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Dio è persona (perciò lo insultiamo)
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Devo una risposta al lettore «Ravebirch», che il 27 maggio ha postato:

«Per quanto mi riguarda, il testo citato dei Pink Floyd è assolutamente veritiero, infatti esiste un dio che si ciba di sangue e di anime, tanto che i suoi adepti fanno lo stesso non solo in suo onore ma anche per loro stessi».

Il testo dei Pink Floyd, lo ricordo, era una parodia feroce del salmo 2:

Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla. Mi fa riposare su pascoli verdi. Mi conduce presso acque tranquille; con coltelli luccicanti libera la mia anima. Mi fa stare appeso su ganci in luoghi alti. Mi converte in cotolette di agnello. Poiché egli ha grande potere e tanta fame. Quando verrà il giorno che noi sottomessi attraverso una calma riflessione e grande dedizione saremo maestri nellarte del karate, ci ribelleremo e allora faremo piangere gli occhi del bastardo’.

La prima osservazione che m’è saltata in mente è: ecco, da quando ci hanno detto che Dio è «persona», anzi da quando sappiamo che Dio s’è fatto uomo ed ha camminato tra noi, ci autorizziamo a insultarLo e a chiederGli ragione dei nostri mali. Esttamente come faremmo col vicino di casa perchè il suo cane ha sporcato il pianerottolo.

Questo atteggiamento di rivolta e di odio contro Dio, infatti, è cresciuto solo in ambiente cristiano, come effetto collaterale del cristianesimo (dove Dio è «tre persone»). E non è nuovo nè originale, caro lettore Ravebirch: anzi è un momento adolescenziale in cui siamo passati tutti. Nella forma più letteraria, è apparsa nel Romanticismo, fase adolescenziale per eccellenza: nel Paradiso Perduto di Milton, Satana è la figura di questo adolescente che si leva contro il suo creatore, e se ne sente giustificato dal dolore che gli è stato inflitto. Dio è indegno perchè fa soffrire.

«Il Satana di Milton», scriverà Herman Melville, «è moralmente molto superiore a Dio in quanto colui che persevera nonostante l’avversità e la sciagura è superiore a colui che, nella fredda sicurezza di un trionfo certo, esercita la più orribile vendetta sui suoi nemici».

Da quel momento Satana perde le corna e lo zoccolo medievale e diventa adolescente; il «giovane triste e affascinante» di De Vigny, «bello d’una bellezza che ignora la terra» di Lermontov.

Camus – che di questo atteggiamento ha compiuto un’analisi insuperabile in «L’uomo in Rivolta» (L’homme rèvolté) – cita ampiamente Ivan Karamazov, la figura più radicale del ribelle-contro-Dio, dipinta nel romanzo di Dostojevsky. Ivan decreta che la «condanna a morte che pesa sugli uomini è ingiusta». Non nega l’esistenza di Dio, ma la rifiuta in nome di un valore morale. Ivan Karamazov vuol vendicare «le lacrime dei bambini» che soffrono innocenti, fino al punto di rifiutare lui stesso la salvezza offerta da Dio. Si mette, dannandosi, dalla parte degli innocenti; giudica Dio in nome di un principio ‘più alto’, la giustizia: se il male è necessario alla creazione divina, la creazione è inaccettabile. Anzi la verità stessa è inaccettabile, non vale il prezzo delle «lacrime dei bambini».

Giustamente Camus nota che qui «comincia l’attacco al cristianesimo» della nostra modernità: la volontà di sostituire al misterioso regno della grazia quello della giustizia. Ivan Karamazov non nega la verità; dice che se esiste, è ingiusta e va rifiutata.

«E’ aperta qui per la prima volta», dice Camus, «la lotta della giustizia contro la verità; essa non cesserà pù».

Difatti, questo atteggiamento porta diritto al comunismo «reale», all’instaurazione forzata della giustizia nell’aldiquà; o «una cospirazione politica che vuol fare, della giustizia, la verità». Coi Gulag.

Altri filoni della rivolta porteranno, per altre vie, allo stesso esito: l’omicidio di massa.

«L’assassinio non toglie altro che la prima vita all’individuo che colpiamo; bisognerebbe togliergli la seconda», si arrovella il marchese di Sade; e sogna di distruggere la natura, la creazione stessa: «Odio la natura...Vorrei sconvolgerne i piani, fermare la rotta degli astri, distruggere ciò che la serve, proteggere ciò che le nuoce, insultarla insomma nelle sue opere»... Sogna di «attaccare il sole, privarne l’universo... questo sì che sarebbe un delitto».

Come vede il lettore, altri sono già andati ben più lontano nella sua ribellione al «dio che si ciba di sangue e di anime», che non può essere «buono» perchè, essendo onnipotente, «fa soffrire gli innocenti». E’ un atteggiamento narcisistico di cui ci si compiace; facendo danno solo a se stessi. Una soddisfazione passeggera, al prezzo della propria perdita eterna.

Nel cristianesimo antico e medievale non mi pare che si trovino simili atteggiamenti, un simile chiamare Dio a «rendere conto». Come mai? Forse per la stessa ragione per cui allora esisteva un forte culto popolare di San Michele arcangelo, oggi dimenticato: si sapeva distinguere fra la «persona» metafisica e «l’individuo» empirico.

Oggi, quando sentiamo parlare delle «tre persone» divine, specialmente per il fatto che una delle tre Persone ha vissuto, s’è commossa, ha patito nell’orto degli olivi il contrasto fra la volontà sua umana e quella del Padre, troppo facilmente pensiamo di avere a che fare con un «individuo», ossia con uno con una psicologia, delle preferenze e delle avversioni, con le nostre stesse pulsioni, il nostro istinto di sopravvivenza e così via. Poichè come cristiani (almeno di cultura) ci concentriamo sulle «tre persone», mettiamo tra parentesi che esse sono «un solo Dio». E questo Dio non è affatto un «individuo»  più potente di noi. Non è solo l’autore dell’ordine del mondo, è l’Ordine stesso del mondo di qua e di là. In questo senso Gesù ha detto che Dio è «perfetto», in quanto «fa piovere sui giusti e sugli ingiusti». Noi, al suo posto (!) faremmo piovere solo sugli ingiusti, e splendere il sole solo sui giusti. Già questo ci dovrebbe dire che non abbiamo a che fare con un individuo, ancorchè con una Persona.

Qui, possono aiutarci a intuire l’Islam e anche il Vedanta induista: Dio è Uno, anzi l’Unità stessa. La teologia scolastica diceva la stessa cosa – «Esse et unum convertuntur» – ma oggi questa intellettualità metafisica è quasi perduta, e non capiamo più questa equivalenza: l’Essere è solo Uno, e non può essere che Uno.

Non si tratta di unità in senso matematico, dell’inizio di una serie numerica. E’ un equivoco in cui incorriamo noi, che viviamo nel regno della molteplicità; per questo San Tommaso invita continuamente a guardare alle espressioni con cui cerchiamo di descrivere Dio come analogie e metafore, per giunta molto manchevoli. Fra l’Uno e il numero uno c’è «analogia, non identità».

E’ per alludere a questa imprendibile unità che il tawhid – il primo atto di fede musulmano, che per i semplici fedeli è «l’affermazione dell’unicità di  Dio» – non viene espresso con un’affermazione, ma con una doppia negazione. Se il tawhid fosse quel che credono i musulmani semplici, direbbero: «C’è un solo  Dio». Invece dicono: «NON c’è altro Dio se NON Dio». Una doppia negazione è il solo modo di proclamare la fede nel Dio che è al di là del sì e del no.

Quell’Uno supremo sta al di là del dominio dove le cose possono essere contate; il regno dove le cose possono essere contate è il regno soggetto a limiti di spazio e di tempo: io «non sono» te, e per questo siamo in due. Dio invece è Uno: significa che è assolutamente semplice in sè (non-composto); che, fra l’altro, in lui non c’è frattura nè iato fra «pensare»  e realizzare; e che nulla, assolutamente nulla lo limita. Significa che non c’è alcun «altro» da Lui. Che l’intera creazione o manifestazione universale è rigorosamente nulla di fronte a Lui.

Nelle Upanishad, Esso è detto appunto «adwaita», senza dualità, e che la manifestazione (che noi chiamiamo creazione) è illusoria. Attenzione: per le Upanishad, ciò vuol dire che la «realtà» che noi conosciamo ha sì una realtà, ma una realtà minore. Simile all’immagine in uno specchio: è reale, ma la sua realtà dipende dall’oggetto che vi si specchia.

Nell’aldiquà della molteplicità, noi ci rivolgiamo a un altro individuo col «tu», appunto perchè siamo separati da lui; egli ci è oscuro, vediamo che le sue azioni non sono le nostre, che la sua volontà è distinta dalla nostra; che per lo più ci è di ostacolo. Ci rivolgiamo anche a Dio con il Tu, perchè è altro da noi. Ma per Dio, noi non siamo un «tu»: non siamo un limite, non c’è nulla in noi che a Lui sia opaco ed oscuro. Egli ci conosce infinitamente meglio di quanto conosciamo noi stessi. Egli ci è «dentro», per così dire, più di quanto noi stessi siamo padroni di noi (lo siamo pochissimo: non possiamo fare nero un solo capello nostro). Per questo Sant’Agostino dice che Egli è «intimior intimo meo», e l’Islam, con selvaggia metafora da pastori, che Egli «ti è più vicino che la tua vena giugulare».

Quando si dice che Dio è persona, bisogna anche guardarsi dal credere che che come noi «pensi» discorsivamente. Egli non è intelligente, è l’Intelligenza. Non c’è nulla in Lui che sia non-epresso, bisognoso di svolgimento. Per questo Aristotile lo chiama «Atto puro»: tutto in Lui è «attuato» senza nulla di potenziale.

Quando diciamo che ha creato il mondo, non dobbiamo pensare che abbia fabbricato questa natura incredibilmente complessa e funzionale in ogni sua creatura come un ingegnoso ingegnere, analiticamente. L’ha creata con un atto immediato, e un atto d’Amore. E’ l’Amore che ha fatto il cervo e il fiore di mimosa, il vello della pecora e i nostri capelli, ciascun follicolo e ciascuna ghiandola sebacea di quel singolo pelo o capello: l’ha fatto con intelligenza suprema, ma questa intelligenza è suprema appunto perchè è Amore, amore divino.

Questo viene espresso umanamente con la metafora della Luce, perchè nel nostro mondo la luce illumina di colpo le cose.

«Era la luce vera che illumina ogni uomo, quella che venne nel mondo», dice  Giovanni evangelista di Gesù, il Verbo fatto carne. «Lumen de lumine», canta la Chiesa del Padre e del Figlio. Il Corano (24, 35): «Allah è  Luce in cielo e in terra! (...) Luce su luce! Allah guida verso la Sua Luce coloro ai quali vuole bene». E Luce, «al-Nur», è uno dei 99 nomi di Dio.

Smetto qui perchè è vano, ed anche imbarazzante parlare di tanto Uno intellettualisticamente. Di Dio capisce veramente qualcosa (anche se poco) non chi Lo pensa, ma chi «agisce» come Lui vuole, diventando un solo cuore col suo Cuore. Così è abusivo quel che faccio, parlare di Dio senza essere santo. A rigore, hanno il diritto di parlarne solo i santi, padre Pio, Madre Teresa... E lo fanno. La frase di madre Teresa: «Amate fino a farvi male; se non fa male, che amore è?», rivela più di mille tomi di teologi in che senso Dio è persona: è una libera e perenne volontà di amore.

Qui può essere di aiuto (non dispiaccia i lettori) l’atteggiamento del buddismo, dove ciò che noi chiamiamo «Dio» è radicalmente impersonale. Quando il viaggiatore e saggista Marcos Pallis chiese a monaci tibetani: «Ma esiste la grazia, nel buddhismo?» (dato che non c’è un dio personale, gli sembrava impossibile), dovette prima spiegare agli interdetti monaci che cosa intendeva per grazia. Poi gli risposero: non è «grazia» che tu sia nato nello stato di uomo, così difficile da ottenere, e il solo da cui si possa raggiungere il nirvana? Non è grazia che uno sia nato in un Paese buddhista, dove dunque può apprendere il metodo della liberazione? Grazia è che Buddha abbia trovato la via, e che l’abbia insegnata.

Insomma: fatti oggettivi, non un misterioso influsso dal cielo. Ti è stato dato tutto ciò che ti occorre. Non hai scuse; sforzati di entrare nel nirvana.

Chi, essendo nato in ambiente cristiano, dove gli hanno detto di un dio soccorritore e buono, si prende il gusto di accusarlo dei dolori che subisce – o addirittura di essere un agnello nelle mani del Macellaio – non fa che danneggiare se stesso. Il soccorso di Dio è presente, oggettivamente: gli è dato tutto ciò che occorre, e lui sta cercando solo scuse. Hai Cristo che è morto per noi, hai la sua Presenza reale. Egli che da ricco che era, si è fatto povero per noi.

E’ veramente ottusa questa idea di Dio-persona come il boss del quartiere, che ci angaria: l’idea che sia uno come noi, solo più grosso e potente.

La verità – adombrata nella frase di madre Teresa – e ben altra: Egli ci chiede di rinunciare a ciò a cui Lui rinuncia per primo. Lui per primo ci ama «fino a farsi male». Non è un ricco sovrano che ci ha promesso qualche moneta d’oro della sua ricchezza, ma il Sovrano che abbandona il suo trono perchè noi  possiamo salirci (in questo senso, credo, nel buddhismo si ha l’esperienza del Nirvana come «vuoto»: il trono è vuoto). Egli si dà senza residui, senza tenere nulla per sè, nemmeno la divinità. Egli, non so se posso osare dirlo, è il Povero per eccellenza.

Di qui la carità che esercitano i santi, che è solo – a loro giudizio – una pallida immagine della carità divina.

La preghiera assoluta di San Francesco consisteva nel misurare, commosso e sgomento, tale distanza: «Chi sei Tu, e chi sono io...!». I santi, quando raggiungono la perfezione, esausti di dedizione, dolori e sofferenze, e di azione, scoprono e dicono che «loro» non hanno fatto nulla, ma Dio ha fatto tutto in loro. Descrivono la loro azione come puramente negativa: hanno sradicato le erbacce, ma è Lui che sul terreno ripulito ha fatto nascere la vite coi frutti. L’uomo non ha fatto che togliere la polvere dallo specchio della sua anima, in modo che la divinità ne venisse rispecchiata.

Insomma, noi possiamo diventare Dio, ed è per la Sua volontà che siamo Lui. Ma non nel senso dell’antico serpente che promise ad Adamo ed Eva «voi sarete come dèi», ossia i boss del quartiere più grossi. Al contrario: sarete il Povero nella sua maestà, l’Amore.
La sofferenza è il prezzo, perchè si soffre a spogliarsi dell’io, a dire «sì»; ma come cristiani, sappiamo che Lui ha sofferto per noi, e forse (magari è un’eresia) perennemente soffre il suo spogliamento.
Vedo in un testo musulmano sufi che si fa distinzione fra le opere «super-erogatorie», in cui per definizione interviene ancora la volontà della creatura, e uno stato superiore, che si giunge (stranamente) compiendo le azioni «obbligatorie». Perchè allora la creatura manifesta la sua «radicale indigenza ontologica», si fa assolutamente schiavo, e con ciò, Dio.

Al giovane che già compie atti buoni, Gesù dice: «Se vuoi essere perfetto, vendi tutto ciò che hai, e dallo ai poveri; poi vieni e seguimi». E’ l’invito alla libertà assoluta dell’amore, e all’assoluta schiavitù. «Non sono più io che vivo, ma Dio che vive in me», come disse San Paolo. E’ la condizione di Maria che «non fa nulla», mentre sua sorella Marta si dà da fare per l’ospite Cristo: Maria, nella sua indigenza ontologica, fa «la sola cosa necessaria».

In qualche modo dovrebbe consolarci il fatto che il momento della indigenza ontologica viene per tutti, anche per noi che siamo così lontani dalla perfezione. Nel momento dell’agonia, ciascuno constata che è solo, nessuno lo aiuta; che sta perdendo proprio corpo, che non può muovere un dito, che non è padrone di nulla, che la propria mente e intelligenza umana lo lascia. Allora, potrà sentirsi come un agnello appeso al gancio del macellaio, pieno di rabbia, e non farà che danno a se stesso; oppure – poichè quando la mente si ottenebra, resta pur sempre ciò che tutte le tradizioni chiamano «il cuore» – potrà ancora dire: Grazie.

Sì, sia fatta la Tua volontà. Ossia «Fiat». E sarà la Luce.

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