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Non perdere di vista i Fini. Quelli veri
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Bersani: «Opposizione unita contro deriva. Patto repubblicano anche con Fini». Entusiasta Di Pietro: «Quello che propone Bersani è la stessa cosa che penso io». S’intende, la profferta a Fini di entrare nel fronte delle sinistre è stata respinta sdegnosamente dai finiani: «Provocazione». Ma Rutelli: «Costruiremo il terzo polo con Casini e Gianfranco. Senza fretta».

Per quanto goffa e ridicola e poi rimangiata la proposta di Bersani non è solo una prova di disperazione di una sinistra che non ha leader e li cerca fuori, dovunque. E’ un’agnizione. L’appartenenza dei finiani al blocco sociale che la sinistra rappresenta: i parassiti pubblici, le burocrazie statali (o regionali) inadempienti, o più in generale «quelli che i soldi allo Stato li prendono». Contro «quelli che i soldi allo Stato li danno», tartassati produttori e contribuenti. I primi sono molto meglio rappresentati dei secondi, ed hanno una visione dei loro interessi più chiara, e più decisione a difenderli.

Ma andiamo per ordine. Siccome nei prossimi mesi la «politica» sarà solo confusione e oscuramento del problema fondamentale, mi provo qui a ricordare qual
è.

LA GLOBALIZZAZIONE CI STA DEVASTANDO – Se vostro figlio non trova lavoro che a 600 euro mensili, il motivo vi sia chiaro in mente. La finanza anglo-americana ha voluto il libero mercato globale di merci, uomini e capitali; e per di più, ha consentito alla Cina di entrare in tale mercato, contro gli stessi dogmi del liberismo (la Cina doveva esserne esclusa finchè non lasciasse oscillare la sua moneta secondo la legge della domanda-offerta; lo yuan si sarebbe rivalutato, rendendo più equilibrata la competitività cinese). Hanno lasciato entrare la Cina con una moneta il cui cambio è imposto dallo Stato dittatoriale, e ovviamente, tenuto basso d’imperio.

Da quel momento, i salari italiani, anzi europei e americani – insomma di tutto l’Occidente – sono stati messi in concorrenza coi salari cinesi. L’operaio tessile italiano che prendeva 1,7 milioni di lire mensili (allora un buon salario), è stato messo in concorrenza col tessile cinese, che prende (o prendeva) 100 dollari al mese.

Il risultato è che non ci sono più posti di lavoro per operai tessili in Italia, nè nell’Occidente in genere. Sono andati in Cina o in India, e non da soli; insieme a miriadi di altri lavori industriali, anche qualificati. E’ stata – ed è ormai da un ventennio – un’emorragia non solo di salari e potere d’acquisto, non solo di stabilità e dignità del lavoro, ma di competenze tecniche, di «sapere come si fa» (know-how) per una quantità spaventosa di produzioni. Non solo non facciamo più TV e telefonini, software e hardware, elettronica, chimica fine, alta cultura, scienza avanzata, eccetera: è che non li sappiamo più fare.

Migliaia dei migliori giovani italiani vanno ogni anno all’estero, in Europa o in USA, perchè qui non ci sono posti per la loro qualificazione, troppo alta per l’Italia. Il Paese sembra richiedere insaziabilmente veline, manovali di colore e badanti immigrate, molto meno di ingegneri, chimici, matematici ed esperti di macchine utensili computerizzate.

E’ questo il motivo di fondo dello scarsissimo gusto per la lettura, del semplicismo e della vacuità  in cui affonda la società italiana, giovanile in particolare: si sente, oscuramente, che studiare è inutile. Da scuole e università che non hanno più lo scopo di creare e selezionare competenze e professionalità, emergono le figure nuove dei laureati semi-analfabeti, presuntuosi però e convinti di aver già imparato anhe troppo.

E’ un fenomeno storico che si chiama degrado della civiltà. Storico, perchè durerà qualche decennio; decenni in cui le generazioni si adatteranno a paghe da sussistenza per lavoretti vacui e precari, perdendo con ciò a poco a poco anche la nozione di ogni «saper fare» sofisticato, di organizzazioni sociali e produttive complesse, e perdendo ogni residua ambizione a migliorarsi, a imparare, ad affrontare i problemi in modo professionale e con rigore logico.

Il calo storico dei salari durerà fino a quando i salari cinesi, che salgono, incontreranno i nostri, che scendono. A quel punto ridiverremo competitivi. Ma solo in teoria: perchè a quel punto non avremo più le competenze per concorrere, mentre l’Asia si sarà arricchita dele competenze che abbiamo perduto, ed anche di molte di più. Già oggi tutti i microchip vengono non solo fabbriccati, ma progettati e concepiti nella sola Taiwan, dove università e industrie avanzate sono un tutt’uno. Quindi continueremo a importare i gadget di cui siamo ghiotti, come selvaggi, dall’Asia, perchè noi non li sappiamo più fare. Fino a quando la perdita del potere d’acquisto, catastrofica come in ogni arretramento di civiltà, ce lo consentirà.

LA CLASSE POLITICA NON HA CONTRASTATO IL FENOMENO – L’esito della globalizzazione sopra descritto era facilmente prevedibile. Ma la classe politica, di «destra» o di «sinistra» senza distinzione, non ha  mosso una sola obiezione nelle sedi sovrannazionali dove la globalizzazione si stava decidendo. Anzi, ha adottato l’ideologia liberista terminale, «destra» o «sinistra» che fosse, smantellando blocchi di industrie nazionali con le privatizzazioni e la svendita dei gioielli; ha lasciato alla finanza predatrice tutto lo spazio che ha voluto; mentre badava a raccomandare al popolo e ai giovani «flessibilità» (precarietà), «moderazione salariale», «riforme previdenziali» (tagli sociali) per diventare «più competitivi». Naturalmente era impossibile diventare più competitivi di cinesi che si contentano di 100 dollari al mese.

Egualmente insensato e in malafede era l’invito ad apprendere i nuovi mestieri altamente sofisticati che ci avrebbero permesso di giustificare i salari più alti occidentali: apprenderli dove, in quelle università affollate di cattedratici incompetenti perchè estranei alla produzione, in una società che del resto perdeva le produzioni a cui le università dovevano agganciarsi? In quelle università dove si davano lauree in «scienze della cura degli animali da compagnia»?

Il rabbioso disprezzo verso la classe politica che manifesta l’elettorato ha questo motivo profondo, radicale: per quanto confusamente (la confusione è conseguenza dell’incultura neo-incivile), si sente che questa classe non ha adempiuto al suo compito storico, ha tradito il suo popolo, l’ha consegnato senza difese al mondo globalizzato. Il rabbioso disprezzo è la forma primordiale, de-civilizzata, che assume la perdita profonda di legittimità dei «governi».

LA CLASSE POLITICA S’È MESSA AL RIPARO DALLA CATASTROFE – Ma mentre lasciava il popolo italiano esposto alla grandine globale, la classe dei politici s’è messa per tempo al riparo. Poichè non possiamo sostituirli con deputati cinesi, i nostri parlamentari che si sono dati stipendi da 15 mila euro, pensioni dopo 5 anni cumulabili, buonuscite milionarie se non più votati, ne sono un esempio plateale.

In un Paese dove le paghe private sono sotto i mille euro perchè bisogna essere «competitivi», si sono messi al riparo occupando, e facendo occupare dai loro compari, poltrone in consigli d’amministrazione pubblici (ma pseudo-privatizzati per sfuggire ai controlli statali) dove come minimo sono assicurati 50 mila euro, proprio per i più scalcagnati.

Altro esempio: gli stipendi della magistratura, «tallone aureo» degli stipendi dei politici, e che per questo aumentano mentre l’amministrazione della giustizia diventa sempre più persecutoria e contemporaneamente inefficace: il che è logico in una casta oligarchica che si sente separata per destino dai poveri italiani qualunque, e impunibile per legge.

In un Paese che s’impoverisce ogni giorno di più, si sono moltiplicati la flotta degli aerei di Stato, si sono forniti di guadagni extra da malversazioni impunibili, moltiplicando i centri di spesa (specie in regioni e provincie, meno controllabili dall’opinione pubblica peraltro distratta); il loro potere è aumentato in misura più che proporzionale alla loro irresponsabilità.

Il solo vero mestiere che rende ricchi, oggi, è «la politica» in tutte le sue forme, compresa la dirigenza statale o regionale. I soli mestieri stabili, ben pagati e che non richiedano competenze effettive, sono lì. I giudici della Corte Costituzionale non sono certo minacciati dalla concorrenza cinese o indiana. Solo un terzo del reddito annuo di Carlo Azeglio Ciampi (780 mila euro di denaro pubblico) basterebbe a mantenere un centro di ricerca avanzato, o pagare una ventina di ricercatori; senza che Ciampi, rimasto con 500 mila, rischi di soffrire la fame, povero vecchio padre della patria e del compasso.

L’enormità di quelle ricchezze pubbliche viene di rado sotto l’occhio della cosienza pubblica: solo adesso si apprende che Fini, per la sua sedizione interna al Pdl, potrà disporre del 25% dei contributi elettorali del Pdl, e del «tesoretto di AN» tenuto in caldo. Tale tesoretto, da solo, ammonterebbe a 500 milioni di euro, mille miliardi di vecchie lire. Come e dove è stato accumulato?

Di una sola cosa siamo certi: sono soldi sottratti ai contribuenti. Contribuenti che, loro, diventano sempre più miseri e sono tassati sempre di più, specie se sono nel settore privato.

E’ una vera oligarchia: i miliardari di Stato, per i quali gli emolumenti sono il fine, non più il mezzo. E lo diventano tanto più, per ciascuno di loro, quanto la popolazione generale s’immiserisce e fatica oppressa dalla tassazione e dalla concorrenza globale: tutto sono disposti a fare, pur di non cadere nell’inferno dei «qualunque» senza prospettive oltre i mille euro al mese. La de-ideologizzazione della «politica» viene di qui, come l’eternizzazione di personaggi politici anche senza voti: per loro, si trova sempre un qualche «incarico» a 140 mila annui.

LA CLASSE POLITICA MANTIENE IL SUO ELETTORATO
– Intere regioni e strati sociali italiani si sono messi al servizio di questa classe perchè vi trova la sola datrice di «posti», di pensioni, magari false e minime, ma in ogni caso meno peggiore dell’inferno che vivono le regioni e gli strati sociali esposti alla concorrenza globale. Un posticino da impiegato comunale, da terza insegnante in classe, da netturbino è pur sempre più sicuro che quello di un ingegnere specializzato in apparecchi elettromedicali impiegato nel privato. La ditta pubblica non fallisce, e non possiamo importare netturbini e impiegati comunali cinesi.

Anche questa classe di piccoli assistiti è al riparo dalla concorrenza, e quindi – nonostante l’enorme disparità di emolumenti – sente il suo piccolo destino concorde e congiunto con quello dei grandi oligarchi.

E’ lo stesso rapporto che in altri tempi poteva unire il latifondista ai braccianti: il signore «ci dà lavoro», al signore si fanno suppliche, si chiedono raccomandazioni, e a volte si degna di trovare un posto al figlio... E’ un rapporto pre-civile, come si capisce. Arcaico e iniquamente retrogrado. Le oligarchie sfondate lo adottano senza vergogna: difatti, i piccoli dipendenti pubblici hanno avuto aumenti di salario costanti e sicuri, del tutto avulsi dalla realtà competitiva che aggrava i loro concittadini privati. Così quelli, i piccoli assistiti, o che sperano di essere assistiti, votano per le oligarchie. Che sono «grosso modo» le sinistre, più il Fini e i finiani, espressione dei piccoli statali meridionali.

Da qui i due «partiti», che però non «devono» nascere. Grosso modo, i due blocchi (quelli che i soldi li danno, e quelli che li prendono dallo Stato) identificano «la sinistra» (quelli che li prendono) e «la destra». Grosso modo, identificano anche la divisione tra «Meridione» assistito e improduttivo e «Il Nord» che affronta la competizione globale e paga sempre più tasse, trasferendo i famosi 55 miliardi annui al Sud.

«Grosso modo» però è il problema. Non solo perchè anche al Sud c’è chi lavora, studia, s’ingegna ed è esposto alla concorrenza, mentre al Nord ci sono anche fancazzisti che sono stati messi al riparo. Il problema centrale del «grosso modo» è che ne viene oscurata, e falsata, la natura del conflitto sociale.

Berlusconi è «grosso modo» del Nord produttivo, ma ha aumentato la spesa pubblica (aumentata la flotta degli aerei di Stato, dilapidato in spese folli di pura apparenza, ingigantito i costi della Protezione Civile, di cui ha fatto il suo ministero universale ai suoi ordini personali, «salvato» Alitalia con 400 miliardi nostri...)... Perciò perde voti a favore della Lega.

La Lega ha oggi un compito importantissimo, in cui si gioca la sua legittimità – riunire il Nord, farne un modello «bavarese» – e ne è culturalmente incapace. Col compito che si trova davanti, tira fuori proposte come: insegnanti in dialetto, insegne dei negozi mai in lingue straniere, e uno si domanda: come mai non riescono a trattenersi da tirar fuori una cazzata?

E’ perchè restano provinciali, improvvisatori occasionali. Per di più vogliono accordarsi con Fini e Bersani per ottenere «il federalismo». Senza dire che per loro «federalismo» è «non più 55 miliardi al Sud», perchè – semplicemente – non si può dire senza scatenare lo scontro sociale vero, parassiti contro tassati. «Grosso modo», il federalismo dovrebbe funzionare così, ma solo grosso modo. Sicchè non funzionerà, e  produrrà solo altra spesa pubblica.

Bersani, Fini e i siciliani ex-Pdl, come Lombardo, per contro, sono ben consapevoli degli interessi che difendono. E non hanno bisogno di usare un linguaggio esplicito. Sanno benissimo che quando dicono «opposizioni unite contro la deriva», e «patto repubblicano», il loro elettorato capisce al volo: stanno difendendo il mio posto da netturbino assenteista, di insegnante superflua, di portaborse o consigliere d’amministrazione di ex municipalizzata... Per questo Bersani chiama Fini, e Fini un giorno o l’altro risponderà.

Quindi ci sarà molta confusione, nei prossimi mesi: voto agli immigrati, no caccia agli immigrati. Eutanasia sì, eutanasia no. Matrimonio per i gay, eccetera. «Deriva plebiscitaria» contro «patto repubblicano» che «unisce tutte le opposizioni». E pubblico «di sinistra» che trova in Fini il suo vero leader, perchè ha già l’aria dello statale, che lotta per il suo posto riparato dalla competizione.

Fini infatti «è» di quella parte, e Bersani, anche se incauto, ha visto giusto. Non ci lasciamo ingannare, almeno noi. Il vero scontro è fra chi vuol continuare a prendere i soldi pubblici, e chi non vuol continuare a darli, grosso modo.

Perchè mentre ci faranno battere su pressapochismi, improvvisazioni, tifoserie, e alzate del cavolo come le insegne dei negozi, c’è chi sta attuando un altro progetto.

Come ha scritto l’ottimo Franco Bechis, commentando su Libero il fatto che di recente «Carlo De Benedetti» è apparso in prima pagina su Il Foglio di Giuliano Ferrara.

«E’ accaduto il 22 aprile, l’ingegnere De Benedetti è tornato a campeggiare sulla prima pagina de Il Foglio: ‘Caro Tremonti, giù le tasse per favore’. Questa volta niente avvertenze al lettore.

C’è qualcosa che unisce infatti De Benedetti, Ferrara, Montezemolo, Fini, Paolo Mieli e non pochi altri personaggi di rilievo del milieu politico-editoriale italiano. Ed è la convinzione che l’attuale assetto bipolare non abbia più benzina in corpo.

Non ce l’ha più il Pd, che pure era sensibile alla guida etero-diretta proprio di De Benedetti e del suo gruppo editoriale. Ma la macchina ha mostrato di avere fin dalla sua prima uscita in strada il motore ingrippato, e poche possibilità di fare bella figura in pista.

Non ce l’ha il PdL, ritenuto non in grado di sopravvivere alla gestione diretta del suo vero e unico fondatore. La scommessa è dunque che fra tre anni (se la legislatura finirà) o prima (in caso di incidenti), Berlusconi non sarà più in campo (volesse anche imboccare la strada del Quirinale) e il quadro politico come è conosciuto ora sarà destinato alla scomposizione.

Scomporre e ricomporre pezzi di Pd e pezzi di PdL, unirli ad altri esponenti della politica (Rutelli, forse anche Pier Ferdinando Casini) e della tecnocrazia italiana (Montezemolo, Draghi, etc...) sembra essere il progetto sostenuto in cene private e talvolta pubblicamente da questo milieu politico-editoriale
».

Giuliano Ferrara: ma non è il gran sostenitore del Cav?, direte voi. Grosso modo. Quando ospitò un primo articolo di De Benedetti (il quale può scrivere quanto vuole su Repubblica, visto che ne è il padrone) nell’ottobre 2009, avvertì: «Vorrei precisare che Il Foglio non è passato al nemico, non ancora».

Quelli pensano al futuro, ragazzi, e mica grosso modo.



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