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Fine dell’euro
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A forza di aspettare, esitare e nicchiare, la Grecia è praticamente in default: a meno che qualcuno creda possa pagare il 20% sui BOT a due anni, e l’11% su quelli a  dieci. Ma ormai non è più solo la Grecia. Come ampiamente previsto e come era possibile  evitare, il Portogallo è contagiato: con un debito pubblico pari all’84% del PIL (incredibilmente virtuoso, in confronto all’Italia), gli interessi che deve pagare sui BOT a dieci anni sono saltati a 5,67 (più 0,48 in poche ore).

Il debito pubblico italiano ci costa di più (più 0,6 punti d’interesse nelle stesse ore), e il Tesoro ha fatto fatica a piazzare 13,5 miliardi di euro di obbligazioni ad interesse rialzato.

Ma il peggio capita adesso alla Spagna: declassato da Standard & Poors il suo debito pubblico, gli interessi che deve pagare sui suoi titoli sono saliti di 0,27. Va da sè che ogni rincaro degli interessi  avvicina il momento in cui il servizio del debito, per questi Stati, diverrà insostenibile.

Dov’è Prodi? Dove sono Ciampi ed Amato, che ci assicuravano che con l’entrata nell’euro i nostri problemi erano finiti, che finalmente potevamo indebitarci a tassi bassi, che ci dava «stabilità», che ci «proteggeva» dalle svalutazioni (ossia dal rimedio tradizionale con cui noi latini uscivamo dai guai?). La responsabilità di questo disastro è proprio l’euro. L’euro-marco, voluta dalla Germania.

Il caso della Spagna è esemplare. Non era una cicala come l’Italia, col debito pubblico superiore al 110 del PIL. Il debito spagnolo era solo il 40%, il Paese vantava attivi di bilancio e un’economia dinamica. Entrata nell’euro, la Spagna è stata devastata dai tassi, troppo bassi per la sua economia vispa. I tassi imposti uguali per tutti dalla Banca Centrale Europea, 4% nei primi anni 2000, rendevano il denaro troppo a buon mercato per il Paese, la cui crescita economica era prossima al 4% annuo e l’inflazione al 3%: la crescita nominale del prodotto interno lordo del 7%  eccedeva di troppo il costo del denaro al 4%. Da qui l’immane bolla, specie immobiliare: dovuta alla corsa ai mutui a basso prezzo. Adesso è esplosa, e la Spagna è in recessione e per di più in lista per il default sovrano. Una crisi che avrebbe evitato facilmente, se avesse avuto ancora la sua moneta nazionale: bastava aumentare il costo del denaro aumentando i tassi, cosa vietata dalla ferrea zon-euro.

Stesso discorso per l’Italia, fatte le debite differenze. Prima, con le svalutazioni competitive, portavamo via quote di mercato ai tedeschi. Poi i tedeschi ci hanno legato all’euro, ed abbiamo cominciato a perdere quella che i Ciampi e i Giavazzi chiamano «la stagnazione», la «perdita di competitività».

Mostro una tabella inviatami da un lettore: si vede precisamente che la nostra produzione industriale ha smesso di crescere proprio dal 2000 (entrata nell’euro), per poi scendere a precipizio dal 2005; mentre scendeva in sincrono anche la Borsa di Milano in confronto a quelle del mondo.



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La Grecia, d’accordo, avrà truccato i conti per entrare nell’euro. Ma chi ha prestato tanto ad Atene ai bassi tassi tedeschi per anni, come se Grecia e Germania fossero la stessa realtà, solo perchè avevano la stessa moneta? Le banche tedesche e francesi: e l’avrebbero fatto con tanta insensata larghezza, se la Grecia avesse avuto la dracma, soggetta a svalutazione?

E’ stato una specie di sub-prime all’europea. Ora apprendiamo che per il salvataggio della Grecia non basteranno i 30 miliardi più o meno di malavoglia promessi dagli europei, più i 15 promessi del Fondo Monetario.

«La Grecia ha bisogno di dieci volte tanto: 150 miliardi di euro da qui al 2015 come principale del debito, più altri 90 miliardi per gli interessi; e ciò senza contare il debito aggiuntivo che sta contraendo finchè la Merkel, il 10 maggio, non accetta d’intervenire» (c’è il fondato rischio che la Merkel perda le elezioni in Westfalia, e l’aiutino germanico non arrivi più), dice Nicolas Barrè sul periodico economico francese Les Echo: «Ci sono ancora i mezzi?».

E questi 2-300 miliardi, solo per la Grecia. Immaginate se avrà bisogno d’aiuto la Spagna, cinque volte più grossa. E l’Italia...

Non è più questione di Grecia, nè di Prtogallo, nè di Spagna e Italia. E’ in questione la struttura fondamentale della zona euro, che è stata basata su assurdità burocratico-ideologiche: una zona monetaria unica senza una fiscalità unica, senza una direzione politica, con il divieto per la Banca Cenbtrale di acquistare i BOT dei Paesi membri, creando moneta dal nulla in pagamento. Così, ora che la Merkel sta cominciando a dire ai tedeschi che devono fare ancora sacrifici non per salvare la Grecia, ma l’euro, perchè è l’euro ad essere sull’orlo del precipizio, sarebbe ora di rispondere: ebbene, facciamo un passo avanti!

Uscire dall’euro. I Prodi e i Giavazzi dicano pure: impossibile, il nostro debito resterebbe in euro, impagabile con le neo-lirette svalutatissime. Errore doppio.

Anzitutto, se l’Italia uscisse dall’euro, la terza economia dell’eurozona, l’euro non ci sarebbe più. E poi, si capisce, il debito verrebbe ripudiato, come farà comunque la Grecia (già si parla, con eufemismo, di «ristrutturazione»: la Grecia non ripagherà che il 50, o anche solo il 30%); il nostro debito è al 60% in mano a stranieri, che hanno avuto già anche troppo da noi italiani.

Default sovrani uno dopo l’altro (tanto, è inevitabile). Tempi durissimi ci attendono. Ma anche tempi in cui si potrà finalmente rimettere in discussione il «pensiero unico» economico, e concepire una finanza sana, su altre basi.

Sulla rivista Marianne, un economista gaullista, Laurent Pinsolle, fornisce alcune indicazioni per rimettere la finanza al servizio della collettività, strappandola alla predazione e al saccheggio.

Restituire la creazione di moneta alla stato – «Non è normale che le banche possano oggi prendere a prestito dalle Banche Centrali all’1%, per poi prestare quel denaro agli stati al 3% o al 7 %. Lo Stato deve riprendere il controllo della creazione monetaria».

Monetizzare il debito – Una volta che lo Stato crea la propria moneta, può anche monetizzare il suo debito (come già fanno USA e Gran Bretagna), ossia stampare denaro per pagare i debiti. Oggi, questo è un tabù, perchè – secondo il pensiero unico – provoca iper-inflazione. Ma la condizione attuale in Europa è deflazione: cala la massa monetraria (perchè le banche hanno ristretto il credito, ossia creano meno moneta. La «cura» consigliata, per esempio alla Grecia, ossia un taglio drastico delle spese pubbliche ed un aumento delle imposte (per pagare i creditori coi risparmi) non farano che creare recessione, dunque riduzione dell’introito fiscale, dunque lo strangolamento di qualunque speranza di ripresa, la sola cosa che possa davvero rendere in grado di pagare i  creditori. In questa situazione, la «monetizzazione» non è inflazionistica, ma necessaria sia a diluire il debito, sia ad innescare la ripresa.

Imporre la tobin tax
– Una tassa (dallo 0,1% all’1%) su tutte le transazioni finanziarie ridurrebbe la speculazione a brevissimo (specialmente le speculazioni ad alta velocità computerizzate, con milioni di «scambi» all’ora), farebbe contribuire la finanza agli sforzi della collettività, alleviando il peso dei debiti che gli Stati si sono accollati appunto per salvare le grandi banche e la finanza dall’implosione.

Tassare le fusioni-acquisizioni – Perchè sono occasione per gli azionisti di estrarre valore per sè a forza di licenziamenti, smantellamenti, delocalizzazioni.
Metter fine alla corsa folle alla redditività finanziaria – Ieri i capitali investiti pretendevano frutti del 5%, oggi vogliono il 15%, domani il 25%. Così gli azionisti (i capitalisti) vampirizzano la crescita economica a loro esclusivo profitto. L’economista Frédéric Lordon ha proposto di decretare un limite di redditività (SLAM, Shareholder Limited Authorized Margin), al di là del quale lo Stato imporrebbe una supertassa confiscatrice (90%) sulla remunerazione supplementare del capitale. Vi pare troppo «socialista», utopisticamente irrealizzabile? E’ quel che fece negli anni ‘30 Franklin D. Roosevelt nella liberista America.

(Ri)creare un grande polo pubblico bancario – Oggi il sistema bancario è di fatto un insieme di oligopoli privati, che si sono dimostrati cattivi investitori (per esempio prestando troppo alla Grecia), ormai incapaci di dare credito oculato all’economia reale (alla ricerca della redditività assurdamente alta), e che vivono di fatto come parassiti-sanguisughe dei contribuenti. Ciò che viene proposto è un polo pubblico che faccia concorrenza ai privati  fornendo servizi a prezzi ragionevoli. Naturalmente, sarà difficile tenere «la politica» e le sue mani fuori da questo polo, almeno in Italia.

Restaurare la separazione per legge fra banche d’affari speculative e banche commerciali – La legge americana introdotta negli anni ‘30 (Glass-Steagall Act) proprio per limitare gli eccessi dei «mercati» è stata eliminata da Bill Clinton nel 2000: il risultato si vede oggi.

Reinstaurare il controllo sui movimenti di capitali – La crisi asiatica degli anni ‘90 ha insegnato che proprio i Paesi che hanno limitato la «libera circolazione» di capitali sono stati meno vulnerabili alla crisi. La Malaysia (ma anche il Cile) «hanno dovuto i loro successi a misure di controllo dei capitali»(Joseph Stiglitz). Il liberismo globale senza limiti, esemplifica Jacques Sapir, equivale ad aver fabbricato una nave senza compartimenti stagni: si guadagna in spazio per le merci e leggerezza, ma in caso di tempesta o collisione la nave cola a picco. Come appunto avviene oggi nell’economia globale: «Gli ingegneri navali sanno da secoli che conviene sacrificare l’ottimo teorico alla sicurezza e robustezza».

Rivedere le norme di contabilità «mark to market»
– Basilea 2 ha voluto questo metodo, che consiste nell’obbligo per imprese e banche di contabilizzare gli attivi ai valori di mercato del momento, anzichè ai valori di acquisto. Ciò crea un doppio circolo vizioso. In periodi di boom, moltiplica in modo arrificioso le capacità di finanziamento, e di conseguenza favorisce le bolle speculative. In periodi di crisi, la caduta dei corsi obbliga a vendere gli attivi mentre si deprezzano (per restaurare il rapporto fra attivi e debiti), provocando un’accelerazione maligna della caduta dei valori azionari.

Ridurre l’effetto-leva della finanza – Oggi, la speculazione può puntare 100 avendo di suo solo un capitale pari a 1. Basilea 2, con l’obbligo dell’8% di capitali propri, è insufficiente. Occorre il 15%, ed anche più quanto più i prodotti derivati lanciati sul mercato sono complessi.

Finirla con le cartolarizzazioni – Le banche d’affari e non hanno trasformato dei crediti contro i quali avrebbero dovuto conservare dei capitali propri, in «titoli ad interesse» che hanno rifilato a terzi, liberandosi dei crediti (dubbi) e così  potendo prestare ancora di più. Questa pratica irresponsabile, causa prima delle  crisi dei subprime, va vietata. E così vanno vietati i «fuori bilancio», utilizzati per eludere le norme della prudenza.

Vietare gli acquisti allo scoperto, che consentono di speculare al ribasso sui titoli, ed aggravano il calo dei corsi
– In vari Paesi fra cui la Grecia, durante la crisi, tali vendite sono state vietate: dunque si può. E si può rendere perenne questo divieto.

Vietare la speculazione sulle materie prime – Il rincaro delle materie prime fino a metà 2008 è stato provocate dalle grandi banche (Goldman Sachs & Co.) che si sono buttate a speculare in questo settore perchè il crollo dell’immobiliare e della borsa non lasciava loro altro spazio per speculare.  Basta vietare l’acquisto di derivati sulle materie prime  (tipo futures sul grano) agli operatori che dimostrino di avere i silos e i magazzini per ritirare i prodotti fisici, insomma che non comprano per finta.

Vietare i dark pools – Questi «fondi oscuri» hanno lo scopo deliberato di assicurare l’opacità delle compravendite speculative, ciò che aumenta ulteriormente l’instabilità del sistema. Sono il contrario esatto della «trasparenza» promossa a parole dagli ideologi della deregulation.

Contrastare le agenzie di rating – Standard & Poors, la stessa che ha aggravato la crisi greca degradandone a «spazzatura» i titoli  (il che vieta alla BCE di accettare titoli greci come collaterale), è la stessa che assegnava  il voto massimo AAA a Lehman Brothers due giorni prima della sua bancarotta, e alla Enron quattro giorni prima. Le tre primarie agenzie di rating sono americane, e per le loro valutazioni vengono pagate dagli  emettitori: Goldman  Sachs, quando emette un suo titolo tossico, paga S&P e Moodys perchè glielo valuti. Ovvio il risultato: titoli ottimi e abbondanti, comprate signori!

E tuttavia non solo la finanza speculativa, ma gli Stati europei e il Fondo Monetario fanno rifermento a tali «valutazioni» come fossero oro colato. Per l’Europa, ciò equivale a mettersi nelle mani degli interessi anglo-americani (dopotutto l’hanno creata per questo), e in questo momento l’interesse primario americano è di screditare l’euro come moneta di riserva alternativa al dollaro,  per  togliere al grande creditore – la Cina – la tentazione di diversificare. Gli Stati Uniti non sono messi poi messi tanto bene, eppure Moody’s, Fitch e S&P non gli fanno mancare il loro AAA.  Quanto ai giganti della finanza USA, hanno tutto l’interesse a punire negli europei ogni tentazione di regolamentazione dei mercati.

Patetica, quindi, l’implorazione di Michel Barnier, il commissario UE per il mercato interno, a questi lupi e pescecani: «Ci aspettiamo che le agenzie di rating, come gli altri attori finanziari, specie in questo periodo difficile e delicato, si comportino in modo responsabile e rigoroso».

Patetica preghiera da subalterno a degli squali che stanno guadagnando miliardi dalla speculazione contro Grecia, Spagna e Portogallo, e contano di guadagnare ancor più dalla loro caduta.

Eppure varie soluzioni esistono, e sono state avanzate: creazione di un’agenzia di rating europeo  sotto l’autorità della BCE; mettere le tre agenzie americane in concorrenza con nuovi entranti, come l’assicuratore di credito Coface, che offre già questo servizio (e si fa pagare tre volte meno di Moody’s). Ancor meglio, una norma che obblighi le agenzie a coprire di tasca propria una parte dei rischi che coprono (mettiamo il 5%), in modo da renderle responsabili: se sbagliano, ci perdono anche loro.

Naturalmente, nessuna di queste soluzioni sarà decisa. Tutto quel che abbiamo scritto qui sopra,  configurando lo stroncamento della finanza speculativa terminale, la fine della globalizzazione e l’emarginazione dell’euro (che potrebbe tornare ad essere una «moneta comune» di conto fra Stati, restituendo ad ogni Stato la possibilità di svalutare la propria moneta nazionale) è un libro dei sogni: per attuarlo, occorrono Stati, governi ancora capaci di decisione politica, e una dottrina dello Stato e dei suoi compiti che da vari decenni non s’insegna più nelle università. E tuttavia, queste sono le soluzioni.

Un giorno ci si arriverà, dopo aver esaurito tutte le altre mezze misure peggiori. Aspettiamo: il gruzzolo che europei e FMI hanno messo insieme di malavoglia per la Grecia sarà divorato in poche ore, e servirà solo a far arricchire ancora di più gli squali; poi bisognerà metterne insieme un altro per Portogallo, Irlanda, Cipro; e poi un altro tre volte più grosso per la Spagna. E infine un altro cinque o sette volte più grosso per l’Italia...

Allora qualcuno comincerà a intuire che le soluzioni radicali sono quelle che costano meno.



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