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Tagli alle paghe private. E le pubbliche?
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Con un sms, un amico mi annuncia che tarderà al nostro appuntamento: «Sono trattenuto in ditta, ci stanno proponendo un taglio degli stipendi». Avviene dovunque. A Milano, tremila fra medici, infermieri ed ausiliari del centro ospedaliero San Raffaele, hanno accettato tagli salariali del 9-10%: in assemblea sindacale, con voto che la stampa definisce «plebiscitario». Con ciò, hanno scongiurato, temporaneamente, i licenziamenti di 240 di loro.

Accade dovunque, accade in silenzio, ed accadrà sempre più spesso: sotto la stretta della crisi che devasta la domanda, del credito bloccato, di una moneta strangolatrice della competitività, delle insolvenze e delle tassazioni distruttive, i lavoratori del privato – i veri produttori della ricchezza nazionale – stanno accettando tagli alle paghe, e non solo. Un conoscente mi dice che sull’auto aziendale (viaggia molto per lavoro) da qualche mese si paga lui il carburante e i tagliandi, come gli ha chiesto l’azienda. Un altro, che in ditta hanno accettato prolungamenti d’orario senza pagamento degli straordinari. Senza agitazioni sindacali, d’accordo con la proprietà, migliaia di veri produttori del privato gettano a mare le antiche «conquiste del lavoro», danno ai «diritti acquisiti», imboccano la via della diminuzione storica dei salari – ovvia conseguenza della globalizzazione che li mette in concorrenza coi lavoratori polacchi, cinesi, messicani – e accettano le dure leggi della realtà globale (creataci dai nostri politici). Si tagliano le paghe perché l’azienda possa tirare avanti ancora per qualche tempo, senza alcuna certezza che il sacrificio basti: in pratica, sono loro – e non le banche – a finanziare l’impresa, prendendosene i rischi. Si tolgono i soldi di tasca per solidarietà, per evitare i licenziamenti degli altri colleghi.

In questa situazione, diventa più sempre più vistoso il divario con i pubblici dipendenti, più scandalosa la diversità di situazioni fra chi i soldi allo Stato «li dà», e chi i soldi dallo Stato «li prende». Là, gli stipendi, già generalmente superiori del 15% a quelli privati, non vengono intaccati. Nemmeno se ne parla. Il posto continua ad essere più che sicuro. Gli aumenti, automatici, come spesso le carriere. E la «mobilitazione sindacale» non s’interrompe: al minimo accenno, scioperano, scendono in piazza, fanno mancare treni e mezzi pubblici ai produttori che sgobbano per loro. Difendono con i denti i loro «diritti acquisiti», li sentono intoccabili, e se li fanno confermare dai sindacati e dai politici, che lavorano per loro e loro soli: infatti rispondono alla crisi sempre e soltanto con l’aumento della pressione fiscale, ossia per mantenere gli stipendi pubblici, i benefit «conquistati», e le corruzioni pubbliche grasse, e gli assenteismi pagati e impuniti.

È gente che si diverte: in Emilia, qualche settimana fa una vigilessa ha finto il proprio matrimonio – postando le foto della cerimonia sulla sua pagina Facebook – per ottenere periodo di congedo matrimoniale, le serviva per andare in vacanza lunga. Un ragazzino delle medie, cui mi capita di fare un po’ di doposcuola, non fa che dirmi di aver passato la mattina in altre classi (dove sono sparsi anche i suoi compagni) perché l’insegnante di italiano, di matematica, di tecnica, di geografia, «non è venuta» . Succede ogni settimana, in una scuola della periferia milanese. E da quel che indovino, non è che quando si degnano di esser presenti, insegnino qualcosa: «Fate la ricerca su internet», e via. Poi, tanto, loro imbeccano gli scolari prima dei test Invalsi, in modo da nascondere quanto siano pessimi insegnanti. Gli scolari e le famiglie sono grati del trucco.

L’irresponsabilità verso il bene comune – già ben nota – brilla ancor più sinistramente di fronte ai volontari sacrifici dei lavoratori privati. La magistrata che rimanda la vostra causa a nove mesi più tardi, e vi fa aspettare al palazzo di giustizia, dove vi ha convocato alle 9, fino alle 12.30, e poi vi dice: «Me spiace ma devo annà a prende er pupo», e vi rimanda l’udienza di altri nove mesi (accade a Roma, cause civili e matrimoniali), percepisce (stavo per scrivere «guadagna», figuratevi) almeno tra 5 e 7mila euro mensili. Abbastanza per pagare una baby sitter per «er pupo», ma no: paghino i convenuti, lei se ne va. La competizione globale non li riguarda, loro. La dura realtà, non li tange; si possono permettere di ignorarla. Il fatto che gli italiani che gli pagano gli emolumenti, siano costretti a tagliare i propri salari, non li commuove né li fa sentire solidali.

Del resto, è la loro filosofia: considerano loro compito e dovere non il servizio alla popolazione produttiva, bensì il «controllo» su di essa, l’esercizio del sospetto, la punizione e il sequestro. La magistratura come corpo (eccezioni individuali a parte), è la quintessenza di questa mentalità: se accade il terremoto in Emilia e crollano i capannoni, incrimina i datori di lavoro. Blocca un contratto da 500 milioni per la fornitura di elicotteri con l’India, con accuse di tangenti non provate. Pratica ampiamente la carcerazione preveniva, con particolare piacere di privare della libertà degli innocenti, e buttare nell’angoscia e sciagura le loro famiglie, se questi sono dirigenti essenziali: gli inutili esercitano il sequestro di persone utili. Bloccano un’acciaieria che dà lavoro a 18 mila operai, arrestano i padroni, vietano loro di vendere la merce già prodotta. Il loro «tipo esemplare» è quell’Ingroia che si mette in aspettativa per lanciarsi «in politica», e siccome viene sonoramente trombato, pretende di tornare a fare il magistrato di parte e dove vuole lui, in Sicilia. Quando viene trasferito ad Aosta, parla di intento persecutorio, ma mica si dimette: prende possesso dell’ufficio, e si mette in ferie (pagate da noi).

Similmente gli agenti pubblici del fisco: si considerano nemici fra un popolo ostile da sfruttare e spogliare. Non parliamo dei privilegiati di Regioni malavitose da capo a fondo, dei grandi comuni meridionali, delle provincie. Tutti insieme, sono i colpevoli dei mancati pagamenti per 90 miliardi ai fornitori privati; ed ora, tutti insieme si adoperano, ponendo mille ostacoli burocratici, per impedire che questi debiti arretrati vengano anche in minima parte pagati: scherziamo? Servono per i loro stipendi!

Una riduzione del 15% dei grassi stipendi pubblici sopra i 3000 euro, non farebbe loro che del bene. Contribuirebbe a renderli cittadini. Contribuirebbe a far sentire queste caste solidali con le fortune e le disgrazie del popolo italiano che sgobba per mantenerli, e sta soccombendo sotto il loro peso. In cinque anni di crisi, la crisi peggiore della nostra storia, l’Italia ha perso 300 miliardi di ricchezza: s’intende, l’Italia dei produttori, perché la ricchezza dei parassiti pubblici non è stata intaccata. La spesa pubblica è rimasta sugli 800 miliardi di prima. Farli partecipare a questa caduta dell’avere comune, sarebbe solo un atto di giustizia elementare. E di educativa responsabilità.

Ma ovviamente non avverrà. I politici stessi, che i loro emolumenti non se li sono calati, né hanno tagliato i truffaldini «rimborsi elettorali», sono di fatto i rappresentanti delle caste pubbliche parassitiche, inadempienti e incompetenti. I loro argomenti per non auto-ridursi nemmeno un soldo sono ben noti: «Non sarà certo coi tagli ai parlamentari che si colma il debito pubblico». Faccio notare che i 3 mila dipendenti del San Raffaele, accettando i tagli del 9-10%, fanno risparmiare all’azienda solo 9,2 milioni di euro: briciole, rispetto ai 900 milioni di buco lasciati dall’euforico demente don Verzé. Ma mica hanno detto, loro nel privato, che «non si salva l’ospedale così, ci vuol ben altro». Hanno imboccato la strada dei sacrifici. Mentre il governo, negli stessi giorni, aumenta l’Iva per garantire intatti gli stipendi del settore pubblico e dei suoi famelici occupanti e privilegiati.

Perché le leggi fiscali, cosa credete, mica le pensano Letta o Saccomanni: se le fanno scrivere da Equitalia, dai «grand commis» a 600 mila l’anno. E quelli hanno una sola soluzione facile: aggravare le tasse. Sono così stupidi, avidi e ciechi, e incompetenti nel loro mestiere di economisti pubblici, da ignorare la legge di Laffer: quella che dice che c’è un punto, in cui un ulteriore aggravio del carico fiscale, invece di aumentare il gettito, lo fa scendere.

Anzi, questo è già avvenuto: già l’aumento dell’Iva dal 20 al 21%, introdotto dal settembre 2011, ha provocato una sensibile riduzione del gettito della imposta medesima.

Come mostra questa tabella del ministero delle finanze:



Continuare a fare gli stessi errori ed aspettarsi risultati differenti: ecco la definizione stessa dell’idiozia. Volere certe azioni ma non le conseguenze delle azioni, ne è un’altra. Le caste pubbliche che ci sgovernano soddisfano proverbialmente entrambe le definizioni.

Le autoriduzioni dei salari che avvengono sempre più spesso nel settore privato, unite ai licenziamenti sempre più fitti, ridurranno ancor più i consumi, e dunque il gettito dell’imposta sui consumi. Non è difficile da prevedere, tanto più che la produzione industriale crolla a ritmo accelerato: quasi -1% da un mese all’altro, febbraio-marzo.

Gli stipendi dei pubblici dipendenti cadranno, finalmente: ma solo quando col loro peso di obesi odiosi, avranno spezzato la schiena dell’asino che li porta. Per adesso, pensano di poter fregarsene di Laffer e della sua curva, credono di poterla comandare come comandano su di noi, «per legge»; e di poterla sfidare stringendo la torchia sui loro nemici.

La loro incompetenza e idiozia sarà finalmente visibile a tutti: peccato che il prezzo sia la morte dell’asino. Cioè di tutti noi.

 

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