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Globalizzazione, grande esproprio
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L’idea pareva buona ai globalisti: produrre le merci là dove gli operai prendono 70 euro mensili, e venderle là dove i lavoratori guadagnano 1.400 euro al mese. Piccolo particolare: i lavoratori da 1.400 euro non ci sono più, sono disoccupati o prendono molto meno, perchè le fabbriche si sono spostate nei mega-Stati a salari bassi. Sicchè ora c’è la «crisi di sovrapproduzione»: si fabbricano più merci di quante se ne possano vendere.

Non si creda che il piccolo particolare fosse sfuggito ai teorici della globalizzazione. Lo sapevano benissimo, che sarebbe finita così. Era, adesso lo vediamo, una questione di potere: imporre il sistema made in USA sugli altri possibili, imporre un pensiero unico egemone, e intanto fornire al capitale il modo di arraffare più profitti possibili a spese del lavoro, finchè durava. L’hanno fatto durare un po’ di più dando in prestito i soldi agli ex-lavoratori da 1.400, in modo che compensassero la perdita di potere d’acquisto col credito, ossia indebitandosi ad interesse: altri profitti per lorsignori.

Dopo, il diluvio. Se ne infischiano lorsignori, perchè hanno ricevuto dallo Stato USA trilioni di dollari. E’ ancora il potere nudo e crudo: possono obbligare lo Stato americano a salvare loro («le banche, il sistema finanziario») anzichè il lavoro.

Così, oggi siamo a questo: che istituzioni finanziarie-zombi, ricche di denaro creato dal nulla e prestato dalla FED e dal Tesoro a tasso zero, esibiscono il ritorno a profitti nominali mentre l’economia reale collassa a ritmo rapidissimo; assistiamo all’inflazione dei profitti finanziari che coincide con la deflazione dei prezzi delle merci tipici di una depressione, e con licenziamenti e chiusure di imprese. Ossia delle sole forze che possano creare ricchezza reale, con cui riempire di senso il denaro creato dal nulla.

Questa massa di denaro non guadagnato, che non ha dietro il corrispettivo della formazione di ricchezza reale, scatenerà prima o poi l’iper-inflazione.

Ma a lorsignori non importa: importa solo tenere salde le grinfie sulle leve del potere di Stato, che hanno espropriato al loro servizio. L’esempio più scandaloso per noi viene dalla Banca d’Italia: mentre il PIL italiano è calato di 7 punti in sei mesi, la Banca Centrale (e privata) ha registrato il bilancio più ricco degli ultimi decenni: un profitto di 175 milioni di euro (contro 95 del 2007), e ciò grazie ai minori oneri fiscali: solo 327 milioni di imposte contro i 1.610 che aveva dovuto pagare nel 2007.

Ecco l’immagine stessa del potere brutale: lorsignori riescono ad ottenere sgravi fiscali durante la crisi più nera della storia economica, che imporrà aggravi fiscali per la cittadinanza e le imprese. Gli azionisti di Bankitalia, ossia le grandi banche private, riceveranno «uno dei migliori dividendi della storia nello stesso momento in cui sono costretti ad approvare singolarmente uno dei peggiori bilanci della loro storia imprenditoriale», scrive Franco Bechis, direttore di Italia Oggi. Bankitalia ha anche guadagnato dalla rivalutazione dell’oro nei suoi forzieri: 48,9 miliardi di riserve auree, 4,2 miliardi più dell’anno scorso.

Un governo popolare dovrebbe semplicemente incamerare quei profitti illegittimi, e nazionalizzare la Banca Centrale. Invece, Mario Draghi si permette di dare lezioni «sociali» al governo, consigliando tagli delle pensioni per dare sussidi ai disoccupati. E tutti i media danno ragione a Draghi, invece di chiedere conto di quei profitti: come e perchè li hanno fatti, se l’economia crolla? A spese di chi li hanno fatti, se non dei lavoratori e delle imprese?

Sono gli stessi giornali che fino a ieri, alle obiezioni razionali, coi loro economisti-opinionisti, replicavano che la globalizzazione stava beneficiando tutti, che milioni di individui ogni anno diventavano più benestanti ed entravano nel mercato dei consumi. Giavazzi (Bocconi) e Tito Boeri (servetto giovane di De Benedetti) erano all’avanguardia in questo genere di propaganda.

Oggi non lo dicono più tanto. Anche loro leggono i dati.

Eccone uno, da Eurostat: il 34% degli europei non ha i mezzi per far fronte ad una spesa imprevista, una cura dentaria, le spese per un incidente, eccetera. Il famoso benessere da globalizzazione si riduce a questo.

In Polonia, primo della classe del liberismo di mercato su ricetta USA (poche tasse e pochi costi sociali per attrarre investimenti), sono 54 su 100 le famiglie che non possono far fronte a spese impreviste, ossia una su due; in Ungheria e Lettonia, 63 su 100. Sotto la media sono Danimarca (19 famiglie su cento non possono far fronte), e la Svezia (18%), grazie alla loro mancata adesione al liberismo selvaggio: hanno  mantenuto buoni sistemi di protezione sociale, ben gestiti da una burocrazia civile e patriotticamente onesta.

In Italia, 32 italiani su cento non possono far fronte a spese impreviste; andiamo meglio della Germania (36%), grazie ai risparmi privati familiari, che però si stanno consumando.

Vediamo dunque l’Oriente, il grande beneficiario presunto della globalizzazione. C’è Asia ed Asia:

Il Giappone ha ormai un debito pubblico che supera il 200% del PIL. L’economia si contrae al ritmo del -4% a trimestre. Si moltiplicano i fallimenti e i licenziamenti, con un interessante effetto collaterale: i giapponesi, disoccupati, si suicidano di più. Il suicidio è una tradizione in Giappone, ha il tasso più alto fra i Paesi sviluppati: 24 casi su 100 mila abitanti (in USA, 11 su centomila). Ma in aprile, a causa della crisi, il numero dei suicidi è aumentato ulteriormente del 6% rispetto a un anno prima. Si è arrivati, in aprile, a cento suicidi al giorno. Per lo più uomini maturi licenziati, anche se la tendenza è cresciuta anche fra i giovani.

E poichè parliamo di suicidi, ecco un’altra informazione istruttiva: Fort Campbell, sede della leggendaria 101ma divisione Aerotrasportata (101st Airborne Division) è stato chiuso per tre giorni, dal 27 maggio, per sottoporre i soldati a un nuovo tipo di addestramento: corsi di prevenzione del suicidio (1). In pochi mesi, sono già 11 i soldati che si sono tolti la vita nella 101ma, e altre morti sono sospetti suicidi. Un suicidio a settimana. Fort Campbell chiuso per manutenzione umana, gli specialisti cercheranno di identificare e sostenere i soldati a rischio di suicidio.

L’eccessiva frequenza dei turni in aree belliche viene indicata come la causa. La 101ma è in guerra ormai da sette anni, con pochi rincalzi e poco personale. Le sue tre brigate hanno fatto tre turni in Iraq; la terza si è fatta sette mesi in Afghanistan, un’altra è appena tornata da un turno di 15 mesi. Quindici mesi di fila bastano a fare di ogni uomo, anche il più saldo, un malato.

E’ anche questa una conseguenza dell’ideologia globale, la «privatizzazione» aziendalista applicata agli eserciti. Ma non è solo questo. I suicidi fra le truppe USA hanno superato nel 2008 i 20 casi su 100 mila, il doppio della media dei suicidi nella popolazione generale americana. C’è lo stress post-traumatico e l’asfissiante ritmo dei ritorni in operazione, certo. Ma c’è anche la sensazione di essere buttati allo sbaraglio, a compiere delitti contro civili, in una semi-guerra senza fine, e che il combattente non può giustificare di fronte alla sua coscienza.

«Chi sa il perchè, può sopportare quasi ogni come», diceva Nietzsche: soldati che difendono la patria possono sopportare tutto; ma non soldati che non possono giustificarsi. Il capitalismo globale - di cui le guerre globali di Bush sono un corollario - ha spossessato anche i suoi soldati dai motivi per vivere e battersi.

Possiamo aggiungere questa alla lista degli espropri colossali a cui si è lanciato il capitalismo globale, stilata da Corinne Lepage, una filosofa francese. Ecco l’elenco, provvisorio e incompleto (2):

«Esproprio (dèpossession) del capitale naturale necessario alla vita. Dalla privatizzazione dell’acqua  all’artificializzazione della natura, dai brevetti sulla materia vivente alla monopolizzazione sulle sementi (Monsanto), ci viene progressivamente tolta la facoltà semplicemente di vivere».

«Esproprio territoriale da parte di Stati come la Cina, che, forniti di capitale e desiderosi di mettere le mani sulle materie prime e le risorse alimentari, comprano territori interi, come la Corea in Madagascar, o mettono la mano sulle risorse minerarie africane sotto la forma di un neo-colonialismo che non ha niente da invidiare a quello delle vecchie potenze coloniali».

«Esproprio economico, con l’acquisto di grandi imprese (nazionali) da parte di fondi sovrani o dei capitali di grandi fortune». Queste acquisizioni o sono «puramente finanziarie e speculative, ossia lontanissime  da un qualunque progetto imprenditoriale», oppure sono una presa di settori industriali primari, come l’acciaio o materie prime rare, che diventano di proprietà di gruppi transnazionali impegnati in una immensa concentrazione monopolista mondiale. «In entrambi i casi i salariati di queste imprese che lavorano nei Paesi “conquistati”, ossia senza alcun mezzo d’intervento, perdono ogni speranza di essere trattati altrimenti che come variabile economica, vittima di aggiustamenti e di licenziamenti». Il fenomeno si aggraverà rapidamente, perchè la caduta del  valore delle azioni di tali imprese le mette alla portata dei capitali di Paesi emergenti come quelli petroliferi o la Cina, ovviamente insensibili agli interessi nazionali delle imprese «conquistate». «L’Europa rischia di essere la prima perdente all’uscita dalla crisi».

«Spossessione dal capitale immobiliare e del capitale naturale pregiato». E’ un problema forse più francese: i fondi sovrani dei Paesi ricchi petroliferi e no stanno comprando a man bassa gli immobili di pregio e i grand hotel di Parigi, come altri gioielli in provincia. Ma si può dar ragione a Corinne Lepage nella conclusione: questo è un esproprio della storia e della cultura europea, con effetti incalcolabili «sul piano simbolico come sul piano estetico».

«Esproprio dei nostri valori umani europei. Nel nome di una concorrenza che spazza via tutto al suo passaggio, l’ideale del progresso sociale è stato cancellato a profitto (è il caso di dirlo) di un aumento della competitività che non si può ottenere se non col livellamento dal basso». Quel che oggi viene proposto agli europei è «l’ideale del coolie indiano e del sotto-pagato cinese»: essi vengono additati a modello in quanto sono loro che rendono competitivi i loro Paesi nella concorrenza globale, ma in realtà non fanno che accrescere i profitti delle imprese espatriate, delocalizzate e sovrannazionali.
«Esproprio del potere e dunque della legittimità degli Stati, e anche dell’Europa, in quanto divenuti impotenti ad assicurare il progresso sociale e dunque la coesione sociale, e privati del potere di applicare loro strategie davanti alle minacce planetarie».

«Perdita di potere degli individui sulla propria vita e sul proprio avvenire, perchè la loro qualità di cittadini non permette più loro di fare scelte reali con l’intermediazione dei loro governanti». A questa depossessione si deve una «angoscia e disperazione crescente» che porta al ripiegamento su di sè fino alla violenza inconsulta e alla xenofobia.

Gli ultimi dieci anni di globalizzazione hanno instaurato una de-responsabilizzazione non solo dei governanti verso i governati, ma delle classi dirigenti nel senso più ampio verso le loro società. Come sappiamo, le banche non sostengono più la produzione e le imprese, ma le rovinano condizionando i mutui all’accettazione di prodotti derivati e tossici, per un puro e momentaneo super-profitto. O distruggono amministrazioni pubbliche locali allo stesso modo, rifilando loro derivati truffaldini.

La risposta a questo enorme esproprio deve venire a livello europeo, dice la Lepage:

«Certi settori devono poter essere oggetto di protezione comunitaria, finchè si è in tempo... Il diritto comunitario deve permettere agli Stati di intervenire per conservare un capitale nazionale o comunitario nei settori strategici; le liberalizzazioni dei settori d’interesse generale devono cessare e i servizi d’interesse pubblico devono essere riconosciuti e difesi dalla comunità».

Inoltre «la fiscalità dei profitti azionari deve essere ripensata per diassuadere le acquisizioni speculative, con un prelievo fiscale differenziato tra azionisti stabili e azionisti di passaggio, e voti differenziati nei consigli d’amministrazione».

E ancora: «I beni pubblici, compresa la materia vivente, devono essere esclusi da ogni appropriazione privata e tornare sotto la sfera pubblica».

Vero è che poi l’analista (che è di sinistra) invoca «una governance mondiale», la sola che secondo lei «può instaurare regole che assicurino la sovranità reale degli Stati». Contraddizione in termine, dato che il governo mondiale, come la globalizzazione stessa, hanno come ragion d’essere la spossesione delle sovranità nazionali.

Ma almeno in Francia si riflette sull’Europa nella globalizzazione (non devono occuparsi di Noemi). Philippe De Villiers, destra cattolica, chiede voti per candidarsi al parlamento europeo «contro» l’Europa «delle elites mondialiste di Bruxelles e degli americani, che vedono l’UE come 51ma stella della bandiera USA».

Su Le Monde (3), questo candidato ha il coraggio di pronunciare parole e idee che sono tabù in Italia:

«Spetta alle democrazie nazionali fare le leggi, e all’Unione europea di proteggere i posti di lavoro attraverso la preferenza comunitaria. Oggi l’Europa non fa ciò che ci si attende da lei, ossia un protezionismo a livello europeo. Ci vieta, con il trattato di Lisbona, ogni forma di preferenza comunitaria (cioè di favorire un prodotto made in Europa rispetto allo stesso prodotto Made in China, ndr) mentre fa quello che non ci serve: s’impiccia della vita quotidiana dei francesi, decreta come deve essere fatto il camembert e il vino rosè, passa gli OGM...».

De Villiers si dichiara esplicitamente ostile all’europeismo burocratico in atto, quello che su ordine USA cerca di fare della UE una America «con un presidente europeo» (non eletto: il designato dall’alto è Toni Blair), «un parlamento europeo che promulga le linee direttrici, e i governatori - a ciò sono ridotti i presidenti nazionali - che adottano le linee direttrici».

E illustra qual è il suo progetto europeo, con altrettanta chiarezza:

«Non ci sarà Europa sociale se non c’è un’Europa economica. L’Europa sociale, è l’Europa in cui le protezioni sociali sono mantenute. Ma per mantenere durevolmente la protezione sociale, bisogna stabilire una protezione economica alle frontiere europee. Ciò che proponiamo è un cordone di barriere doganali variabili e modulabili in funzione dei settori fragili o strategici che vogliamo proteggere, e anche in funzione dei Paesi con cui commerciamo».

Dobbiamo prendere atto, aggiunge, che «siamo entrati in un mondo nuovo, il mondo degli scambi ineguali. Quando commerciamo con Paesi che non hanno alcuna protezione sociale nè alcuna cura per il danno ambientale, bisogna mettere queste barriere per riequilibrare  i prezzi delle importazioni dai Paesi a basso costo di manodopera perchè non hanno protezione sociale. Rifiuto il libero-scambismo incontrollato della Commissione Europea; è un sistema mortifero quello dove si va a produrre dove il lavoro è meno caro per vendere dove c’è più potere d’acquisto. E’ un sistema mortifero per il pianeta intero: un sistema in cui sono i poveri dei Paesi ricchi ad arricchire i ricchi dei Paesi poveri».

Non stiamo facendo propaganda per De Villiers - che purtroppo non possiamo votare in Italia, e forse non sarà votato nemmeno da un numero sufficiente di francesi. Riportiamo le sue parole per mostrare come in Francia, almeno, il dibattito europeista non teme di mettere discussione radicale il sistema della spossessione globale.

Un coraggio intellettuale a noi sconosciuto. E da noi, temo, non manca solo il coraggio, ma soprattutto l’intelletto, la capacità di pensare fino in fondo: come dimostra lo stupore con cui i media e persino le «sinistre» accettano oggi le osservazioni di Tremonti - solo mediamente intelligenti, in fondo - dopo averlo deriso ed essersi scandalizzzati perchè violava il «pensiero unico» globalista, il Washington consensus a cui i Venerati Maestri del cosiddetto progressismo avevano votato la loro cieca fede. Pensate alla devozione con cui le «sinistre» accolsero le privatizzazioni di Ciampi, ossia la svendita dei gioielli dell’IRI, perfettamente concorrenziali; e come i sindacati cooperassero alla «moderazione salariale» predicata dai Ciampi, dai Draghi e dai Giavazzi fino a pochi giorni fa. Adesso scoprono che abbiamo i lavoratori meno pagati d’Europa, e meno coperti dai paracadute sociali.

Non che non capissero; è che si sono piegati al mero e bruto potere dei poteri forti transnazionali. Il potere, per i vecchi leninisti diventati liberisti, è un «argomento», un sostituto del pensiero e del governo.

Si trovano spiazzati, ora che la messa in discussione del capitalismo globale comincia a farsi strada anche in America.

Sicchè, meglio di Giavazzi e Boeri (o D’Alema e Prodi) sarà dare ascolto a Henry C. Liu, un analista americano di origine cinese, che presiede una società d’investimento a New York (4). Date queste premesse, Liu dovrebbe essere un difensore ad oltranza del profitto privato e finanziario-speculativo.

Invece dice: «I banchieri centrali che stanno creando moneta dal nulla sanno bene che possono creare moneta, ma non possono creare ricchezza».

La ricchezza la creano i lavoratori nelle fabbriche, nelle miniere e nei campi. Per lungo tempo, il trucco escogitato è stato di tollerare una misura d’inflazione (necessaria per creare ricchezza attraverso la crescita) e farne pagare il prezzo ai lavoratori: loro sopportano la perdita di potere d’acquisto che i salari subiscono con l’inflazione, mentre ai ricchi andava la parte più grossa della ricchezza monetizzata creata dall’infazione. Per i possessori di capitale, il valore monetario è protetto dalla inflazione proprio perchè pagano salari bassi.

E’ ancora una questione di potere:

«L’inflazione è stata ritenuta benigna dai monetaristi, fintanto che le paghe crescono meno dei prezzi dei beni. Questa legge ferrea dei salari (più bassi dell’inflazione) ha funzionato nell’età industriale, dove la produzione in eccesso è stata assorbita dalle classi ricche, anche se ciò ha portato a rivoluzioni. Ma la legge ferrea dei salari (bassi) non funziona pù nell’epoca post-industriale, perchè qui la crescita può venire solo dalla domanda di massa; la sovraccapacità produttiva (il frutto del lavoro, delle fabbriche, delle miniere e dei campi) è infatti cresciuta al di là della capacità di assorbimento di pochi grossi consumatori».

Questo è stato il problema dell’economia globale negli ultimi decenni: «Salari tenuti bassi anche in tempi di crescita hanno portato il mondo nel triste stato di sovrapproduzione, mascherato da una domanda aggiuntiva creata dall’indebitamento» dei salariati. Domanda insostenibile, come ha rivelato il crack dei mutui subprime del luglio 2007.

«Il mondo oggi produce beni e servizi fatti da lavoratori a paghe basse, che non possono permettersi di comprare quel che producono, a meno che non si indebitino; debito su cui finiranno per fare default, perchè le loro paghe basse non consentono di pagare i ratei».

Tutti gli stimoli finanziari della FED e del Tesoro USA non fanno che prolungare questa disfunzione fatale: «Non ci sarà ripresa con questo sistema finanziario. Solo una riforma tesa al pieno impiego e a salari crescenti può salvare l’economia in ritirata».

In che modo può essere fatto?

Henry Liu propone due misure: «Rendere deducibili dalle imposte che gravano sulle imprese i costi degli aumenti salariali, e rendere tassabili come profitto aziendale i risparmi che le imprese fanno licenziando».

Non è più economia di mercato, è economia politica, dirigismo di Stato. Sono misure relativamente semplici (anche se non sufficienti) e razionali. Ma per farle applicare, non basta la razionalità. Banche, finanzieri e capitalisti di ventura si opporranno, perchè il puro e semplice potere ce l’hanno loro.

E’ il potere che bisogna togliergli (5).




1) Kristin Hall, «11 suicides at Campbell trigger stand-down», Army Times, 28 maggio 2009.
2) Corinne Lepage, «Lutter contre la dépossession des peuples!, ContreInfo, 25 maggio 2009.
3) «Philippe de Villiers: «Il faut un protectionnisme européen», Le Monde, 27 maggio 2009.
4) Henry C.K. Liu, «Liquidity drowns meaning of ‘inflation», Asia Times, 27 maggio 2009.
5) Bisogna rendersi conto che viviamo nell’imminenza di un secondo crack, quello degli Stati. Per salvare le banche, si sono indebitati troppo. Si finanzieranno emettendo Buoni del Tesoro tutti insieme, in misura colossale (6 mila miliardi di dollari) in un anno. I soli Stati Uniti ne emetteranno 2 mila miliardi, altri ne emetteranno il Giappone e l’Europa. Esistono abbastanza acquirenti potenziali di una tale alluvione di titoli di debito pubblico, per di più in concorrenza tra loro?
Esistono capitali sufficienti nel mondo per coprire queste mega-emissioni? Evidentemente no. Già
oggi i Buoni del Tesoro americani a medio sono scesi di prezzo, il che significa che devono pagare interessi maggiori, per la disaffezione dei compratori potenziali. E se anche tutti i capitali residui vanno a comprare BOT, ciò sarà a danno dell’economia reale, a cui mancherà acutamente il credito.  Da qualche mese assistiamoal «paradosso del  risparmio»: il risparmio è una buona cosa se lo fanno alcune famiglie, ma se tutte le famiglie si mettono a risparmiare insieme, fanno crollare i consumi e dunque provocano depressione; la depressione che vediamo. Domani, forse molto presto, potremo vedere il «paradosso del debiti»: uno Stato può chiedere prestiti al risparmio o al capitale mondiale per finanziare un rilancio, ma se tutti gli Stati fanno lo stesso nello stesso momento, destabilizzano il sistema. Un sistema già devastato. Questo evento imminente che il giornalista economico John Mauldin chiama «la fine di partita», avrà immensi costi sociali. Occorre che almeno sia l’occasione per togliere il potere alle forze che ci hanno portato a questo punto.


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