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Ecco la UE: stronca-salari
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Si discute dottamente se l’Europa sia o no vicina alla deflazione. C’è un modo meno dotto di comprovarlo: il calo dei salari in tutta la zona euro. L’altro nome di «deflazione» è infatti «abbassamento dei salari». Questa tabella ci dice tutto:



La tabella è dell’Istituto Bruegel, un think-tank ultra-euroentusiasta. Persino quelle teste d’uovo cominciano ad allarmarsi. Si noti la velocità del calo nei soli ultimi due anni. E tutti i salari calano: chi più come Grecia e Irlanda (si noti con lieve umorismo: sono i due Paesi più «aiutati» dalla UE), chi meno come in Germania: ma anche in Germania calano, e se calano meno, è anche perché sono calati prima: il successo competitivo tedesco sui concorrenti europei è dovuto anche agli accordi coi sindacati che hanno sforbiciato le paghe del 18%, e la diffusione dei minijob a 490 euro mensili, senza contributi sociali.

La visione eurocratica, come quella del Cancelliere Bruning che fu l’ultimo di Weimar (poi venne sapete chi), è: benissimo, il calo dei salari fa calare i prezzi, quindi tutto tornerà come prima, prima o poi. Piuttosto poi, come sappiamo: nel frattempo le masse vivevano con salari in calo e prezzi alti. E poi, molti prezzi non calano affatto: bollette, canoni, assicurazioni, tariffe… e imposte (in Italia).

La deflazione, questa corsa al ribasso dei salari per ottener il ribasso dei prezzi, è esattamente il male temuto (una vota dagli economisti con conoscenze storiche): la deflazione ha sempre portato a gravi squilibri e all’impoverimento generale. Si instaura un circolo vizioso: meno consumi portano meno investimenti delle imprese, attività rallentate, tagli all’occupazione (più disoccupati) o tagli dai salari, e il ciclo vizioso ricomincia aggravandosi. Alla fine anche il gettito fiscale cala, e il debito pubblico cresce in rapporto al Pil, eccetera eccetera

Si aggiunga che il calo generale – come tutte le medie – cela e maschera degli enormi scarti: anche se in media calano, i salari di qualcheduno crescono. In USA il fenomeno è addirittura caricaturale: una crescita dei redditi del 6,1% fra il 2009 e il 2012 ha voluto dire che i redditi del 90% sono addirittura calati (-1,6), e l’aumento è andato al famigerato 1% in cima alla scala sociale, che s’è accaparrato il 31%.

Anche in Italia i salari calano ma per alcuni aumentano. Chi sono questi “qualcuno”?

Questa tabella può darci un’idea:

Come si vede, il costo del lavoro in Italia è calato meno che in altri Paesi; è continuato ad essere ostinatamente alto. Eppure abbiamo salari netti più bassi che in Germania e Francia. Che cosa tiene alto il nostro costo del lavoro? Gli oneri sociali e la tassazione eccessiva sulle buste-paga. Il nostro costo del lavoro resta alto, perché deve continuare a mantenere i pubblici parassiti, a cominciare da quelli regionali: il loro reddito non cala affatto, anzi è aumentato anche in questi anni di crisi. E non parliamo degli immensi emolumenti della dirigenza pubblica, delle magistrature, dei consigli d’amministrazione delle partecipate, degli enti inutili (A proposito: qualcuno ha notizie dell’Unione Nazionale Miglioramento Razze Equine, in arte UNIRE? Serviva a qualcosa durante la guerra 15-18, forse. Eppure non tanto tempo fa Report intervistò il presidente, se non sbaglio 300 mila all’anno; il suo solo studio di presidenza misurava 70 metri quadri: «È più grande di casa mia», notò il giornalista. «Lei è messo male», se la rise il presidente. Nel 2012 si parlò di abolirlo. Lo è stato? Attendiamo notizie).

Questo ci fa capire che la riduzione dell’eurozona a un problema monetario non è sufficiente. Ormai anche alcuni eurocrati ed euro-entusiasti si arrischiano a dire che la BCE deve comprare Titoli con denaro che crea dal nulla, aumentando così la massa monetaria: è giusto chiederlo perché, come notavamo in un recente articolo, la BCE ha per statuto di mantenere un target d’inflazione attorno al 2%, e l’ha lasciato cadere allo 0,7 o meno; è dunque inadempiente rispetto ai suoi stessi compiti. La stampa di moneta ci darebbe un po’ di respiro, ma non è la soluzione effettiva. Il problema è che la crisi che tocca i Paesi europei sta nella diversità di condizioni storiche economiche e politiche. Unire sotto una sola moneta Paesi così diversi, in un sistema fisso dove non c’è alcun aggiustamento monetario, significa (per dirla con l’economista Laurent Pinsolle) «ogni punto d’inflazione in meno in un Paese permette di guadagnare competitività ad vitam aeternam».

Prima della moneta unica, gli aggiustamenti si facevano tramite il valore della moneta di ogni Paese. La moneta di un Paese in deficit estero abbassava, e ciò permetteva il riequilibrio del conti. Oggi, gli aggiustamenti si fanno coi salari: ossia calandoli nei Paese cosiddetti meno competitivi. Con una differenza del costo del lavoro da 1 a 10 (sicché il salario romeno costa un decimo di quello, poniamo, francese) è impossibile che non si instauri una zona di depressione permanente nella maggior parte dei Paese, nel quadro di una rincorsa al peggior salario... tranne i soliti privilegiati, che lo stipendione se lo possono difendere. Ossia le consorterie italiane che occupano il settore pubblico, più precisamente le casse pubbliche: quelle che noi contribuenti riempiamo, e che loro svuotano.

Si suol rispondere che questo problema nasce dall’incompleta federalizzazione, dal fatto che s’è fatta l’Europa monetaria prima della Europa politica, e che sarebbe risolto con «più Europa, non meno Europa». Questa lingua di legno nasconde un trucco e un sofisma. Certo che l’Italia soffre della chiusura delle sue consorterie, dell’ignoranza e irresponsabilità dei suoi politici, della corruzione generale delle istituzioni, che risale poi al fatto che non siamo popolo, non concepiamo un destino collettivo e siamo storicamente incapaci di autogoverno. Posto questo, se ci fosse davvero «più Europa», questa Europa dovrebbe mandarci dei commissari europei per governare al posto dei nostri sgovernanti; magari incriminare i nostri politici per le loro plateali illegalità, sostituire l’alta burocrazia con quella tedesca... anzi, tagliamo la testa al toro: imporci di adottare gli ordinamenti vigenti nel Paese «migliore» nell’eurozona: in altre parole, imporci di adottare tutte le leggi vigenti in Germania, e quelle che emetterà il parlamento federale tedesco — come oggi ci impone le direttive sulla curvatura del cetriolo o la quantità . Per noi sarebbe bello, potremmo addirittura fare a meno della nostra Camera e del nostro Governo, risparmiando un sacco: basterebbe qualche ufficio di traduttori dal tedesco. E i loro grand commis ci costerebbero un quinto dei nostri, pessimi e incompetenti. E forse, dei governanti tedeschi prenderebbero a cuore «la grande bellezza» che noi riempiamo di lordura e spazzatura, e per amore dell’Antico farebbero rendere finanziariamente Pompei, produrre attivi nei nostri musei, fertilizzare i centri storici dove si accumulano Grecia, Roma, romanico, barocco in una miscela di inarrivabile armonia; demolirebbero l’orrendo abusivismo costiero, pulirebbero il mare blu che inumidiva gli occhi dei loro letterati e viaggiatori appena toccavano la «terra dove fioriscono i limoni». Così, invece, possono infischiarsene: ed andar in vacanza in Kenia.

E sarebbe tutto più chiaro: chiaro che, come di continuo nella storia, ci facciamo governare dall’estero. Perché oggi, invece, la UE (e la Germania) fanno i furbi: ci governano sì, ma senza assumersi la responsabilità dei risultati. Fanno fare ai nostri politici quel che vogliono lorsignori di Bruxelles, Francoforte, Berlino, persino Lettonia e Finlandia (il 70% del «lavoro» del nostro Parlamento consiste nella ratifica di direttive eurocratiche) , ma facendo finta che esista il nostro Governo, e che sia frutto della superata istituzione chiamata «democrazia».

In questa situazione di irresponsabilità, la Cancelleria ci governa — perché ci governa comunque; ma nel suo proprio interesse: nel suo interesse nazionale (concetto che e a noi continua a sfuggire) e in quello della sua economia: interesse che comprende lo stroncatura della concorrenza italiana, temibile quando c’era la lira. L’Europa ci governa con la leva indiretta, elevando deplorazioni ed ammonizioni e minacce, e imponendo multe... multe che questi ripugnanti politici italiani son ben lieti di accettare, tanto mica le pagano loro; le fanno pagare a noi.

Vengano qui, i Van Qualcosa, e provare a governare loro; a sporcarsi le mani con questo Stato criminale e colluso coi criminali, al punto da mettere le slot machines persino davanti alla scuole, e presto – temo – nelle chiese. Vengano qui loro a tagliare gli stipendi milionari a Befera, a Moretti, al presidente dell’ACI... quella è gente che si difende, che mette i bastoni tra le ruote, che impedisce ogni riforma — per il semplice fatto che sta difendendo la sua incompetenza strapagata: che cosa volete che facciano, gettati «sul mercato»? Ma qui hanno in mano il potere, le sue leve, e quel che è peggio, il potere «legale»: possono sbattere in galera chi dissente, ed è «legale»; possono intercettare telefonate. Possono fare Governi non votati, ed è «legale». Storcere le istituzioni «legalmente». Si aumentano gli stipendi da soli, e lo fanno «per legge», ossia legalmente. Il ladrocinio delle Regioni senza fondo, è prodotto della «riforma del titolo Quinto», quindi è legale, legalissimo: provatevi a cambiarla.

Quello che l’Europa ottiene con la sua governance indiretta, irresponsabile e ideologica è dunque questo: che calano le paghe di chi non ha la forza di difenderle, e crescono quelle delle categorie che hanno i mezzi per presidiarle, minacciando (o attuando) sabotaggi delle cosiddette riforme. E la direzione è sempre quella, inflessibile: «Abbassare i salari francesi del 30%» è per esempio quel che ha proposto Pascal Lamy in una recente intervista. Chi è Pascal Lamy? Un personaggio di enorme importanza nel giro del potere transnazionale. Già presidente del WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio, il cane da guardia dell’anti-protezionismo globalizzatore), è stato commissario europeo – ironia delle cose – «socialista». «So di non essere in armonia con molti compagni socialisti», ha detto, « ma penso che a questo livello di disoccupazione bisogna andare verso più flessibilità, verso lavori che non siano necessariamente il salario minimo (SMIC: attualmente, in Francia è un netto di 7,47 euro l’ora). Un lavoretto è melio di nessun lavoro». Ha aggiunto: «Non l’avrei detto dieci anni fa, ma a questo livello di disoccupazione... bisogna accettare di superare certi spazi simbolici».

Insomma, nessuna idea diversa, «socialista», solo l’adesione totale al deflazionismo alla Bruning. Un «socialista» grand commis globale, deve essere ideologicamente convinto di TINA, che non è una signora ma l’acrostico inglese per There is not alternative. Pensiero unico – e impotenza mentale – allo stadio più limpido. Il fatto è che Hollande potrebbe anche chiamarlo a fare il Ministro dell’economia. Anche lui, avendo già ottenuto dall’eurocrazia una generosa moratoria – negata all’Italia – per abbassare il deficit al 3% fino al 2015, ma essendo lontanissimo dal traguardo, dovrà praticare le terapie ordinate dal pensiero unico: abbassare i salari, snellire quelli dei dipendenti pubblici (che in Francia sono efficienti), tassare di più le pensioni e liberalizzare (privatizzare) i servizi: in un Paese dove i posti di lavoro sono al 70% nei servizi. Se non ci riesce Valls, lo farà Lamy: tanto, sono due socialisti, no?

«I risultati economici della Grecia comprovano che la cura era quella giusta», ha detto intanto Wolfgang Schauble, Ministro delle finanze germanico al Kathimerini. Perché adesso – si vocifera – la Grecia può tornare sui mercati dei capitali ad indebitarsi a lungo termine. I suoi Titoli pubblici di debito a 10 anni sono attualmente al 6%: un buon rendimento, in cui la speculazione si getterà. Quali altre occasioni di ottenere simili rendimenti si trovano oggi, sui «mercati»? È un bel risultato: i greci l’hanno pagato con 6 anni di recessione, un milione di disoccupati in più e oltre un quarto del Pil perduto, ma in compenso possono garantire agli speculatori, dissanguandosi, un 6% tondo. Quindi, i suoi problemi sono risolti, la Grecia è fuori dalla crisi, ha ragione Schauble.

Eppure i banchieri non sono contenti:

Mentre finivo di scrivere, sono raggiunto dalla notizia che un banchiere del Liechtenstein, Juergen Frick, della banca Frinck & Co (evidentemente ne era il padrone) è stato ammazzato: ammazzato a revolverate nel garage sotterraneo come in ogni film di ganster che si rispetti. Nell’angolo più controllato, sicuro e tranquillo d’Europa, l’augusto principato. Il giorno prima era stato trovato morto – insieme a sua moglie e ad una delle sue figlie - Jan Peter Schmittman, ex patron della megabanca olandese ABN Amro; Schimittman guidava il gigante al momento (2007) in cui ABN Amro fu salvata con 100 miliardi di dollari dal consorzio bancario costituito da Royal Bank of Scotland, Santander e Fortis nel 2007. Prima di dare le dimissioni nel 2009, aveva avuto il tempo di vedere Fortis sull’orlo del fallimento e salvata dal Governo olandese. Il banchiere, grazie alla bella liquidazione, s’era messo in proprio; possedeva una società d’investimento e transazioni finanziarie chiamata 2 phase 2, ed ea cofondatore di un’altra, 5 Park Lane BV. Un silenzio di piombo è calato sulla tragedia: non si sa se sia un suicidio con strage compiuta dal suicida, o di un plurimocidio.

Quel che si sa, che sono saliti a 14 i banchieri morti di morte innaturale dal principio dell’anno: 14 in tre mesi, sta diventando un mestiere più pericoloso che quello di contractor per la Blackwater. Il 26 gennaio finisce i suoi giorni un capo della Deutsche Bank, William Broeksmit. poi Mike Duecker ex Federal Reserve e attualmente alla Russell Investments. Il7 febbraio s’è ucciso sparandosi con una pistola sparachiodi Richard Talley, proprio mentre la finanziaria da lui fondata, la American Title Services (Centennial, Colorado) veniva messa sotto inchiesta dall’autorità dello stato. Poi è stata la volta di Tim Dickenson, direttore delle comunicazioni alla Swiss RE AG, James Stuart Jr della National Bank of Commerce, un trader della Vertical Group Edmund Reilly...e un folto gruppo di dirigenti della JP Morgan: Ryan Henry Crane giù dal grattacielo (aveva 37 anni) , Li Junjie (33 anni, cinese, della branca di Hong Kong), Jason Alan Salais (34 anni), Kenneth Bellando (28 anni: da JP Morgan passato a Levy Capital), Josen Giampapa, grosso avvocato della JP Morgan per le cause fallimentari.

Ma perché i banchieri non sono contenti? Perché ci lasciano saltando dalle finestre come nel ’29, tirandosi una pallottola in testa o finendosi con una sparachiodi? Cosa è che li rende infelici, quando il mondo fa di tutti per adempiere ai loro desideri? Sanno qualcosa che noi non sappiamo? (per maggiori informazioni vedere nostre traduzioni qui e qui)




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