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Siria: sauditi verso la disfatta
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Circola un video ripreso a margine di Ginevra 2, le trattative sulla Siria. Non si capisce tutto: ma si capisce che l’ambasciatore francese, Eric Chevallier, praticamente volta le spalle ai rappresentanti dei «ribelli». Rimprovera i rappresentanti: «Non meritate gli sforzi che facciamo (per voi). Non vi vergognate? C’era un accordo per 22 tra i leaders e siete finiti a 8! C’è un problema, non prenderò partito. È la sola cosa che ho detto, lo sapete. Quindi, che possiamo fare? Che potete fare?».



Il francese, a quanto pare, sta dicendo alla Coalizione anti-Assad: non siete rappresentativi, e noi lo sappiamo bene. Panico e rabbia dall’altra parte: «Mentre ci sparano voi ci tagliate le armi?», esclama uno in inglese (When somebody shot us… you will… you will cut arms ?). «Ma no, ho forse detto questo?», dice l’ambasciatore. «Siamo persone, non possiamo dare la nostra libertà».

Chevallier se ne va. I rimasti: «Non ha il diritto d’insultare il popolo siriano...non ha il diritto!». «Conosco il francese... ma mi manca la pratica». «...Ma dove sono le armi che ci avrebbe dato?». «No, mi ha umiliato, non cambio parere... a parte tutto». «Cos’è successo? Non abbiamo capito. Che cos’ha detto?». «E mi da del tu! ».

Sun Tzu, l’antico stratega, parlerebbe di «confusione nel campo del nemico». Jihadisti, takfiristi e loro cosiddetti delegati a Ginevra vivono sotto l’angoscia dell’avanzata dell’esercito regolare siriano ad Aleppo, nelle campagne di Damasco e nella provincia di Homs: avanzata dovuta solo in parte alla superiorità militare, e in altra parte al processo di «riconciliazione», per cui ai siriani che depongono le armi il regime promette l’immunità e il ritorno alle case. E i ribelli perdono i potenti protettori.

Non solo i francesi. Secondo fonti dell’opposizione saudita, la monarchia di Riyad ha ricevuto dagli americani un avvertimento: lo Stato siriano (Assad) ha fatto pervenire al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite una gigantesca documentazione che comprova il coinvolgimento saudita nel sostegno diretto ai terroristi in Siria. Mosca, hanno avvertito gli americani, potrebbe fondarsi su questi documenti per sostenere la Siria, e soprattutto per esigere sanzioni contro i Governi coinvolti nel sostegno alla guerriglia; e Washington non potrebbe opporsi, visto che la «lotta al terrorismo» è la sua politica ufficiale USA dal 2001, e ogni tentativo da parte USA di scongiurare le sanzioni rovinerebbe i rapporto con la Russia, e indebolirebbe la «cooperazione internazionale coi servizi americani» nella lotta contro il terrorismo, sì da avvicinare lo spettro di attentati terroristici «sul suolo americano».

Siano o no delle scuse per giustificare lo sganciamento, Washington ha chiesto a Riyad di adottare misure che facciano vedere che anche il regno dei Saud sta combattendo il terrorismo; sarebbe la condizione per agevolare i tentativi americani di limitare i danni dalla disfatta del piano occidentalista e saudita di «regime change» in Siria.

Un effetto s’è visto presto: l’ambasciata dell’Arabia Saudita ad Ankara ha annunciato di essere pronta ad accogliere gli estremisti armati sauditi che combattono in Siria, per aiutarli a tornare a casa. Fine di partita, evidentemente. E dev’essere grave se il Regno si riporta in casa, e sperimentati nel fuoco, quei fanatici che aveva appunto voluto esportare in Siria, perché non minacciassero la dinastia Saud. Si tratta anche dell’ammissione che ufficiali e istruttori sauditi sono infiltrati in Siria; membri della Guardia nazionale e dei servizi sauditi. Del resto l’ambasciatore siriano all’ONU, Bachar al-Jafhari, ha reso noto che il governo siriano ha un gran numero di prigionieri di nazionalità saudita catturati nell’avanzata. Circa 800, sembra. Su questo sfondo, alcuni osservatori ritengono che l’invito dell’ambasciata ad Ankara sia in realtà un ordine di smobilitazione e rimpatrio ai regolari sauditi; i takfiristi verrebbero abbandonati al loro destino, continuano a combattere in Siria o, se tornano in patria, rischiano decenni di galera.

Oltretutto, a fine marzo Barack Obama atterrerà a Riyad: per una visita ufficiale che avrà l’obiettivo di ridistribuire il potere all’interno della famiglia reale saudita, punendo i velleitari tentativi di quella fazione che ha provato a rendersi indipendente dopo il rifiuto USA di impegnarsi militarmente contro Assad, accentuando gli attentati, e cercando di forzare la mano americana, trascinandola in guerra comunque.

Ma i Saud mica sono Israele, a cui la Casa Bianca deve obbedire; sono vassalli non si è mancato di ricordarlo loro. Il principe Bandar Ben Sultan, l’ambiziosissimo direttore dei servizi che «gestisce» i terroristi (è quello che ha minacciato Putin di scagliargli contro i «suoi» ceceni alle Olimpiadi di Sochi), perderà la poltrona e di conseguenza le sue speranze di arrivare sul trono; del resto, da qualche settimana è scomparso in Usa, dove, ha fatto sapere la diplomazia USA, si sta curando lo stress accumulato. Anche il Ministro degli Esteri Saud El-Faysal dovrebbe essere sollevato dall’incarico. Washington e la Casa Reale stanno appunto discutendo sui nuovi nomi da elevare a questi posti chiave. Il re Abdallah vorrebbe mettere a capo dei servizi l’attuale ambasciatore suadita in USA, Adel al-Jubair, e uno dei suoi figli, Abdel Aziz ben Abdallah, come Ministro degli Esteri. Nella vasta e avida famiglia, ogni spostamento aggrava i conflitti interni e accende ambizioni di avanzare nella linea di successione; qui si sta producendo un terremoto, e sullo sfondo c’è la prossima dipartita del vecchissimo e malato re, prossimo a raggiungere le Urì; i prìncipi della seconda generazione possono far esplodere i loro contrasti, odi ed invidie alla luce del sole, in una vera e propria guerra intestina. Il presidente Obama darà i suoi «consigli» in proposito, sulla base delle informazioni dei servizi americani.

Gli americani hanno trasmesso alla Russia la proposta di organizzare una riunione «regionale» in margine a Ginevra II: esperti di Russia e Stati Uniti, sauditi, turchi e iraniani. L’obiettivo sarebbe stato di aiutare l’Arabia Saudita a sfuggire alle conseguenze dei suoi avventurismi criminosi in Siria. L’Iran ha rifiutato l’esca, il contentino di potersi «sedere a un tavolo», mandando a monte le speranze americane di prevenire i cambiamenti che stanno avvenendo sul terreno siriano — cambiamenti che Teheran sa benissimo volgere a favore dell’alleato Assad. (Tendances de l’Orient)

L’isolamento politico internazionale di Riyad è impressionante: con la sua intromissione armata in Siria s’è messa in urto con Mosca e Pechino, e inoltre con Egitto, Algeria (1), Iraq (per non parlare dell’Iran) tutti favorevoli a una soluzione politica del conflitto. L’ostilità del Regno ai Fratelli Musulmani (Riyad ha approvato il colpo di Stato egiziano) ha incrinato i rapporti dei sauditi con la Turchia e col Katar (che aveva aiutato i Fratelli in Egitto). Una patetica proposta saudita di trasformare il Consiglio di Cooperazione degli Stati del Golfo in una confederazione, è stata recisamente rigettata da tutti gli altri, minuscoli emirati petroliferi; persino l’Oman ha detto no. Il generale Al Sissi al potere al Cairo, nonostante i miliardi che ne riceve, non è affatto a fianco dei sauditi sulla Siria: è per la soluzione politica (fine della guerra civile ed elezioni) e inoltre s’è riavvicinato a Mosca per bilanciare le critiche e minacce americane. Il Wall Street Journal ha notato con disagio, il 5 gennaio scorso, che «gli alleati» di Washington «nella regione si dividono in campi avversi»: peggio: la guerriglia nutrita e rifornita da Ryad in Siria, sta tracimando in Libano e in Giordania. A Beirut, l’Arabia Saudita impedisce la formazione di un Governo di coalizione fra le componenti etnico-religiose, caldeggiato dai cristiani del generale Aoun, perché pone come condizione (attraverso i suoi burattini libanesi) che venga escluso Hezbollah. I jihadisti esfiltrati dalla Siria stanno accorpandosi e riorganizzandosi nella zona nord ed est del Libano, dove spadroneggiano, compiono attentati e posti di blocco allo scopo di derubare gli automobilisti; posti di blocco volanti del genere sono apparsi anche in qualche strada della periferia di Beirut. Ad Amman, un autorevole ex primo ministro Maarouf Al-Bakhit ha sottolineato che «La Giordania può vedersi imporre il punto di vista dell’Arabia Saudita», e che «la Siria non considera più la Giordania come Paese neutrale».

Insomma, a Riyad resta un solo vero alleato di fatto, che condivide con lui a sete di distruzione dell’Iran e di Hezbollah, e il disegno di smembrare gli Stati islamici su linee settarie: lo Stato d’Israele. Un matrimonio forzato d’interesse, imbarazzante, che naturalmente mette in pessima luce i sauditi davanti alle piazze arabe e musulmane.

Ora, persino John Kerry ha smesso di ripetere che in Siria «Assad must go», anzi accede all’idea che il presidente Bachar el Assad possa essere rieletto ad un nuovo mandato, nella Siria ripacificata; ciò perché l’evoluzione militare del conflitto, evidentemente, sta diventando ogni giorno più favorevole al regime (2).

La monarchia delle sabbie sembra essere proprio nelle sabbie mobili, e lo stesso futuro della famiglia regnante, scossa da profonde divisioni interne, è a rischio.





1) Il regime algerino, «le Pouvoir», la decrepita nomenklatura degli ex-eroi della guerra di liberazione anti-francese divenuti miliardari col petrolio si accorgono con allarme di essere presi di mira da Washington per un «regime change modellato su quello che ha eliminato il loro vicino Gheddafi – anche lui abbastanza decrepito quando fu rovesciato. Da mesi gli Usa hanno dichiarato l’Algeria come «paese a rischio per la sicurezza dei diplomatici», ed hanno allestito campi militari con centinaia di Marines ed otto aerei da combattimento nella cittadina di Moro (Spagna) come «forza d’intervento in Nordafrica in caso di disordini». Il Pentagono ha anche recuperato una vecchia base abbandonata nel Sud della Tunisia, ufficiosamente per intervenire nel teatro libico, data l’instabilità persistente del paese, dove il «regime change» è andato a male. Non basta: l’11 febbraio è arrivato a Cadice il caccia americano USS Donald Cook, mentre una seconda nave da guerra, SS Ross, raggiungerà la prima in giugno, e due altre, la USS Porter e la USS Carney, si stabiliranno lì con gli equipaggi, un migliaio di Marines e persino le famiglie dei militari, a Cadice. Secondo il sindacato del regime (Union Générale des Travailleurs Algériens), ONG americane molto ben identificate (NED, Freedom House) stanno istigando i berberi contro gli arabofoni, i disoccupati contro gli impiegati...insomma sembrano preparare le basi per interventi umanitario. Ecco un nuovo teatro d’azione per la democrazia, da tener d’occhio.
2) Il che non impedisce agli Usa di tentare i soliti mezzucci. Dopo tre anni d’indifferenza alle condizioni dei civili, la attività «umanitaria» occidentale che ha fatto evacuare qualche centinaia di assediati dalla sunnita Homs, è servita probabilmente a strappare a Damasco una sospensione dei combattimenti e con ciò, a scongiurare la disfatta dei jihadisti. Un ulteriore piano umanitario, presentato dai Governi occidentali insieme all’Arabia Saudita al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, è stato respinto da Mosca, convinta che esso serva a preparare il caso per futuri attacchi militari contro il governo Assad: il testo è «unilaterale» nel dichiarare le colpe di Damasco, e (appunto) comporta (con ordini da ultimatum) sospensioni dei combattimenti, che stanno mettendo alle corde i cosiddetti «ribelli». Si vuole impedire il loro collasso. Per contro, la diplomazia occidentale accusa: «I russi stanno giocando a guadagnare tempo», il che può essere vero: segno di più che il tempo gioca a favore di Assad. (Russia says Syria aid draft groundwork for military action)


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