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Good morning again, Vietnam
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E’ uno strano immigrato clandestino. Non è nigeriano nè maghrebino. E’ Andre Shepherd, specialista dell’esercito USA, in cui s’è arruolato nel gennaio del 2004. Addestrato in Germania come riparatore di elicotteri Apache, poi dispiegato in Iraq dal novembre 2004 al febbraio 2005, poi di nuovo spostato nella base tedesca. Al momento di essere rimandato in zona d’operazioni, nell’aprile 2007, Shepherd si è reso irreperibile (nel gergo militare «AWOL», absent without leave, assente senza permesso) ed ha vissuto come clandestino per oltre un anno da qualche parte nella Germania meridionale. Nel novembre 2008 ha chiesto ufficialmente asilo politico per motivazioni morali, dicendosi contrario all’accupazione dell’Iraq. E’ il primo reduce americano a chiedere lo status di rifugiato.

Nel frattempo viene aiutato da «Courage to Resist», un’organizzazione con base ad Oakland (California) che sostiene i militari che rifiutano il dispiegamento in guerra.

«Negli ultimi mesi, abbiamo avuto un aumento del 200% o quasi di soldati che ci contattano», dice Adam Szyper Seibert, uno dei dirigenti dell’organizzazione. Non si tratta solo di AWOL, ma di «gente nella IRR», aggiunge.

IRR sta per Individual Ready Reserve: nell’esercito americano, chi si arruola fa quattro anni di servizio attivo, ma è soggetto ad essere richiamato per altri quattro  anni. Diventati civili, non sono pagati dalle Forze Armate, si trovano un lavoro e mettono sù famiglia, sempre con la spada di Damocle sul capo. Dall’11 settembre 2001, sono stati prelevati dallo IRR (la riserva) 28 mila ameriani, fra cui 3.724 Marines.

«Volontari involontari», nel senso che se si erano arruolati volontariamente otto anni prima, si ritrovano mobilitati di nuovo per via del codicillo che hanno firmato, accettando di essere messi nella riserva.

Tutti questi ex-soldati in riserva hanno votato Obama, credendo di votare un presidente che avrebbe posto fine alle guerre di Bush, ormai nel settimo anno.

«Quando Obama ha annunciato il suo proprio “surge” in Afghanistan, abbiamo avuto decine di telefonate di riservisti che ci imploravano di aiutarli a non andare di nuovo», dicono a Courage to Resist.

Decine, non migliaia come ai tempi del Vietnam. Allora, l’armata USA era di leva, e 500 mila cittadini americani passarono una stagione in mimetica nelle giungle. La guerra durò troppo, e nel 1971 l’esercito più potente del mondo mostrò i segni di un tragico collasso morale e operativo. Le diserzioni arrivavano al 70%, un massimo storico negli eserciti moderni. Si moltiplicarono piccoli ammutinamenti, violenze inter-razziali, rifiuti di combattere: tipicamente i plotoni comandati in rastrellamenti («Search and Destroy», cerca-e-distruggi) praticavano il «Search and Avoid», ossia, depositati dagli elicotteri nella giungla, si nascondevano da qualche parte sotto le frasche aspettando che gli elicotteri venissero a riprenderli. Ci furono scontri tra i «firmaioli» (di carriera) e i soldati di leva. I tentativi di ammazzare ufficiali odiosi salirono da 126 nel 1969 a 330 nel 1971. Il peggio fu che i soldati di leva, in zona operativa, cominciarono ad organizzarsi in gruppi «sindacali» anti-guerra. Circolavano 144 giornaletti clandestini pacifisti scritti dai soldati o per i soldati. La droga infuriava.

Il colonnello Robert D. Heinl, storico del corpo dei Marines, non ha esitato a paragonare lo stato dell’armata in Vietnam al «collasso delle armate zariste nel 1916», e agli ammutinamenti di massa nell’esercito francese, dissanguato nelle battaglie della Somme, sotto il generale Nivelle nel 1917 (1).

Fu questo il motivo per cui, nel gennaio 1973, Nixon annunciò l’abolizione della leva e la formazione di un’armata tutta di volontari, professionale: s’era visto che un esercito di cittadini non poteva essere mandato troppo a lungo a combattere una guerra di guerriglia dall’altra parte del mondo. Non almeno in una democrazia.

I padri fondatori della repubblica americana avevano fatto di tutto per scongiurare la nascita di un esercito di professionisti; con Nixon, la cittadinanza è stata separata per la prima volta in USA dall’obbligo di servire in armi. Forse anche questo ha contribuito alla irresponsabilità sociale dell’ultimo ventennio. Gli americani sono fin troppo lieti di fare da spettatori, e «support the troops» agitando bandierine al passaggio di un’armata di cui i loro figli non fanno parte, e i cui arruolati hanno per lo più nomi latino-americani.

Le forze professionali resistono più a lungo a un certo tipo di guerre neo-imperiali. Ma arriva sempre il punto di rottura di una armata troppo a lungo impegnata senza una vittoria in vista (2). E a sette anni e mezzo dopo l’inizio della guerra in Afghanistan, e a quattro anni dall’invasione dell’Iraq, i segni premonitori di rottura sono visibili.

L’esercito americano manca cronicamente di uomini – non sono tanti i volontari che si arruolano in tempi  bellici – e gli uomini sono impiegati e reimpiegati, in turni sempre più  prolungati, in zone climaticamente e umanamente estreme. I comandi hanno adottato la misura odiosa, detta «stop-loss», di trattenere i  volontari oltre i limiti del contratto: dall’11 settembre 2001, ben 185 mila uomini sono stati trattenuti con questo metodo.

Così, il numero di coloro che si rendono irreperibili (AWOL) tra un dispiegamento e l’altro aumenta, anche il numero delle diserzioni vere e proprie, secondo lo stesso Pentagono, è aumentato dell’80% fra il 2003 e il 2007. Tra il 2000 e il 2006, 40 mila uomini hanno disertato, e più della metà dalla fanteria: qui, i tassi di diserzione sono cresciuti del 42% solo in un anno, tra il 2006 e il 2007.

Le truppe lamentano la mancanza di equipaggiamento e di addestramento adatto. I reduci trovano in patria l’indifferenza dei più, e si sentono abbandonati da un’amministrazione dei veterani che non ha i mezzi per curare le ferite fisiche e psichiche, e tende a scaricarli come gravosi rifiuti. Dopo sette anni, tutti i combattenti hanno capito che quel che guadagnano è la rovina della propria vita personale, divorzi, separazione, disoccupazione, e la  solitudine davanti al disordine post-traumatico.

Il morale è a terra. Lo dice il numero di suicidi senza precedenti, e in continuo aumento: sono stati 115 nel 2007, 133 l’anno seguente, e a metà del 2009 sono già  almeno 82. La forma estrema del rifiuto, la diserzione personale definitiva, il modo di dire: non mandatemi più là.

Un giornalista di TomDispatch (3), Dahar Jamail, ha scritto un libro (The will to resist: Soldiers who refuse to fight in Iraq and Afghanistan) dove ha raccolto, da interviste ai combattenti e ai reduci, i segni allarmanti del rifiuto e del dissenso che cresce nell’armata dei volontari-involontari.

Sono riprese le missioni «search and avoid». Il soldato di prima classe Clifton Hicks, in Iraq dall’ottobre 2003 al luglio 2004 col Primo Cavalleria, racconta cosa faceva il suo plotone quando era comandato ai pattugliamenti:

«Eravamo stanziati a Camp Victory, al’aeroporto di Baghdad. Per lo più uscivamo in pattuglia dal cancello principale e tornavamo subito dentro da un altro cancello alla base, dove c’è un bello spaccio, un simpatico salone - soggiorno e un Burger King. Lasciavamo solo uno di noi sulla Humvee a chiamare il comando ogni ora, mentre noialtri stavamo allo spaccio. Il nostro sergente di plotone era dalla nostra parte, sapeva che le nostre pattuglie erano stronzate, solo andare in giro per essere fatti saltare».

«Durante il mio turno in Iraq, da agosto 2005 a luglio 2006, abbiamo fatto almeno 300 uscite di pattuglia», racconta il caporale Phil Aliff: «La maggior parte degli uomini del mio plotone era appena venuta da un turno di combattimento in Afghanistan, il morale era incredibilmente basso. Siamo stati fatti segno a ripetuti attacchi con bombe a lato strada, che ci hanno demoralizzato. Abbiamo capito che il solo modo di non essere fatti saltare era smettere di circolare sui mezzi. Così, una volta su due cercavamo un campo aperto, parcheggiavamo e chiamavamo la base ogni ora la base per dire che stavamo facendo i rastrellamenti alla ricercca di armi e che tutto era regolare. Tutti i nostri arruolati sono sfiduciati della catena di comando»
.

Il sergente Ronn Cantù, in Iraq da marzo 2004 a febbraio 2005 e poi ancora da dicembre 2006 a gennaio 2008:

«Non è che si andava su e giù per le strade come credevano si facesse. Si andava giusto ad un posto di blocco dei peshmerga (la milizia curda) o della polizia irachena, dove avevamo degli amici, e stavamo lì a bere il tè con loro fino all’ora di tornare alla base».


Tutti spiegano questi loro atti di insubordinazione nascosta come mezzo di sopravvivenza: non sono addestrati nè equipaggiati, dicono, per affrontare una guerriglia urbana.

Nathan Lewis, specialista della 214 brigata d’artiglieria, in Iraq da marzo 2002 a giugno 2003, ricorda delle munizioni che si innescarono da sè mentre lui e i camerati le caricavano sul camion:

«Nessuno ci ha mai mostrato come maneggiarle nel modo giusto. In realtà, non abbiamo mai ricevuto laddestramento giusto per la maggior parte delle cose che, secondo loro, dovevamo fare».


Il fantastico equipaggiamento elettronico del guerriero moderno viene spesso usato come mezzo per simulare un’operazione che non c’è.

«Ho conosciuto soldati che hanno imparato a simulare il movimento del loro veicolo sul computer, per dare limpressione di essere in pattuglia», dice il sergente Josh Simpson, impiegato come agente d’intelligence in Iraq dall’ottobre 2004 all’ottobre 2005.

«Quando ci ordinavano di andare in un post, conferma il sergente Seth Manzel, comandante di un portatruppe Stryker in Iraq (anche lui un anno intero: da settembre 2004 a settembre 2005), «mandavamo velocemente rapporti computerizzati per far vedere che eravamo diretti là. Di fatto piazzavamo la nostra icona manualmente sulla mappa e la muovevamo avanti e indietro per mostrare che eravamo sul terreno e pattugliavamo. Non era un caso isolato, lo facevano tutti. Tutti andavano a nascondersi da qualche parte, qualche volta».

Lo stato d’animo che ispira questi comportamenti è così spiegato da un sergente Simpson:

«La parte della guerra in cui sei personalmente impegnato (nel mio caso, facevo gli interrogatori degli iracheni) non ha senso. Che il sistema di intelligence che dovrebbe condurci alla vittoria è sbagliato. Allora capisci che tutto il sistema è sbagliato, e dunque la guerra è sbagliata. Nel senso che la vittoria non è nemmeno una possibilità».

Lo stesso sentimento che crebbe in Vietnam, dopo che 5 milioni di cittadini di leva passarono dalla giungla, e 55 mila vi morirono.

Nel febbraio 2006, la Zogby ha fatto un sondaggio a campione, ed è risultato che 72 militari su cento in Iraq speravano che la guerra sarebbe finita entro l’anno. Si può immaginare la disperazione e  il rigetto dei quattromila Marines che Obama (su cui  avevano appuntato le loro speranze) ha rimandato in Afghanistan per l’ultimissima offensiva di terra ad Helmand – una zona grande come il Nord-Italia – per una «vittoria» che sanno impossibile, anzi «senza senso».

Sono sempre gli stessi uomini, ormai rimandati in zona d’operazione da anni.

Simpson, quando si è visto richiamare, ha reagito così:

«No, ho pensato, non posso più farlo. Anzitutto è dannoso per me dal punto di vista mentale, perchè devo fare una cosa che odio. Secondo, mi chiamano a partecipare a unorganizzazione a cui voglio oppormi in tutti i modi. Così ho smesso di partecipare alle esercitazioni, non ho chiamato la mia unità. Ho cambiato il numero di telefono».

Nel frattempo s’è laureato alla università di Stato Evergreen di Washington.

«Non so qual' è la mia situazione militare, se sono ancora tecnicamente nella riserva, ma non me ne frega niente. Se devo andare in galera, vado in galera. Meglio in galera che in Iraq».

Anche il sergente Travis Bishop (dopo 14 mesi a Baghdad col 57mo battaglione segnalatori) ha fatto la stessa scelta: si è reso irreperibile al momento in cui la sua unità è stata ridispiegata in Afghanistan. Ha scritto sul suo blog: «Credo che questa guerra sia incostituzionale e ingiusta. Mio padre mi diceva: non fare cose con cui non puoi vivere, perchè ti devi guardare in faccia allo specchio ogni mattina. Ed è la stessa faccia che dovrai radere fra dieci anni».

Il sergente Bishop sta seguendo l’esempio di un suo commilitone dello stesso battaglione, lo specialista Victor Agosto. Dopo 13 mesi di operazioni in Iraq, tornato alla base di Fort Hood Texas, allo scadere del suo contratto, Agosto si è visto ordinare una nuova missione in Afghanistan, sotto il programma «stop loss». Ma invece di rendersi irreperibile o disertare, il soldato ha dichiarato per iscritto ai suoi superiori: «Non vado in Afghanistan. Non obbedirò più ad ordini che ritengo ingiusti e immorali».

Ai giornalisti ha spiegato:

«In Iraq mi si è rivoltato lo stomaco. Ho cominciato a sentirmi in colpa. Ho visto i contractor accumulare oscene montagne di soldi. Non ho visto il minimo segno che l'occupazione aiutava in qualche modo la gente dellIraq.  So solo che ho contribuito a uccidere e a far soffrire».

Il soldato Agosto resta in caserma e rifiuta l’obbedienza. Il 27 maggio scorso ha rifiutato «l’articolo 15», ossia una punizione militare non giudiziale che un comandante può infliggere a un sottoposto che ha violato lo Uniform Code of Military Justice, ed ha preteso invece di essere sotto posto alla corte marziale.

«Sono pronto ad accettare tutte le conseguenze», ha detto: «Sono ormai giunto alla conclusione che non saranno i politici o i pezzi grossi a far finire le due guerre. Quelli non rispondono al popolo, rispondono ai poteri forti, allAmerica delle corporations. Il solo modo di obbligarli a rispondere ai cittadini è che noi soldati smettiamo di combattere le loro guerre. Spero di creare un esempio per altri soldati».

Infatti, anche il sergente Bishop ha chiesto di andare davanti alla corte marziale.

Sembra che il tribunale militare abbia avviato l’istruttoria. Ma non ha ancora stabilito una data per l’udienza. Si può immaginare un certo disagio fra i comandi, non vogliono fare di Agosto un precedente. Se anche gli androidi dell’armata professionale cominciano ad agire da cittadini ed esseri umani, l’impero americano non sa più su chi contare. E allora cosa può succedere?

L’analista Jack Douglas giunge a paragonare l’esercito professionale ai pretoriani dell’antica Roma, il corpo altamente disciplinato della guardia imperiale. Ma dopo decenni di guerre, questo corpo separato dalla popolazione divenne «una forza tirannica che nessun potere civile potè  controllare, e che imponeva la sua volontà neominando gli imperatori».




1) «A Secret History of Dissent in the All-Volunteer Military», TomDispatch, 30 giugno 2009. Il generale Robert G. Nivelle ordinò un «colpo di maglio» nell’aprile del 1917, che fu un fallimento sanguinoso: 350 mila francesi morirono per  pochi metri di terreno. Nivelle reagì ai primi rifiuti di obbedienza con le decimazioni, e i fanti entrarono in sciopero militare.
L’ammutinamento minacciò di estendersi a tutti i corpi d’armata. Nel maggio 1917 Nivelle fu destituito e rimpiazzato dal generale Pétain, che ridiede all’armata lo spirito combattivo.
2) Jack Douglas, «America’s Pretorian Guard is slowly crumbling», Lew Rockwell, 2 luglio 2009. «The American Empire is crumbling inside the professionalized, android armies living in lonely and hellish quagmires in the deserts of the world. The American professionals are also crumbling from the inside in America. The whole Imperial System is crumbling from the inside out, as everyone insists on doing less and less for the society – the SYSTEM – for more and more money and power. The Empire is crumbling away from the inside out. The whole society will do the same».
3) Dahr Jamail, «Refusing to comply», TomDispatch, 30 giugno 2009.


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