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Di cosa ha bisogno l’Italia
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Qualche tempo fa è apparso a mia firma un articolo dal titolo «Italia Ottomana». Dove elencavo alcuni scandali d’attualità: quel presidente dell’Aler di Lecco, calabro-camorrista, che ha tagliato le gomme di un invalido di cui aveva occupato il posto-auto; l’agenzia di esazione privata Tributitalia che riscuoteva le tasse di 400 Comuni, ma poi se li teneva; e infine le inadempienze della Corte dei Conti nel mancato controllo delle follie spenderecce della Regione Lazio, e della altre – le cui spese sono cresciute del 75% in 11 anni, senza che apparentemente gli organi di sorveglianza se ne accorgessero. Tutto ciò per concludere che questi scandali, in ultima analisi, sono l’effetto dello sgretolamento – operato dai politici – dello «Stato Amministrativo», ossia del personale della burocrazia nazionale che attua le decisioni del potere esecutivo. In ogni altro Paese questi apparati amministrativi sono dotati di alti livelli di istruzione e di educazione (in Francia, basti pensare alla Ecole Nationale d’Administration, la ENA, da cui sono usciti tanti presidenti), vengono duramente selezionati per concorso e godono di alto e meritato prestigio. In Italia, dicevo, lo Stato amministrativo è sempre stato manchevole – quello che i Savoia estesero nel resto del Paese conquistato era di una bassezza retriva inarrivabile, e si considerava come un controllore nemico di una popolazione occupata, non come un suo ausiliare. Nel Fascismo, lo Stato amministrativo dovette migliorare, come dimostra la bonifica pontina (dove lo Stato, avendo stanziato 5 mila lire per ettaro, l’ente che realizzò la bonifica ne spese 4.800). E infine citavo il caso di Pellegrini Giampietro, il «tecnico» che fu ministro delle Finanze durante la Repubblica Sociale italiana e che – in quei mesi di tragica destabilizzazione, divisione, occupazione, bombardamenti e miseria – riuscì a difendere il valore della lira, e ordinare le finanze in modo tale che fu lodato, a cose finite, dai vincitori americani. Non a caso, dicevo, Pellegrini Giampietro, giurista-economista di formazione, aveva scritto nel ‘41 un saggio dal titolo: «Aspetti spirituali del fascismo».

A questo, un lettore ha replicato ironicamente:

«Blondet è sempre molto bravo a fare la pars destruens’, come in questo caso (a parte qualche caduta di stile in alcuni particolari come gli accenti, lebreo di Las Vegas, le somiglianze antropologiche, ecc.) ed è assai difficile non concordare sulla sostanza dellarticolo che è la solita: il Paese Italia in mano ad una ciurma di corrotti, corruttibili, volgari, tracotanti, ecc. A questo punto però Blondet dovrebbe proporre qualcosa: lui però non ne abbozza nessuna, a meno che non intendiamo come tale limplicita laudatio che fa del ventennio fascista il che, come abbozzo di programma, non mi sembra un bel vedere (torniamo alle corporazioni ed alla economia spirituale’?)».


A me sembrava che denunciare con precisione le falle, inadempienze e parassitismo dello Stato amministrativo già dicesse implicitamente, anzi gridasse, le «cose da fare» per rimediare al disastro in atto. Però ho deciso di accettare la sfida: enunciare esplicitamente il programma di riforme secondo me necessario e urgente per l’Italia. Anche se ciò è completamente inutile, perché mai e poi mai si otterrà un consenso politico attorno a un simile programma – mi sono detto inizialmente. Dopotutto, la politica è «l’arte del possibile», ed è ingenuo, per un individuo isolato senza mezzi, stilare un programma ideale che nessuna forza politica esistente sottoscriverebbe, ed avrebbe contro la forza schiacciante degli interessi parassitari costituiti. Ma poi, ripensandoci, mi sono convinto che invece non deve mancare una fase preliminare dove si enunciano le «cose da fare» con limpida chiarezza intellettuale, in piena libertà, prescindendo dai calcoli delle forze in campo che le rendono infattibili. Perché se manca questa fase, non sapremo mai noi stessi – quando ci scagliamo contro i malaffari e il degrado della politica in corso – in base a quale Stato ideale critichiamo la politica vigente. Chiarire a noi stessi «che cosa vogliamo» mi pare ineludibile, nel furore di polemiche che intorbidano tutto. La preoccupazione del «possibile in politica» agisce come censura preventiva, come intimazione di «tabù». Non osiamo sperare certi cambiamenti, perché li crediamo impossibili. Ma chi può dirlo?

Quindi, ecco di cosa, secondo me, l’Italia ha urgente bisogno:

Ricentralizzare nello Stato tutte le funzioni oggi attribuite alle regioni. Le competenze dirigenziali-amministrative da noi sono una risorsa scarsissima: non ce n’è abbastanza per distribuirle «sul territorio». La bassissima qualità degli amministratori regionali, provinciali e comunali è – prima che la loro disonestà – la causa del disastro. Le poche competenze amministrative e strategiche esistenti vanno concentrate negli apparati centrali, nelle direzioni dei ministeri.

Abolire le Regioni. Il pretesto che ha presieduto alla loro nascita, «portare il potere (la democrazia) più vicina alla gente», è stata una truffa, come oggi è evidente. Lo Stato centrale è relativamente più sotto l’occhio dell’opinione pubblica; gli atti del governo centrale fanno i titoli di prima pagina dei giornali e telegiornali. L’operato delle cricche regionali, per contro, si svolge per lo più «al disotto del radar» della cittadinanza. Le loro porcherie passano ignorate, o sono registrate al massimo nelle pagine provinciali dei media, lette solo da minoranze locali. Senza la faida interna al Pdl Lazio non avremmo saputo nulla di nulla delle scandalose abitudini dei compari, né degli allegri eccessi di Fiorito. Se il Piazza, il funzionario siculo-calabro di Lecco, non avesse tagliato le gomme all’invalido, non avremmo mai saputo che quel delinquente era capo dell’ALER, e nemmeno avremmo mai saputo a cosa serve l’ALER (c’è un ALER in ogni provincia, ed è l’ovvio frutto del desiderio delle mafie siculo-calabre, che ci mettono i loro uomini per avere appalti edilizi).

In alternativa, attuare tre Macro-Regioni, ma come preliminare per la separazione del Nord dal Meridione (vedi punto 5). In ogni caso, è urgentissimo modificare il titolo 5 della costituzione che dà alle Regioni, e al suo personale politico di serie C, una assurda, totale, insindacabile autonomia di spesa, e di fatto una sovranità, spesso superiore a quella dello Stato centrale. Le sinistre hanno voluto e fatto questo disastro modificando il Titolo 5, per attrarre la Lega dalla loro parte; ma alle «destre» non è parso vero accomodarsi alla nuova, scandalosa greppia. Ora tutti a parole riconoscono il danno, ma nessuna delle forze in campo, e nemmeno il governo tecnico Monti, stanno veramente affrettandosi per riformare il Titolo 5.

Ridurre gli strati di «democrazia», troppo numerosi, che sono centro di spesa incontrollata. Basta e avanza che sia democratico il governo centrale, e magari i Comuni. Ma la «democrazia» (ossia la creazione di decine di parlamentini e governini con la loro «autonomia» di spesa) nelle regioni e nelle provincie è soltanto dannosa. Personalmente, data l’abolizione delle Regioni, sarei per mantenere le Provincie, ma governate da personale tecnico-giuridico mandato dal centro – penso ai prefetti – perché questo darebbe a tale personale il mezzo di farsi un’esperienza amministrativa su un territorio limitato, come base per una carriera della dirigenza statale che dovrebbe essere del tutto sottrratta alla lottizazione politica, fatta per concorsi e – appunto – per precedenti esperienze a livello locale.

Separazione del Nord produttivo dal Meridione. Non parlo di secessione; parlo di amputazione terapeutica di un arto in cancrena, che ha già cominciato a infettare l’insieme. Tre regioni, Calabria, Campania e Sicilia, sono incurabilmente in mano alla malavita organizzata, di cui la «classe politica locale» è la pura e semplice espressione. L’unificazione italiana è stata un fallimento, che è tempo di riconoscere come tale. Fra i due tronconi non esiste più (se mai è esistita) una «comunità di destino». Le quattro regioni del nord (1) liberate dal tributo al sud non solo costituirebbero per sé uno Stato con popolazione doppia a quella del Portogallo (la sola Lombardia ha dieci milioni di abitanti, quanti il Portogallo), ma con una forza economica industriale da far concorrenza alla Germania; è anche un territorio dove vige ancora, e può essere coltivato meglio, il senso di un destino comune, e dove si mantiene un certo senso dell’onestà fra produttori, e un certo residuale rapporto di lealtà fra governanti e governati, il cosiddetto «capitale sociale» (2), che sono l’essenziale per costituire una nazione.

Cancellare le 140 mila leggi vigenti in Italia e sostituirle di peso con la normativa – a piacere – tedesca o britannica. Le leggi vigenti in Germania sono 5 mila. Non è un’utopia, è qualcosa che è stata già fatta da altre nazioni in passato. Quando Ataturk volle riformare l’inefficienza amministrativa dell’impero ottomano da lui rovesciato, adottò i codici civili, penali e commerciali germanici, gli ordinamenti fiscali, militari e il sistema scolastico tedeschi, e chiamò consulenti ed istruttori tedeschi per l’applicazione del nuovo sistema. Quando si è persa la capacità di auto-governarsi, bisogna avere l’umiltà di imparare da altri.

Ridurre le sedute del Parlamento a due sessioni di un mese l’una, come nel parlamento federale svizzero. Oggi i parlamentari italiani si credono dei «professionisti» di qualcosa che chiamiamo «la politica». Ma in democrazia la politica degli eletti «non» è una professione: gli eletti sono cittadini che si fanno votare per svolgere un servizio, mantenendo la loro professione abituale, a cui torneranno a fine mandato. Il servizio consiste essenzialmente nel controllare l’Esecutivo, il governo, di cui i cittadini-parlamentari devono sentirsi in qualche modo i controllori: difatti in Svizzera, le due sessioni (primaverile ed autunnale) del parlamento sono dedicate essenzialmente all’approvazione e modifica del bilancio – di previsione e consuntivo – elaborato dal governo. Nella normalità democratica, un parlamento «che siede in permanenza» si giustifica solo quando esiste uno stato di emergenza, di pericolo estremo per la repubblica. In Italia, non configurandosi lo stato di emergenza (nemmeno quando c’è: quando per esempio il capo dello Stato forma di sua iniziativa un governo di tecnici non eletti), i parlamentari occupano tutto il tempo a concepire decine di migliaia di leggi e leggine, caotiche e per di più quasi sempre a favore di gruppi d’interesse particolari, di cui i parlamentari si ritengono rappresentanti. Il bello è che i media talora espongono al ludibrio pubblico i deputati «assenteisti», quelli che si fanno vedere poco o mai in Parlamento: questi assenteisti andrebbero invece premiati. Naturalmente, un parlamento ideale dovrebbe occuparsi, in Italia, della de-legificazione, ossia di eliminare la massima parte delle 140 mila leggi vigenti, di eliminarne le incoerenze e contraddizioni, accorpando la normativa in pochi e chiari Testi Unici. Come si faceva una volta persino in Italia. Quando le leggi accumulate e stratificate minacciavano di diventare un labirinto farraginoso, le si sfrondava e coordinava in testi unificati, che sostituivano la farragine precedente.

Ricostituire e risanare lo Stato amministrativo rimpolpandolo di personale di carriera, assunto per concorso e la cui competenza sia controllata e certificata (magari da consulenti tedeschi); soprattutto – ma ciò richiederà anni – restituire a questo personale una dottrina dello Stato, una «filosofia» del bene pubblico, una ideologia del servizio civile come hanno i «civil servants» inglesi, e di cui i nostri sono del tutto privi. Il lettore polemico fa dello spirito sulla mia presunta «laudatio del regime fascista». Non occorre essere nostalgici per domandarsi come mai il regime fascista seppe «suscitare onestà» nei pubblici dirigenti e dipendenti , e chiedersi se per caso non ci sia qualcosa da imparare da quell’esperienza, visto che nella nostra «democrazia» gli stanziamenti per un chilometro di autostrada o ferrovia alta velocità sono regolarmente triplicati o quintuplicati. Ridere del «fascismo spirituale» di Pellegrini Giampietro è da ignoranti. Meglio sarebbe imparare e capire come mai, in una situazione di rovina e collasso generale come fu la Repubblica Sociale, egli seppe mantenere il valore della lira, salvare l’oro della Banca d’Italia dalle grinfie germaniche, obbligare i tedeschi a ritirare la moneta d’occupazione che avevano già instaurato nel Nord (nel Sud, infuriavano le «Am-lire» americane), e assicurare gli stipendi regolari fino all’ultimo giorno a tutti i pubblici dipendenti, dai ferrovieri agli spazzini, e perfino agli italiani internati in Germania nei campi di lavoro. Il lettore pensa di essere acuto e spiritoso quando dice: «torniamo alle corporazioni e alla economia spirituale?». Mi dica lui: se in coloro che servono lo Stato non si immette una qualche motivazione «spirituale» (chiamatela patriottismo, prestigio, senso dell’onore o altro), che cosa crede che resti? Resta la voglia di arraffare i soldi pubblici che si maneggiano, di aumentarsi gli stipendi, di ammanicarsi i politici per far carriera senza merito, e il piacere di essere inadempienti parassiti con emolumenti da alti dirigenti.

Reintrodurre i concorsi pubblici. Sapete che i primari ospedalieri non vengono più assunti con concorso pubblico? Io solo recentemente ho saputo per caso che l’allora ministro della Sanità De Lorenzo (nel lontano 1991) abolì la procedura concorsuale per queste figure cruciali della Sanità. Da allora, ormai da oltre 20 anni, i posti di primario vengono distribuiti essenzialmente per raccomandazione dei politici delle Regioni (la cui «qualità» ha dato le prove che sappiamo) e qualche volta venduti i comprati: anni fa, versando 300 mila euro si diventava primari in grandi città del Nord. «Poi tanto ti rifai», dicevano i politici al prescelto. Il primario ha (o aveva) una larga autonomia di spesa nel suo reparto, riceveva ditte fornitrici...

Più in generale, Risanare le istituzioni. In un sessantennio e passa di «democrazia» partitica, i politici hanno corrotto le istituzioni per distorcerle a proprio vantaggio, a volte vantaggio del tutto momentaneo: basta vedere cosa fanno delle leggi elettorali dal Mattarellum al Porcellum, adattandole come abiti su misura ai loro tornaconti – e in modo che la volontà popolare non li spazzi via. Ora, bisogna ristabilire la nozione, fondamentale elemento della dottrina dello Stato, che sono le istituzioni corrotte a corrompere i politici, e financo i cittadini. In questo senso Churchill diceva: «Noi siamo liberi di plasmare le nostre istituzioni, ma poi – attenzione – le istituzioni plasmano noi».

Ah, quasi dimenticavo: Uscire dalleuro e, simultaneamente, ripudiare il debito sovrano. Recuperare la sovranità monetaria. Ristrutturare il debito alle nostre condizioni, diventare noi debitori i gestori del nostro debito anziché lasciarci gestire dai creditori esteri. «La zona euro è diventata una gabbia, con la Germania a fare la volpe nel pollaio» (Emmanuel Todd). Bisogna rigettare la propaganda che presenta una uscita dall’euro come una catastrofe, che ci ripete che «siamo troppo piccoli per competere nel mondo da soli», fuori dall’insieme europeo: basta vedere che la Corea del Sud, 45 milioni di abitanti, non protetta da nessuna zona economica, compete egregiamente nel mondo globalizzato con le sue grandi industrie nazionali, da Samsung a Hyundai. Di fatto, meglio di noi. La nostra classe politica è divenuta sempre più irresponsabile proprio perché l’Europa pensava a tutto e bastava adottare le sue direttive all’interno. Così credevano, ma così non è.

È chiaro che questo programma non è realizzabile; tutte le forze politiche, le lobby e i media sussidiati, sarebbero contro a questo progetto. Esso richiederebbe come minimo lo scioglimento del parlamento e la sospensione della cosiddetta «legalità». La legalità è stata sequestrata dai politici, a cominciare dalle Camere per finire al Quirinale passando per l’Ordine Giudiziario: le loro azioni sono per lo più criminali, ma tuttavia sono «legali» perché fatte con apposite leggi, che essi stessi varano e votano. Quando la popolazione sente che la «legalità» non coincide più nemmeno un poco con la «legittimità», ciò significa che nessuna riforma è più possibile; occorre una rivoluzione (o un colpo di Stato), un’autorità che scavalchi e annulli questa odiosa «legalità» in nome della «legittimità».

Siamo già a questo punto? Sì. Solo che la popolazione non ha piena coscienza che, giunti a questo grado di bassezza e degrado della politica, la legalità deve essere infranta per ricostituirla. Per lo più, la popolazione oppressa è anche quella operosa, produttiva, onesta, abituata ad essere ligia alle leggi. Esita ad un passo tanto grave. Ma si può ricordare che l’Assemblea Costituente, su proposta di democristiani come Dossetti ed Aldo Moro, propose di scrivere in Costituzione il diritto alla ribellione. Il comma bis dell’articolo 50 da loro proposto suonava così: «Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza alloppressione è diritto e dovere del cittadino».Esso fu poi espunto perché, con il Partito Comunista più potente dell’Occidente, avrebbe dato «legalità» alla presa di potere bolscevica (già allora, metà del nostro popolo della libertà e sovranità se ne infischiava, ed era pronto a consegnarla a Mosca). Ma ciò non significa che la resistenza all’oppressione sia diventata illegale.

San Tommaso d’Aquino: «Chi uccide il tiranno va lodato e merita un premio».

E Thomas Jefferson: «Lalbero della libertà deve essere annaffiato di tanto in tanto dal sangue dei patrioti e dei tiranni. È il suo concime naturale».

Diversi secoli dividono queste due asserzioni. Se il concetto è ripetuto da uomini tanto diversi, di età e di mondi così distanti, dal maestro spirituale del Cattolicesimo come dal rivoluzionario americano, vuol dire che la legge della resistenza all’ingiustizia pubblica è scritta nel cuore di ogni uomo, ed è la prova suprema dell’esistenza del «diritto naturale» sopra ed oltre il cangevole e mutevole diritto «positivo».

Capiscono che certi principi sono iscritti sì nel cuore di ogni uomo, ma dovevo aggiungere «di ogni uomo degno di questo nome». È nell’attesa che tali uomini sorgano in Italia, in fondo, che ho provato a scrivere questo programma «ideale» e oggi irrealizzabile. Un programma non enunciato non avrà mai seguaci possibili. Se lo si mette nero su bianco, qualche forza un giorno – nella disperazione che ci attende – potrebbe sollevarlo come bandiera.

Giova sperare.




1) Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia insieme superano i 20 milioni di abitanti. La Liguria potrebbe aggiungersi, e anche l’Emilia-Romagna, a formare un vero e proprio Stato di dimensioni dignitose e notevole forza economica.
2) «Capitale sociale», in sociologia, indica «l’insieme delle relazioni interpersonali positive formali ed informali, anche impalpabili – cameratismo, buona volontà reciproca, mutua simpatia e lealtà fra superiori ed inferiori, e fra gruppi di una unità sociale – che sono essenziali per il funzionamento di società complesse ed altamente organizzate» Wikipedia). Come una macchina utensile è definita «capitale fisico», e una istruzione universitaria è «capitale umano» o culturale, nel senso che entrambi accrescono la produttività individuale o collettiva, così il «capitale sociale» come rapporti di fiducia tra vicini accresce e migliora in modo determinante le condizioni di vita della comunità intera. Nelle piccole imprese del Nord-Est, la speciale colleganza fra datori di lavoro e i loro operai, o fra cittadini e il loro sindaco, è un prezioso capitale sociale. Il Meridione dispone di uno scarsissimo capitale sociale: domina la diffidenza reciproca e la voglia, o la necessità, di «scavalcare la fila» a danno dei vicini, per ottenere privilegi. O diritti che spettano di diritto, ma che si è abituati a piatire al potente come privilegi.



 
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