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Ritratto di Draghi come Gauleiter
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Involontariamente o no (forse non lo sa nemmeno lui) il Cavaliere ha messo per un attimo i bastoni fra le ruote alla grande manovra «Draghi al Quirinale». L’ha fatto candidandolo per primo alla Presidenza della repubblica. «Draghi al Quirinale? Lo voterei. Sono io che l’ho voluto alla BCE...». Raccomandato da lui, che in Europa è un lebbroso, il nome tende a diventare impraticabile. Tant’è vero che il divino Mario Draghi, di cui la beatificazione mediatica procede a tutto spiano, e che mai risponde a nessuno, s’è affrettato a far emanare dal portavoce della Banca centrale un gelido comunicato: il governatore «è impegnato alla guida della BCE» e il suo incarico «dura fino al 31 ottobre 2019». Ed «è determinato ad assolvere al suo mandato fino al termine fissato». Non a caso, i caporioni del PPE (Partito Popolare Europeo) a Bruxelles hanno fatto sapere l’intenzione o minaccia di espellere il partito di Berlusconi dato che «la sua campagna elettorale è incompatibile con i principi e la politica dei moderati europei».

Non è difficile vedere la manina della Merkel. Si può immaginare il furore della Cancelliera: è lei che ha candidato Draghi al Quirinale , in fondo. Ha bisogno che al governo della BCE vada un tedesco, per vincere alla grande le elezioni; convincere un governatore (in teoria inamovibile, e miticamente «indipendente dai politici») ad abbandonare il posto prima della scadenza, richiede l’offerta di un posto ancora più alto. E quale posto è più eccelso in Europa di capo della BCE? Nessuno. È la poltrona che risponde all’antica domanda di Kissinger: «Quando voglio parlare all’Europa, a chi telefono?». Ma il Quirinale oggi è una gloriosa approssimazione: in fondo, si offre a Draghi la presidenza di Stato più pagata del mondo occidentale, la divinizzazione definitiva fra lussi ignoti persino alla Regina Elisabetta, e un potere non indifferente visto che – golpe dopo golpe – è il capo dello Stato che oggi governa l’Italia.

E Draghi, da parte sua, può aver buoni motivi per squagliarsela prima che la poltrona di Francoforte cominci a scottare. «Ha salvato l’euro», ci spiegano gli incensieri agitando i turiboli, ma lui sa benissimo che l’ha rappezzato col nastro adesivo, ed è in pericolo imminente. Per molti motivi, ma uno più incombente: Usa e Giappone si sono lanciati nella svalutazione competitiva della loro moneta (come avvenne negli anni ’30 e dicevano non dovesse avvenire mai più) mentre la BCE, per volontà dei tedeschi vuol mantenere l’euro fortissimo – onde non dare vantaggi competitivi ai concorrenti europei interni. La sopravvalutazione dell’euro costa lacrime e sangue ai lavoratori (oggi: disoccupati). Dolori che Draghi e Merkel sembrano in grado di sopportare senza deflettere. Ma il fatto è che adesso, persino Jean Claude Juncker, lussemburghese (grandi banche) e perenne capo dell’Eurogruppo, ha cominciato a dichiarare che «il cambio dell’euro è pericolosamente alto»: infatti è salito a 1,33 (la frase di Juncker l’ha fato scendere). Il Lussemburgo è un’entità ( bancaria) franco-tedesca. Juncker parla esprimendo il grido di dolore dell’Eliseo, la cui economia collassa sempre più rapidamente (e le sue fabbriche auto decretano migliaia di licenziamenti)? O esprime anche un primo gemito dell’industria germanica? Più l’euro si rafforza, più deboli diventano le esportazioni tedesche. Già i dati 2012 parlano di un calo, in Germania, di nuovi investimenti in impianti e macchinari di un ragguardevole -4,4%. La crescita annunciata ufficialmente per il 2013 è 0,4%. Insomma anche al Germania è sull’orlo della recessione, che essa stessa – beninteso – ha provocato.

Così, è possibile che il governatore della BCE, così indipendente dai politici, riceva presto il permesso di svalutare l’euro rispetto a dollaro e yen. Ma c’è un effetto collaterale: appena l’euro cala, il rischio è che i Paesi periferici (fra cui noi) non trovino più compratori per i loro titoli pubblici, e i mercati vengano presi di nuovo dal terrore dell’implosione delle moneta unica, o come si dice in gergo, nel «re-denomination risk». Se hai BTP italiani in euro e rischi di ritrovarteli pagati in neo-lire, preferisci evitare. O chiedi rendite enormi. (Juncker Warns EUR Exchange Rate "Dangerously High", Or Europe Wants Its Cake And To Eat It Too)

Può anche non accadere, s’intende. Ma Draghi sa che il suo salvataggio dell’euro consiste in nient’altro che l’aver detto, scandendo le parole, che la «BCE farà tutto ciò che serve per salvare l’euro, e credetemi sarà abbastanza». Per lui è meglio lasciare il timone della BCE a qualcun altro prima che ai mercati venga l’idea di vedere il bluff.

D’altro canto, la Germania sembra prepararsi al peggio, è tutto un alzare di ponti levatoi. La Bundesbank ha fatto sapere che intende rimpatriare il proprio oro fisico conservato presso la Fed e la banca centrale di Parigi. «Che succede?», finge di cadere dalle nuvole Bill Gross (è il capo di uno dei più grossi fondi d’investimento della storia, il PIMCO): «Le banche centrali non si fidano le une delle altre?».

John Carey, che è il direttore supremo del network CNBC, ha aggravato i peggiori sospetti, sostenendo in un suo patetico editoriale che non ha importanza se l’oro a Fort Knox esiste davvero, quello che importa sono i libri contabili della Fed, che asseverano che l’oro c’è. Fidatevi, tedeschi. (As Germany Prepares To Repatriate Its Gold, We Hope They Have Learned From The "Monetary Sins Of The Past")

Negli anni ‘60, quando De Gaulle fece lo stesso – pretendendo di ricevere oro invece dei dollari per le merci francesi , e mandando pure navi da guerra a fare il carico dei lingotti in USA – fu preso per un atto di ostilità da Washington, che rispose abolendo (unilateralmente) il tallone aureo, ormai finto, che reggeva la sua valuta, e dietro la cui finzione la Fed stampava allegramente e faceva accettare la sua carta «come oro».

Stavolta, l’atto ostile tedesco colpisce meno gli USA che la Francia. Infatti la Bundesbank nel suo comunicato, mentre ha annunciato di ridurre il suo deposito a New York dal 45% al 37% (delle sue riserve totali) da qui al 2020, annuncia anche che invece si riprenderà la totalità dell’oro che conserva a Parigi, 11% delle sue riserve. La scusa stessa addotta ha qualcosa di offensivo. Traduco dal comunicato della Bundesbank:

«Il ritiro delle riserve dal deposito situato a Parigi riflette il cambiamento nel quadro di condizioni conseguito all’introduzione dell’euro. Dato che anche la Francia, come la Germania, ha l’euro come moneta nazionale, la Bundesbank non dipende più da Parigi come centro finanziario in cui scambiare oro contro una valuta internazionale di riserva, se ne nasca il bisogno. Siccome s’è reso disponibile spazio nei caveaux della Bubndesbank in Germania, lo stock aureo può essere rilocato da Parigi a Francoforte».

Solo che l’euro, la cui introduzione motiverebbe la rilocazione, è stato introdotto 11 anni fa. E per tutto questo tempo Berlino ha lasciato il suo oro a Parigi sotto Mitterrand, Chirac, Sarkozy; non sarà che adesso non gli piace Hollande e il suo socialismo d’antan? Berlino ha alzato il ponte levatoio contro il partner che storicamente ha co-guidato l’Unione.

Asse Franco-Tedesco, adieu

Il rimpatrio è anch’esso una trovata elettorale per acquietare i timori dell’elettorato tedesco di insolvenza degli altri, i paesi-cicala? O la corazzata germanica si sta preparando a quali tempeste? Il comunicato della Bundesbank giustifica entrambe le ipotesi: parla di una mossa «per costruire fiducia e confidenza all’interno», e per ottenere «la capacità di cambiare oro con monete estere in breve tempo». E il bello è che solo tre mesi fa, a novembre, la Bundesbank ridicolizzava «le paure irrazionali» dell’opinione pubblica tedesca sui «nostri depositi aurei fuori dalla Germania». (Bundesbank Official Statement On Gold Repatriation)

Che cos’è cambiato in soli tre mesi – tre mesi di calma per il «salvataggio dell’euro» di Draghi – solo Berlino lo sa. Tra l’altro, uno degli effetti collaterali del rimpatrio dei lingotti sarà quasi certamente un ulteriore rafforzamento dell’euro sul dollaro, cosa che tocca tutti (e specialmente noi mediterranei). È un altro gesto unilaterale di potenza tedesco. Tra i politici italioti tutti impegnati a promettere, mentendo, che ci toglieranno l’IMU (tranne Bersani, ad onore del vero), non si trova nessuno che si accorga di quel che sta avvenendo. Che esiga spiegazioni dalla Cancelliera? O che si chieda, poniamo, dove è conservato il «nostro» oro, che una volta si diceva fosse la terza riserva aurea mondiale: c’è ancora?

Del resto ha proprio ragione Paolo Barnard: «Nessuno degli uomini o delle donne che oggi si azzuffano nelle liste elettorali vi potrà governare nei prossimi 5 anni. Essi eseguiranno solo ordini impartiti da tecnocrati europei, dai Trattati europei, e dai mercati finanziari», e ne dà, o ripete, le prove:

A) La Costituzione italiana non ha più valore sovrano, essendo stata sottomessa alla legge europea fin dal 1991.

B) La legge europea, redatta unicamente dalla Commissione Europea di tecnocrati che nessuno elegge, ha supremazia su ogni legge nazionale italiana. Il ruolo subordinato dei Parlamenti nazionali nella nuova Europa significa che "essi dovranno fare gli interessi dell’Unione prima che i propri", come sancito dai Trattati. (Art. 8c, TEU - The European Council of 21-23 June 2007 in Brussels: Presidency Conclusions, General Observations, point 3, page 1

C) Il governo italiano non ha più alcuna sovranità nelle politiche economiche, di bilancio e sociali (...) Il governo dovrà sottomettere la legge di bilancio alla Commissione Europea prima che al Parlamento, e solo dopo l’approvazione di Bruxelles potrà interpellare i deputati.

Sono dei costosi burattini che governano per conto terzi, e quindi è inutile sperare che ci dicano cosa intendono fare in Europa. Però, almeno, potrebbero rispondere a qualche domanda sul tema Fiat.

Marchionne mette in cassa integrazione i dipendenti di Melfi per due anni interi, fino al 31 dicembre 2014, allo scopo di «installare le nuove linee di produzione» dei mirabolanti modelli che Fiat sfornerà. Due anni per una ristrutturazione. Domanda: non si configura qui l’ennesimo sussidio pubblico alla grande fabbrica privata, consistente nel fatto che la Fiat di Elkann mette a carico di noi contribuenti le sue migliaia di operai di troppo, per un paio di annetti? E questo non rappresenta forse un «sostegno indebito» in violazione delle norme sulla concorrenza vigenti in Europa? Punibile con le multe miliardarie che la UE commina in questi casi?

L’altra domanda: dopo i due anni, Melfi riaprirà? non richiede risposta, la quale è evidente. Ma ai politici nostrani non sembra vero rimandare i licenziamenti inevitabili al dopo-elezioni; tanto più che non sono loro a pagare il parcheggio in cassa integrazione.

Sulle azioni di Berlino, vi offro un’ipotesi che vale come un’altra: che la Germania, una volta raggiunto il consenso interno che le conviene restare nell’euro piuttosto che uscirne, sta facendo pagare il prezzo agli altri. Sempre più brutalmente. In ciò, ricalcando il programma prussiano che portò a Bismarck, al secondo e terzo Reich e alle note guerre. È un programma probabilmente involontario, stante la nota «impoliticità» tedesca; dettato dalla forza delle cose.

La divisione dell’Europa in Stati nazionali storici è niente, in confronto a quello che era la Germania alla caduta di Napoleone: era divisa in 39 staterelli e principati, uniti in lasca confederazione sotto gli Asburgo, in una Dieta dove gli staterelli erano rappresentati. Nel 1833 la Prussia, il ragazzo più grosso del quartiere germanofono, propose a questi staterelli una unione doganale (Zollwerein). Era basata sulle idee dell’economista Friedrich List, il maggior teorico oppositore del liberismo nei commerci internazionali (la scuola di Adam Smith), che aveva come scopo resistere all’invasione di beni industriali inglesi che invadevano il mercato europeo. L’unione doganale – con l’introduzione di tariffe e dazi in comune, standardizzazione di pesi, misure e valute, suddivisione proporzionale degli introiti dei dazi imposti alle merci estere - vide l’adesione di 18 degli staterelli di lingua tedesca, ed effettivamente andò a vantaggio della comune prosperità.

Era una misura «economica» e non «politica», badava a dire il Kaiser; la Prussia non ha alcuna mira egemonica, ed era persino sincero: lo scopo politico non detto della Prussia era di allontanare il più possibile gli avversari potenti (Russia, Francia, Austria) dai propri confini, creando attorno a sé una vasta «zona di pace», allontanando cioè l’incubo dell’attacco militare sui due fronti che tenne in ansia Federico il Grande. Se proprio si voleva chiamarla politica, la si chiamasse «politica di pace». La Prussia non voleva minacciare nessuno....Già questo insegni la misura di quella che chiamo l’impoliticità tedesca: creando attorno a sé una zona di egemonia sempre più vasta, la Prussia diventava sempre più grande e potente, e acuiva quelle ostilità e sospetti, a Parigi e Mosca come a Vienna, che contava di acquietare.

A capire subito dove andava a parare, fu l’uomo politico più intelligente dell’epoca: il principe Metternich, cancelliere di Casa d’Austria.

«A poco a poco», scrisse al suo imperatore, «sotto l’attivo incoraggiamento della Prussia e in luce dei comune interessi, gli stati che compongono questa unione formerà un blocco più coerente, che in ogni questione portata di fronte alla Dieta (e non solo in affari commerciali) agirà e voterà secondo accordi presi prima. Non ci sarà più alcun utile dibattito nella Dieta; i dibattiti verranno sostituiti da voti concordate in anticipo e ispirate non agli interessi della confederazione, ma a quelli della Prussia. Già da ora purtroppo è facile prevedere come si voterà tutte le volte che gli interessi della Prussia saranno in contrasto con quelli della confederazione».

E fu proprio quel che avvenne. Le assicurazioni prussiane di comportarsi solo da pari fra pari furono spazzate via da successive norme, prese nell’ambito dello Zollwerein, giustificate con «l’armonizzazione» economica, la utile imposizione di standard industriali ed altri strumenti di integrazione: come per caso, erano sempre «armonizzazioni» degli altri con la legislazione prussiana esistente, mai il contrario.

Paradossalmente, «fu proprio il carattere lasco della unione, la preservazione della identità degli stati, incoraggiò invece che scoraggiare l’egemonia prussiana». Non era una confederazione politica, dove una precisa costituzione federale avrebbe obbligato a trattare tutti gli stati membri come uguali; era appunta un accordo economico, la creazione di una zona di libero commercio in fieri; una entità «sovrannazionale» in certo modo, dove la Prussia poteva imporre le sue istanze centraliste in nome della ragione economica.

Molte volte, la Prussia minacciò addirittura di abbandonare lo Zollwerein quando gli staterelli recalcitravano ad adottare le sue direttive! Questi cedettero ogni volta...e così nacque il gigante centrale d’Europa, che faceva paura a tutti; l’impero semi-involontario del Kaiser che, come disse un suo cancelliere (Von Bethmann -Hollweg) nessuna ama, «perché siamo troppo forti, troppo parvenus, e semplicemente troppo repulsivi».

La somiglianza con il processo di Unione Europea di cui siamo vittime, penso, salta agli occhi. Solo che allora non fu la Prussia, ma il blocco ostile al prussianesimo, i vincitori della seconda guerra mondiale, a innescarlo nel 1945. Anche allora, Monnet (e i banchieri americani che affidarono a questo loro fiduciario la distribuzione del Piano Marshall), puntavano a fare dell’Europa una «zona di pace»: e la loro ideologia (massonica) ritenne necessario per questo strappare quote di sovranità crescenti agli stati-nazione che s’erano affrontati sanguinosamente nelle due guerre mondiali.

Anche loro dissimularono il loro progetto da politico in economico: dopotutto, stavano creando solo una «Comunità Economica Europea», di cui surrettiziamente ampliarono i poteri, dietro le quinte, in modi inavvertiti ai popoli. Come sappiamo, vogliono gli «Stati Uniti d’Europa» e non sanno che l’espressione fu usata per primo dal Kaiser (1).

Anche loro hanno voluto sostituire la politica con la tecnica, e i politici eletti con i tecnocrati cooptati, sperando di dare origine ad un super-stato (Stati Uniti d’Europa) la cui «autorità» fosse meramente amministrativa e non politica. Ma l’autorità politica di uno Stato fonda il diritto; senza politica manca il fondamento giuridico, sostituito in qualche modo da «direttive» e accordi sub-giuridici sottobanco. Ignoravano che così agendo, ricalcavano proprio il sistema che volevano affossare, quello della Prussia: che era appunto una struttura «di comando e di obbedienza» proprio in forza della sua impoliticità. Il politico riconosce i conflitti – tra persone, partiti, valori – e li compone in istituzioni dove possono scontrarsi senza eversione; per il Kaiser e i suoi sudditi, come per gli eurocrati, «la molteplicità implica disordine, e l’ordine richiede uniformità». Armonizzazioni, regolamentazioni, una moneta uguale per tutti, stessa disciplina per greci, spagnoli e italiani: disciplina tedesca, ovviamente. La migliore.

Mica sono cattivi; sono così. La Prussia era una caserma, ma il militarismo della Prussia nasceva dalla volontà di «pace» all’esterno; e all’interno, da una paura incoercibile, impolitica, del conflitto. La statualità germanica non si è mai identificata in un corpo di leggi che permettano la libertà d’azione dei cittadini, ma in un accordo autoritario fra comandanti e comandati, basato sulla «cultura» (e la razza, ai tempi di Hitler) ossia su un’affinità pre-politica. Abbiamo tutti guardato con ammirato stupore, qualche anno fa, la docilità disciplinata con cui i potenti sindacati tedeschi hanno accettato i tagli ai salari e allo stato sociale, per rendere la Germania esportatrice come la Cina. Adesso la Merkel vuole che facciamo lo stesso, a dal suo punto di vista mica le si può dare torto.

Adesso governa l’Europa, e ci farà vedere come si fa: nel tedesco c’è sempre il pedagogo, il maestro di scuola. Ovviamente, in lui c’è anche il bottegaio tirchio che cura anzitutto i suoi interessi. Ci ha dato Monti, ci darà Draghi, i Gauleiter che ci siamo meritati.

Con una famosa sentenza, la corte costituzionale di Karlsruhe ha decretato anni fa che le direttive europee possono essere recepite nel sistema tedesco, solo se non violano la Costituzione: così facendo, la Germania si è resa il solo Stato a mantenere la sovranità. È diventata da allora la Prussia d’Europa, e noi, che ci siamo obbligati a recepire qualunque cosa, i piccoli principati.

E pensare che i congiurati di lusso che furono i primi europeisti , Monnet e i suoi cooptati, mettendo insieme l’Europa eurocratica a-democratica, lo fecero con lo scopo di «contenere la Germania», di legare il gigante al suolo con le loro istituzioni sovrannazionali. Oggi, è la Germania che si è appropriata di queste istituzioni, a suo vantaggio, e nessuna normativa esiste, che la costringa allo status di pari fra pari.

Quando si dice l’eterogenesi dei fini.





1) Fu nel 1940, quando il Kaiser Guglielmo, ormai in esilio, salutava con entusiasmo le conquiste belliche del Fuehrer. Scriveva alla sorella: «La mano di Dio sta creando un nuovo Mondo e fa miracoli. Stiamo diventando gli U. S. d’Europa sotto egemonia tedesca, un continente europeo unito; nessuno sperava di vederlo!». (Citato da John Laughland, The Tainted Source – The undemocratic origins of the European ideas, Londra 1998).


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