintende, quelle che non piacciono ai giudici».

Nella sua relazione, il presidente delle Camere Penali Spigarello aggiunge particolari da far rizzare i capelli. Denuncia «il reiterato ascolto delle conversazioni telefoniche tra lavvocato difensore e il suo assistito», in infrazione del «precetto legislativo sulla inviolabilità delle conversazioni tra difensore e difeso»; intercettazioni che vengono poi inserite nei provvedimenti che emettono i procuratori, con il consenso dei gip. Denuncia la prassi ormai comune per cui i pm ascoltano più e più volte coloro su cui indagano, e che intendono imputare, come «persone informate sui fatti», ossia come testimoni, privandoli così dei diritti riconosciuti all’imputato, di essere ascoltato in presenza dell’avvocato, di avvalersi della facoltà di non rispondere e persino di mentire; ciò per rendersi facili le costruzioni di imputazioni a danno del convocato.

A Marsala, dice ancora Spigarello, è accaduto che certe parole scambiate tra l’avvocato e il suo cliente nei corridoi del palazzo di giustizia siano state orecchiate da un agente di Polizia, che le ha riferite con un’annotazione alla Procura; la quale, invece di cestinarla, «ne ha fatto oggetto di un esposto disciplinare» contro l’avvocato. Cita anche un evento relativo al processo per l’omicidio di Sarah Scazzi: un avvocato è stato imputato dal pm per infedele patrocinio perchè continuava a sostenere l’innocenza del suo cliente, che invece aveva ammesso la sua colpa (il famoso papà, che agiva così per coprire la figlia). Un caso plateale di un sempre più frequente «inaccettabile sindacato sullattività professionale dellavvocato da parte della sua controparte», ossia dal pubblico accusatore, che evidentemente non si ritiene «parte» (accusatore di parte, sullo stesso piano del difensore di parte) bensì divino depositario della Verità, perlomeno sullo stesso piano della magistratura giudicante.

Nei tribunali «il diritto di difesacostituzionalmente garantitoviene attaccato, sempre più mal tollerato e addirittura criminalizzato», dice il relatore. E cita il caso, enorme e paradossale, di un pubblico accusatore di Napoli che in un caso (dispiace non sapere quale) «ha ritenuto di avere il potere di sollevare alcuni avvocati dal segreto professionale», «sostenendo la propria legittimità a farlo, con apposito decreto».

Insomma, la procura di Napoli (con l’appoggio del Gip) ritiene di poter abolire per decreto un principio fondamentale del diritto. Ad un suo cenno, l’avvocato difensore viene obbligato a rivelare ciò che ha saputo dal suo cliente, in pratica viene chiamato a tradire il suo difeso. In altre parole: c’è a Napoli un sostituto pm sicuramente laicissimo, che si sente investito di una potestà super-divina, superiore a quella del Papa. Infatti, nel diritto canonico, nemmeno il Papa può sollevare dal dovere del segreto confessionale un semplice prete; il pm può esimere l’avvocato difensore dal mantenere il segreto su ciò che gli ha detto il cliente. Evidentemente, il pm di Napoli ha ricevuto tale facoltà da Dio stesso, ancorchè i codici non gliela riconoscano, e nemmeno la logica e il buon senso.

Chi non si sente rizzare i capelli a questa notizia, non solo non capisce nulla della giustizia, ma non capisce le conseguenze fatali del «diritto processuale di fatto» che i procuratori italiani stanno fabbricando: in pratica, chi viene da loro imputato non può più difendersi in modo legale. È la svolta verso il processo alla sovietica, anzi oltre. Chi si oppone a questa deriva, può essere incriminato (se avvocato difensore, altra prerogativa violata) e perlomeno mal tollerato come eccessivo garantista. Ma, dice l’avvocato Pausini, «il garantismo cui noi aspiriamo è che sia ancora possibile fare un processo dove linnocente possa essere assolto». Perchè stiamo andando verso un sistema giudiziario dove gli innocenti non potranno essere assolti, se il pm ha deciso, con le sue indagini (spesso raffazzonate, in conseguenza della sua abitudine ad abusare dei suoi poteri) e le sue intercettazioni a tappeto, che quello è colpevole. Una tale magistratura si è appropriata di un preteso controllo etico o di moralità anzichè di limitarsi al controllo di legalità che le è proprio; controllo di moralità che pretende di esercitare non solo sull’imputato (specie se mediaticamente eccellente) ma sul suo avvocato, e perfino sulle leggi. Se le leggi sono promulgate dal parlamento a maggioranza berlusconiama, esse sono tutte giudicate «ad personam» e dunque disapplicate dai giudici. Anche quando non lo sono, dice il relatore alle camere penali.

«Data la veste di indagato e imputato di Berlusconi», ogni «proposta di riforma del diritto viene inquadrata nella categoria», anche quando è necessaria ed erga omnes. Comoda posizione, per la casta giudiziaria accusatrice, per rifiutare qualsiasi riforma necessaria, che riduca i suoi poteri (in tutti i Paesi civili l’accusa non è una magistratura, bensì dipende dall’esecutivo; in Inghilterra, il procuratore d’accusa è addirittura un funzionario di Polizia; solo da noi si sostiene l’indifendibile unità delle carriere di pm e giudicanti).

D’altra parte, Berlusconi, e i suoi avvocaticchi che lo difendono come un ladruncolo da supermarket, cercando di far passare leggine (tipo il diritto a convocare testimoni superflui, o per accorciare la prescrizione) che non configurano una riforma seria e complessiva come quella invocata dalle Camere Penali, danno una parvenza di ragione all’orribile abuso di potere di cui «normalmente ed ogni giorno» si macchia la casta togata. E le leggine escogitate dall’avvocaticchio Ghedini vengono regolarmente impallinate dalla Corte Costituzionale, risultando persino inadeguate al meschino scopo di salvare il ladro di polli-governante. Meglio sarebbe stato pensare in grande, mettendo insieme un’architettura completa di riforma, con l’adesione di giuristi sperimentati (se ce ne sono ancora, dopo decenni di diritto deformato); ma il berlusconismo non ha la caratura morale e culturale per una simile visione.

Risultato, dice il relatore: «Mentre la politica balbetta i suoi propositi riformatori, la magistratura riscrive le leggi», ogni giorno, nelle aule giudiziarie.

È un giudizio tremendo da parte del presidente degli avvocati penalisti, che sono a contatto giornaliero col vero volto del sistema penale italiano.

Il presidente dei penalisti rincara, con lucida coscienza: ormai «la pubblica professione di diffidenza che molti magistrati fanno nei riguardi delle singole leggi già varate o da varare» non si limita alle leggi, si estende alla stessa «funzione legislativa». La magistratura si pone contro le leggi, e contro il potere legislativo, a cui nega ogni legittimità.

Il presidente dei penalisti fa a tal proposito una lunga citazione di un gentiluomo che fu vittima del fanatismo giudiziario, incarcerato per mesi e poi assolto con formula piena: Franco Nobili (1).

«Oggi appare mutato il senso della categoria di norma giuridica», scriveva Nobili. «Lenfasi posta sul pur reale valore dellautonomia e dellindipendenza della funzione giudiziaria tende infatti a modificare la portata di quei due valori, e a presentare tale funzione statuale sempre più come entità contrapposta, come una schiera virtuosa, la quale ha di fronte a sè qualcosa di degradato (...): una specie di commistione indistinta fra classe politica, partitica, parlamentare, governativa, intesa come quella che dà la legge (...). Attualmente, almeno nel settore penale, si guarda al prodotto legislativo (come ad) un frutto infido, impuro, di quella classe politica; un frutto di cui dubitare, ed anche da contrastare, e cui conviene, comunque, essere superiori».

Come non assentire di fronte al fatto che dal parlamento e dai partiti, il potere legislativo, è degradato fino all’inverosimile, e che le leggi che emana a getto continuo sono un «prodotto impuro, infido, di cui diffidare»? Tanto più un parlamento come quello attuale, fatto di nominati strapagati, arrivati lì grazie ad una legge elettorale che lo stesso suo autore ha chiamato «una porcata»? Se i parlamentari emanano leggi che sono porcate, allora è forte la tentazione di dar ragione all’ordine giudiziario che si vive come contro-potere virtuoso, come sorvegliante morale dei politici.

E invece no. Hanno torto tutt’e due: l’ordine giudiziario non meno del potere legislativo che non applica le leggi che non gli piacciono, le riscrive nelle aule giudiziarie, e appena può, incarcera preventivamente i parlamentari.

Il duplice torto si spiega col fatto che entrambe le caste, la giudiziaria e la legislativa, condividono la stessa concezione fallace del diritto: il «positivismo giuridico».

Per lo più, senza neppure sapere che si tratta di una filosofia, perchè i parlamentari sono al disotto del livello intellettuale in cui si nutrono posizioni filosofiche, e i neo-magistrati vengono da facoltà dove il Diritto Romano non si studia più (2) e quindi non hanno nemmeno il sospetto che esistano i principii perenni di quel che si chiamava diritto naturale. Ma non importa studiare per essere positivisti giuridici; lo si può essere senza saperlo – come un comico personaggio di Molière si rallegrava d’aver scoperto di «parlare in prosa da quarantanni senza saperlo» – dato che il positivismo è il pensiero unico egemone che si respira nell’aria.

Hans Kelsen
  Hans Kelsen
Il positivismo giuridico, voglio ricordarlo, sostiene che il diritto è solo quello «positivo», ossia «posto» dalle leggi effettivamente emanate, al disopra delle quali è inutile cercare una idea superiore di «giustizia». Nella formulazione estrema (di Hans Kelsen) le leggi, per essere valide e dunque applicabili dai giudici, basta che siano prodotte secondo le procedure formali previste; se poi queste leggi siano giuste o ingiuste, è una domanda assurda, perchè un’idea di giustizia superiore alle leggi vigenti di fatto non esiste, se non come fantasma. Tale domanda non riguarda la «scienza del diritto», bensì al massimo la «politica» del diritto (essa stessa riducibile a rapporti di forze sociali, non di giustizia e verità). Per la scienza del diritto, l’unico diritto è quello che si identifica con le leggi dello Stato in vigore, e non ha senso cercarne un altro.

Si capisce che il positivismo del diritto è uno degli effetti collaterali della secolarizzazione compiuta, di cui è anche una causa. Esso è uno, e forse il più radicale, dei tanti «movimenti di liberazione» rivoluzionari abbracciati dall’uomo moderno: è conquista della «autonomia» delle società da un presunto diritto naturale, un insieme di principii eterni e cogenti, che le leggi positive erano costrette a semplicemente tradurre nei codici e nelle sentenze. Il diritto romano fu a tal punto fondato su questa dottrina, che le leggi promulgate vi hanno poca importanza (Roma ne emanò, in 500 anni, poco più di trecento) mentre esso è costituito essenzialmente da sentenze e da pareri di giureconsulti, in quanto non era in parlamento, ma nei processi che si formava il «diritto»: fra due litiganti il giudice, come avrebbe potuto fare qualunque uomo onesto, ragionevole e disinteressato in causa, cercava di accertare chi fra i due avesse «diritto» e chi avesse torto, anche in assenza di legge scritta (3). Si intuisce così che il diritto naturale ha a che fare con l’atto intellettuale che consiste nell’appurare – cioè scoprire, non «produrre» – la verità qual è. E ciò rimanda,
implicitamente o espressamente, a quella Verità suprema che è anche il supremo Legislatore perchè, a dirla con San Tommaso d’Aquino, «verum et bonum convertuntur», verità e bene (e bello) sono una sola cosa (4).

Ne consegue che il positivismo giuridico è il sistema legale proprio del mondo «disincantato», dove Dio è morto, perchè soddisfa a tutte le pulsioni di «autonomia», nichilistiche, anti-autoritarie, «liberatrici» e orizzontali-biologiste, compendiate nel rozzo ma efficace slogan anarchico «Nè Dio nè padroni»; in più, è il sistema perfetto nell’epoca del relativismo. Hans Kelsen, il fondatore del giuspositivismo estremo, preferiva la democrazia non perchè gli assegnasse un valore di giustizia ed eticità, ma perchè essa, obbligando a rispettare le opinioni altrui quali che siano, educa a non riconoscere alcuna verità assoluta.

«Se io mi pronuncio a favore della democrazia, lo faccio esclusivamente a causa del legame che esiste fra democrazia e teoria relativista».

I magistrati, che del resto condividono tutte le pulsioni suddette di tutti i contemporanei (il nuovo senso comune) hanno la loro convenienza ad applicare le leggi scritte, senza doversi sforzare personalmente a cercare dov’è il giusto; è un automatismo che risparmia molta fatica etico-intellettuale. Ai politici, il positivismo giuridico dona una nuova onnipotenza, la legittimazione a dare forza di legge ai propri interessi di parte (si pensi alle «leggi elettorali», continuamente cambiate per favorire la propria fazione), a imporre «legalmente» doveri arbitrari e a conferire diritti indebiti (il «diritto» all’aborto, al matrimonio omosessuale...).

Però, però: come mai tutta questa potenza dei politici-legislatori sbocca oggi, in Italia, nella intercettazione a tappeto delle loro conversazioni, da parte di magistrati che cercano un motivo, una semplice frase, per reclamarne la carcerazione preventiva? Situazione poco dignitosa, per dei legislatori.

E perché, nonostante questo continuo spionaggio giudiziario, ... tanta corruzione e compulsiva violazione di leggi, da parte di quelli che le votano e le emanano?

E perchè i magistrati tendono a disapplicare le leggi che non piacciono loro, a fare dei termini perentori dei «termini canzonatorii»?

Come s’è visto, qualche procuratore crede di poter esentare, con un suo decreto, gli avvocati dal segreto professionale; evidentemente è convinto che il segreto professionale sia iscritto in qualche legge promulgata (che il giudice dispregia in quanto promulgata dai politici) mentre si deduce con la semplice logica, dal diritto dell’imputato alla propria difesa: sollevare l’avvocato dal segreto delle sue conversazioni col cliente, equivale a obbligare il difensore a testimoniare contro il proprio cliente. Una follia giudiziaria degna del KGB o della STASI. Perchè tutta questa deriva?

La risposta è breve: una volta sganciata la legiferazione dal diritto naturale e quindi dalla sua origine sovra-umana, essa diventa «umana, troppo umana». Quando si vede l’attività legislativa dei Calderoli, o dei Prodi, dei Ghedini e delle Bindi, è quasi impossibile rispettare quelle leggi. Ognuno dei mille deputati e deputatucci avanza continuamente proposte di legge, con l’intento di dare forza di legge a qualche privilegio di qualche lobby di riferimento, di ottenere in cambio qualche favore e tangente; la pletora e la sovrapproduzione di leggine, o di enormi leggione-contenitori che contengono un pò di tutto e nascondono qualche piacere fatto ad un gruppuscolo (o alle TV private o pubbliche, ad esempio) fanno di per sè scadere il rispetto che si deve alle leggi.

Si conferma nelle menti che il diritto è qualcosa di spurio, perchè viene prodotto da persone discutibili e maleodoranti; e che è illimitatamente modificabile a volontà ed arbitrio di chiunque, via via che viene svalutato per la sua stessa moltiplicazione, fenomeno analogo all’inflazione della moneta.

Diventa impossibile inchinarsi davanti alla maestà della legge fatta da uomini nelle vesti di legislatori supremi. Quegli uomini stessi, i legislatori del diritto positivo, diventano facili trasgressori delle leggi proprio in forza del fatto che sono padroni di se stessi, di forgiarsi la propria morale. E, scriveva Simone Weil – sicuramente una «democratica e antifascista» – «il gioco medesimo delle istituzioni democratiche è un invito perpetuo a questa sorta di trascuratezza criminale e fatale».

 Simone Weil
   Simone Weil
Simone Weil lo scrive nel saggio l’Enracinement (La prima radice) elaborato nel 1943 per rispondere ad una richiesta del governo provvisorio in esilio di De Gaulle: idee sul come ricostruire moralmente il popolo francese e le sue istituzioni dopo il regime collaborazionista di Vichy. Non solo quella parte (tanta) che aveva assentito all’occupante tedesco ed ora perdeva, ma anche la minoranza vincitrice, la famosa resistenza che s’era abituata a sabotare la produzione, a lavorare male, a disobbedire alle leggi come forma di guerra all’occupante.

Si tratta di reinstaurare la «santa maestà della legge». Come noto, Simone Weil cerca di fondarla non sui diritti, ma sugli «obblighi»; e descrive l’obbligo nei termini stessi in cui si descrive il diritto naturale: «Il diritto è efficace quando viene riconosciuto. Lobbligo, anche se non riconosciuto da nessuno, non perderebbe nulla della pienezza del suo essere... Tutte le convenzioni sono modificabili secondo la volontà dei contraenti, mentre nessun cambiamento nella volontà degli uomini può modificare lobbligo».

Da qui, per rapidi tratteggi, si delineano i caratteri di una statualità che si voglia legittima.

«La legittimità non può più avere un carattere storico; deve derivare dalleterna fonte di tutte le legittimità. Bisogna che gli uomini che si proporranno per il governo del Paese, riconoscano pubblicamente certi obblighi che rispondono alle aspirazioni essenziali del popolo, scritte in eterno nel fondo delle loro anime. Bisogna che il popolo abbia fiducia nelle loro parole e nelle loro capacità ed abbia il mezzo di provarla’».

A questa condizione «lobbedienza del popolo ai pubblici poteri, essendo esigenza della patria, è un obbligo sacro e conferisce il carattere sacro ai pubblici poteri (...). E questa non è idolatria (anzi) è lopposto. Lo Stato è sacro non come un idolo, ma come gli oggetti del culto, le pietre dellaltare o lacqua del battesimo».

E per meglio far intuire ciò di cui si tratta, occorre condursi al caso estremo: il potere tragico dello Stato di ordinare al cittadino di esporsi al pericolo e alla morte in guerra.

Simone Weil riporta le parole di un soldato: «Ho ubbidito a tutti gli ordini. Ma sentivo che mi sarebbe stato impossibile, che sarebbe stato infinitamente al disopra del mio coraggio, affrontare un pericolo volontariamente senza ordini». Infatti «un ordine è uno stimolo dincredibile efficacia. Racchiude in sè lenergia indispensabile allazione che esso propone».

Ma naturalmente, è privo di tale «energia» un ordine che venga da governanti disancorati dalla «fonte eterna di ogni legittimità», non consapevoli della responsabilità che ne consegue.

L’inflazione di leggi e leggine «ad hoc», il continuo cambiamento («riforme») della legislazione, è in qualche modo il vacuo tentativo di compensare quella perdita di maestà, e perciò di efficacia: gli «ordini» vengono moltiplicati quanto meno suscitano obbedienza, quanto più frequentemente sono violati e traditi – a cominciare dagli stessi che li emanano. Lo stesso viscido e ambiguo addolcirsi del diritto penale, che dopo aver rinunciato ad ordinare la pena suprema capitale, non commina nemmeno più l’ergastolo financo per il delitto capitale, l’omicidio, il matricidio, riducendo la pena a dieci, anzi a sei anni di carcere, nasce da una profonda insicurezza sul diritto della Legge – della moderna legislazione – a punire.

Contraltare di questo falso addolcimento è la conseguenza denunciata dalle camere penali: oggi il processo fa più paura all’innocente che al pregiudicato, la magistratura – persa nelle reti procedurali del diritto «positivo» – ha cessato di soddisfare la vittima dell’ingiustizia, anzi di riconoscerla come tale. Sempre più abbiamo un corpo magistratuale e statuale o privo di «energia», o che presta l’energia della forza pubblica all’arbitrio, fino alla violazione di diritti cosiddetti inviolabili e inalienabili del cittadino, anzi della persona, a quelli che Simone Weil chiama «i bisogni dellanima».

Per questo la nostra Simone ricordava ai futuri governanti della Francia liberata che «occorre avere sempre in mente lazione pubblica come modalità educativa della nazione».

E qui misuriamo sgomenti la distanza che separa questa lucida aspirazione alla abietta realtà dei nostri «politici». Mai e poi mai è albeggiata nelle loro menti meschine la coscienza che «l’azione pubblica» è e deve essere «una modalità educativa della nazione». Leggi «ad personam», o leggi «contra personam», che non sono meglio delle prime. Leggine per soddisfare un gruppo d’interessi particolari, o per danneggiare una categoria avversa al proprio partito; leggi elettorali escogitate per ottenere alla propria parte un vantaggio di corto respiro, come la legge Calderoli detta dal suo escogitatore stesso Porcellum.

Come si fa ad obbedire a «leggi» che portano addirittura i nomi di personaggi che conosciamo fin troppo bene, che abbiamo imparato a ragione a disprezzare: legge Bossi-Fini, lodo Alfano, «lenzuolate» Bersani? Articoli-monstre di «finanziarie» che regolamentano di tutto un po’, che nascondono vantaggi indebiti per questo o quello, che incorporano «emendamenti» clientelari e che negano l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, o violano la proprietà privata, il diritto alla vita, la privatezza della persona?

Winston Churchill aveva ancora un barlume del tema vero della Politica (con la P maiuscola) quando avvertiva: attenzione, «noi plasmiamo le nostre istituzioni, ma poi le istituzioni plasmano noi»: istituzioni corrotte corrompono i cittadini, demoralizzano il popolo nel senso proprio – gli fanno perdere la moralità; da qui la responsabilità «educativa» di cui i legislatori e i magistrati devono essere coscienti.

Oggi, allo «Stato etico» i nostri politici e magistrati hanno sostituito una sorta di «Stato anti-etico», con il voto complice di maggioranze di cittadini vogliosi di disconoscere i loro obblighi «sacri», perchè gli è stato detto che non esistono più obblighi sacri, che le leggi sono di escogitazione puramente umana. E una volta che sono così, chi non vuole distorcere questi macchinismi a vantaggio del proprio gruppo d’interesse? E in nome di cosa i magistrati d’accusa esercitano il loro moralismo su tutti e su tutto, con una sete di sorveglianza preventiva che s’acuisce tanto più poliziesca, quanto meno la legge è rispettata?

Intercettazioni telefoniche a tappeto, certificati anti-mafia obbligatori, esazioni tributarie intollerabili (5) esami fiscali dei conti correnti, controlli minuziosi indotti dal sospetto generale su ogni cittadino, non curano il male. Non bloccano nessun abusivismo né alcun abuso. Perchè il male è più profondo di quel che i giudici (e non parliamo dei politici) possano concepire: ed è la perdita del sacro nel diritto. I magistrati che vogliono «obbligare» i cittadini (da loro calati al rango di sospetti) poi non si sentono «obbbligati» dalle norme che non siano «positive», ossia che non sono scritte se non nei cuori. Ma nei cuori, queste leggi, pur eterne, stingono e si cancellano.

Il perchè lo dice ancora una volta, e credo definitiva, Simone Weil: «Chi, per semplificare i problemi, nega certi obblighi ha concluso nel suo intimo un patto col male». Anzi, ha commesso «una sorta di suicidio spirituale».

È una frase che ci chiama in causa tutti, singolarmente. Quanti viviamo oggi, che siamo spiritualmente suicidi? E i suicidi, morti-viventi non hanno più la luce delle leggi sacre nel cuore.





1) Presidente dell’IRI, Franco Nobili fu arrestato alle 5 del mattino del 12 maggio 1993 per ordine di Di Pietro, e tenuto in galera a San Vittore per due mesi e mezzo senza un preciso motivo. Di Pietro si degnò di interrogarlo dopo un mese e mezzo di detenzione, poi lo tenne lì senza mai più sentirlo. Il tempo necessario per riportare alla testa dell’IRI il noto Prodi, e per obbligare l’IRI alle ben note privatizzazioni. Nobili fu riconosciuto completamente innocente di tutte le accuse, ma solo sette anni dopo, nel 2000.
2) Da corso fondamentale e obbligatorio è stato degradato a «facoltativo». E siccome richiede una qualche conoscenza del latino, i futuri magistrati, che vengono da studi secondari degradati, non si avvalgono della facoltà.
3) In questo senso Cicerone, nel trattato De Republica, dice che il magistrato è «legge vivente». Le sue sentenze non derivano dalla sua volontà individuale, non sono un «comando», nel senso in cui comandava il generale (imperator) sul campo di battaglia – figura che imponeva la sua volontà personale, a suo rischio e sotto sua responsabilità, ai soldati-cittadini. Nella polis romana (e anche greca) all’interno del «pomerium», nessuno doveva «comandare» in questo modo. Il dominio impersonale del diritto costituiva la libertà di cui i cittadini – che avevano rigettato la monarchia – erano gelosi custodi.
4) A negare la liceità del diritto positivo e riaffermare il diritto naturale è rimasta, solitaria e impavida, la Chiesa, anche quella post-conciliare. Nella Veritatis Splendor, lo stesso Giovanni Paolo II parla dell’autorità della legge di imporre divieti, sanzionare certi comportamenti e conferire dei diritti in questo modo: «Tutto ciò non potrebbe esistere nelluomo, se fosse egli stesso a darsi, quale legislatore supremo, la norma delle sue azioni», dice il Pontefice polacco citando Leone XIII. Ne consegue che « (...) la legge naturale è la stessa legge eterna, ossia la stessa eterna ragione di Dio creatore e reggitore del mondo, inserita nelle ragionevoli creature, e motrice di queste agli atti debiti ed al fine».
5) Anche la fiscalità spoliatrice, sopra il giusto e soprattutto sopra il tollerabile per mantenere la vitalità della società, deriva dalla stessa patologia istituzionale. Per secoli, finchè è durato il diritto naturale, il pagamento delle tasse (salvo in caso di guerra) è stato sentito dai popoli come un disonore, il segno visibile della schiavitù, una vergogna degna di un popolo conquistato. Per questo Shakespeare scrisse: «Questa terra ha compìto una vergognosa conquista di se stessa».



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