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Erdogan, l’ottomano scaduto
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Ricevo la lettera:

«Gentile Direttore,

Cosa succede in Turchia contro Erdogan? Mi spiego: ho sempre visto in Erdogan un Capo di Stato quasi completamente schierato su posizioni occidentali, atlantiste e israeliane.

Ora la morbosità con cui i grandi gruppi d'informazione stanno dando rilevanza alla «protesta» turca contro il premier mi fa pensare che l’idilliaco rapporto si sia crepato o si stia per crepare. Secondo Lei perché? Azzardo, ma, magari faccio solamente della fantapolitica: non è che Erdogan non è stato abbastanza capace di schierarsi dalla parte “giusta”? Ovvero paga lo scotto per non aver (grazie al Cielo) mantenuto le posizioni dei terroristi da lui finanziati, su Aleppo?

Oppure, altro azzardo, è poi così improbabile che Israele o gli USA via AIPAC vogliano indebolire una nazione alleata ma potenzialmente scomoda per l’intera Regione? Magari sulla falsa riga delle Primavere Arabe che hanno creato situazioni di anarchia e guerra endemica, o magari con la scusa dello sbandieramento dei valori occidentali a far rigravitare la Turchia nell’orbita UE, nei confronti della quale Erdogan sembra essersi disinteressato (è stata la forza dell'economia turca l’allontanamento dalla UE).

Matteo
»


Non so dove ha appreso la notizia che Erdogan ha addolcito la sua posizione verso il regime siriano; a me non risulta. Né si può definirlo «schierato su posizioni occidentali atlantiste e israeliane», visto che è stato l’unico capo di un governo a rompere i rapporti con lo Stato ebraico per l’atto di pirateria con strage commesso dai commandos ebraici contro la Mavi Marmara, la nave mercantile che portava soccorsi a Gaza. Anche se è tornato a riallacciare rapporti con lo Stato sionista, possiamo immaginare sotto quali pressioni americane ed europee, Erdogan s’è guadagnato in quell’occasione una vera legittimità per le sue (legittime) ambizioni neo-ottomane: legittimità che ora sta buttando nella spazzatura della storia. Con l’appoggio armato dato ai «ribelli» (mercenari) sunniti anti-Assad, a parte ogni altra considerazione, ha reso subalterna la grande Turchia al settarismo del Katar e della monarchia saudita, il più retrivo e feroce wahabismo. Un misero epilogo, dopo aver risvegliato nel suo Paese speranze neo-ottomane: ottomanismo significa «impero», ossia «chiamata di genti diverse a fare qualcosa di grande assieme», come seppe fare la Sublime Porta inglobando genti diverse come albanesi, egiziani, siriani e turcomanni cinesi; l’esatto contrario dell’ottuso settarismo wahabita, divisivo e che cerca di aggravare la «fitna», la frattura interna alla fede musulmana, che tratta gli sciiti musulmani come idolatri da sterminare in nome di una «purezza» da beduini fanatici; come ho già sottolineato, quello wahabita non è un «ritorno al puro Islam», bensì una sua deviazione «protestantizzante». Ma come mai Erdogan è scaduto a quelle posizioni?

Qui sembra esserci un suo limite caratteriale: la sua arroganza, senso d’onnipotenza e intolleranza alla critica, venuta alla luce in modo sempre più evidente, ed urtante per una parte della cittadinanza (il cosiddetto «islamico moderato» ha messo in galera una novantina di giornalisti, e sta incarcerando avvocati difensori dei manifestanti: lo Stato di diritto erdoganiano ha dei limiti...).

Ma c’è dell’altro, e più interessante: su questo punto, però, la rimando agli articoli scritti da Miguel Martinez, osservatore più intelligente di me e molto più informato, dato che fa il traduttore dalla lingua turca. Da leggere sul suo sito.

Fethullah Gulen
  Fethullah Gulen
Insomma pare che le manifestazioni di piazza abbiano come origine la rottura di Erdogan con la setta (o confraternita) di Fetullah Gulen, che sarebbe dietro le proteste: in qualche modo il capo del governo «islamo-moderato» s’è messo in urto con questo potentissimo e misteriosissimo, nonché ricchissimo, Fethullah Gulen, «il più influente imam turco, che vive in auto-imposto esilio in Pennsylvania»: il misterioso imam ha preso il largo dal 1997, quando i generali turchi «laicissimi» stroncarono il primo governo islamista liberamente eletto, lanciandosi poi in una purga contro i suoi seguaci. Gulen stesso fu processato in contumacia. Anche dopo la presa di potere del partito di Erdogan, AKP, Gulen se n’è rimasto negli Usa, ancorché Erdogan sia stato comunemente indicato come una creatura di Gulen. Il presidente della repubblica, Abdullah Gul, è sicuramente un esponente della setta gulenista. Ed infatti ultimamente ha preso le distanze da Erdogan.

In Usa, l’organizzazione dell’imam Gulen (che si chiama Hizmet, «Servizio») ha aperto in 25 stati 132 scuole private – più precisamente «chartered schools», ossia create con un accordo fra lo sponsor (Gulen) e autorità locali, che ci devono mettere anche loro del denaro (pubblico) – che hanno grande successo, in quanto diffondono strenuamente il verbo ultraliberista così ben accolto in Usa, un «Islam di mercato», congiunto alla «American Way of Life», in completo Armani e cravatta Wall Street ed annessa ideologia del successo. Tuttavia l’anno scorso, l’FBI ha indagato sulle domande di visto per insegnanti, che l’organizzazione importa dalla Turchia per farli insegnare nelle sue chartered schools. Troppe domande di importare insegnanti stranieri, esattamente turchi, per scuole americane. Pare che i federali volessero capire se il personale docente e non docente di queste scuole dovesse dare parte del suo stipendio a Hizmet. Come sia finita l’inchiesta, silenzio. (U.S. charter-school network with Turkish link draws federal attention)

E non basta: l’organizzazione sta anche entrando nei media. Gulen, come accade in America ad ogni telepredicatore di successo, s’è voluto far la sua tv. «Hizmet» ha aperto nel New Jersey la splendida sede della sua nuova catena, «Your Family Network», dove la sua Ebru TV diffonde mini-serie prodotte in Turchia, ma perfettamente doppiate in inglese, che celebrano la fede e la vita familiare.

Come spiega Martinez, l’organizzazione gestisce «un migliaio di scuole e centri, diffusi in un centinaio di Paesi, in particolare quelli turcofoni dell’Asia Centrale e tra la diaspora turca in Germania». Si discute se Gulen sia un « asset» americano, e quasi un agente della CIA. Ci sono pro e contro; qualche giornalista che ha indagato su questo tema, è finito ammazzato. Io mi limito a aggiungere che nel 2006, il governo russo ha chiuso d’autorità le reti di scuole che la setta di Gulen aveva aperto nelle provincie dell’Asia centrale, con la motivazione che si trattava di «facciate» della CIA.

Huma Abedin
  Huma Abedin
Sui motivi della rottura col capo della setta «Hizmet», Gulen l’Americano, non mi sembra che Martinez sia chiarissimo. Forse aiuta la tesi di Thierry Meyssan, che dal Libano asserisce: Erdogan è diventato, o s’è rivelato, un agente subalterno dei Fratelli Musulmani. La storica organizzazione islamista che non nasconde le sue ambizioni di dominio pan-arabo, sarebbe a sua volta il braccio di una certa politica americanista in Medio Oriente: in consonanza con le sue supposte origini, a cui avrebbe presieduto l’Intelligence Service via Massoneria Britannica. Come indizio, il francese fornisce la ghiotta notizia seguente: Hillary Clinton, la segretaria di Stato, si tiene a fianco come intima consigliera e donna di fiducia, una musulmana praticante di nome Huma Abedin: costei, che parla arabo ed urdu, è nello stesso tempo un membro della Fratellanza Musulmana; la Abedin, guarda caso, è stata sposata fino a ieri con il deputato giudeo americano Antony Weiner, salito al disonore delle cronache per uno scandaletto porno, che ha portato al divorzio (e alla fine politica di Weiner).

Secondo Meyssan, «mostrando la sua vera natura (di Fratello Musulmano sotto vesti ottomane) il governo Erdogan s’è tagliato i ponti con la sua popolazione. Solo una parte minoritaria di sunniti può riconoscersi nel programma ipocrita e retrogrado dei Fratelli Musulmani. Circa il 50% dei turchi sono sunniti; il 20% sono alevis (ossia alawuiti, il gruppo religioso del dittatore siriano), il 20% kurdi che sono principalmente sunniti, e il 10% appartiene ad altre minoranze». Effettivamente, secondo i sondaggi, ben 70 turchi su 100 disapprovano la politica aggressiva di erdogan verso la Siria. (Soulèvement contre le Frère Erdogan)

Stiamo dunque assistendo alle prime fasi di uno scontro fra islamisti? Fratelli Musulmani contro la setta di Gulen? Sharia contro neo-ottomanismo? Staremo a vedere. Difficile dire. Anche la confraternita di Gulen è infiltrata da elementi ebraici: «Uno dei più attivi sostenitori del movimento gulenista, scrive Miguel, è l’imprenditore ebreo turco, İshak Alaton della potente Alarko Holding (gas, energia elettrica, villaggi turistici, settore immobiliare, città-fortezze di lusso per neoricchi, opera dall’Algeria al Kazakhstan), un convinto critico di Erdoğan».

Nulla è semplice in Turchia, società di confraternite dervisce, ortodosse ed aberranti, di dunmeh, di «stato profondo» e di «laicissimi» massonici militari cripto-giudei. Miguel Martinez ci dà un divertentissimo esempio dei malintesi fatali in cui possono cadere, soprattutto le sinistre vulnerabili a certi simboli di cui equivocano il senso. Ecco qui la foto di alcune manifestanti anti-Erdogan.



Ecco il commento di Martinez:

«A prima vista, sembra uno di quei punti in cui un certo immaginario mediatico mainstream e un altro, di una sinistra sempre alla ricerca della Grande Rivoluzione, si incontrano. Ci sono belle ragazze, persone in cui l’occidentale medio si riconosce senza esitazione, e per questo fanno pensare a una sorta di trionfo universale delle nostre ragioni. Sono l’esatto contrario di un taliban, per capirci. Bellezza, sorriso, primavera, speranza…

Le ragazze indossano magliette rosse, e questo manda un messaggio a tutto un mondo di sinistra occidentale, che vede l’umanità come una sorta di agglomerato intercambiabile, dove le formazioni storiche non contano nulla. Fratellanze e sorellanze, insomma. Sicuramente pochi faranno caso al gesto che le ragazze stanno facendo. (...)

Con le dita, disegnano una sagoma, che se ne proietta l’ombra su un muro, forma la testa di un lupo. Precisamente della Lupa Madre, Börteçine, che avrebbe guidato gli antenati dei turchi fuori dalla valle di Ergenekon o Agartha. (...)

Le nostre ragazze sono quindi delle “giovani idealiste” (Ülkücü Gençlik), meglio note da noi come Lupi Grigi (Bozkurt), membri di una vasta organizzazione vicina all’esercito, che per decenni ha condotto una guerra durissima, in Turchia e in Germania, sia contro l’estrema sinistra, sia contro l’indipendentismo curdo.

E il rosso non ha nulla a che vedere con quello del socialismo, bensì con quello della bandiera turca, che si vede infatti sventolare alle loro spalle. Una bandiera dove stella e luna (già presenti nella simbologia ottomana) sono state introdotte negli anni Trenta come richiamo al Tengricilik, la presunta religione celeste panturanica”, culto ancestrale del dio Tengri praticato da unni, mongoli, turchi e magiari. Stella e luna, Ayyıldız, si riflettono nella vasta pozza rossa del sangue versato dai guerrieri turchi, dagli antichi nomadi fino ai “martiri” delle guerre contro greci e curdi».

Capito che equivoco?...

Nella perdita di consenso di Erdogan avrebbe il suo peso anche la crisi economica, essa stessa conseguente alla guerra con la Siria ed ai cattivi rapporti che Erdogan ha stabilito con tutti i suoi vicini: la crescita del Pil è passata dal 9 al 2,2%. Personalmente, mi basta anche il motivo più diretto: la protesta contro la volontà di Erdogan di sradicare 600 piante nel parco di Istanbul, per costruirci sopra uno shopping center: con un forte puzzo di mazzette e speculazione edilizia, dato che il sindaco di Istanbul (del partito di Erdogan) è il padrone di una catena di negozi che ha già prenotato le sue metrature nello shopping center futuro, e il genero di Erdogan s’è aggiudicato il contratto per lo «sviluppo» immobiliare dell’area.

Già l’erdoganismo cementizio ha devastato ettari ed ettari di foreste tutto attorno alla metropoli, distruggendo l’antica bellezza verde del Bosforo. Ed ha fatto approvare una legge che toglie la protezione giuridica ai parchi nazionali turchi.

Appare evidente la sua pulsione a fare di Istanbul una specie di Dubai City , pacchiano outlet dozzinale al neon per ricchi wahabiti che vanno lì a bere, scopare e gozzovigliare al difuori degli sguardi della «polizia dei costumi». Scherziamo? Istanbul è densa di grandiose rovine romane, dall’acquedotto di Valente allo Jerobatan; ortodosse, Santa Sofia, e ottomane, il Topkapi, il Kapalicarsi, la Moschea Blu e le ville Belle Epoque affacciate sul Bosforo, l’oro e le spezie di duemila anni di storia... farne un outlet significa la volontà di cancellare tutto questo, per un Islam «moderno» e commerciale, tutto al presente. Non diversamente i wahabiti sauditi distruggono i monumenti islamici della Mecca, come la casa di Maometto, perché la loro «purezza» domini sul nulla, e invece riempiono le loro terra (santa) di orribili e pacchiani edifici moderni commissionati ad archistar occidentali. Non diversamente i talebani hanno cancellato le famose statue di Buddha, che musulmani più musulmani di loro hanno sopportato per almeno un millennio… è proprio detestabile, questo islamismo armato al neon.



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