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Dove Adolf vinse. E dove perse
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Dopo che ho segnalato il pericolo dell’imperio germanico sull’Europa, alcuni lettori hanno letto l’analisi come un’espressione di malanimo verso la Germania. Al contrario, è rincrescimento. Dispiacere a veder ripetuti gli stessi errori, le stesse inutili grettezze che hanno ripetutamente fatto perdere al popolo tedesco le grandi opportunità storiche, rovinando sé stesso e i vicini.

Rivediamo il vecchio film.

Il 30 gennaio 1933 Adolf Hitler divenne cancelliere tedesco. Un mese dopo, il 4 marzo, Franklin D. Roosevelt divenne presidente USA. In entrambi i Paesi, nel ’33, la produzione industriale era dimezzata rispetto al 1929. Entrambi presero iniziative non convenzionali per rianimare l’economia: quello di Roosevelt, il New Deal, è da tutti ricordato e studiato nelle università – anche se fu un completo fallimento. Le iniziative hitleriane sono ignorate quando non criminalizzate, anche se ebbero un successo stupefacente. Entrambi gli uomini governarono i rispettivi Paesi per dodici anni: colui che aveva perso la sfida della ripresa uscì vincitore dalla guerra, colui che aveva vinto la sfida economica ne uscì disfatto, e con esso disfatto la sua nazione.

Deflazione, mancanza di capitali e di domanda, ricette di «austerità» dei precedenti Governi avevano prodotto in Germania 6 milioni di disoccupati. Poche ore dopo il suo insediamento nella cancelleria, Hitler chiarì il suo intento parlando direttamente al popolo per radio nel suo discorso inaugurale ( «Aufruf an das deutsche Volk», 1° febbraio 1933). Ciascuno faccia il paragone fra le sue parole e gli interventi (o i twitters) dei nostri attuali governanti.

«La miseria del nostro popolo è orribile a vedersi! Con milioni di senza-lavoro nel settore industriale, è l’insieme della classe media e artigiana ad essere impoverita. Se anche i coltivatori tedeschi collassano, saremo di fronte ad una catastrofe incalcolabile. Sarebbe non solo il crollo di una nazione, ma di un retaggio bimillenario, di una delle più grandi realtà della cultura e della civiltà umana».

Annunciò il lancio di «due grandi piani quadriennali» con cui promise che avrebbe «riorganizzato l’economia. In quattro anni la disoccupazione dev’essere radicalmente superata (...). I partiti marxisti e i loro alleati hanno avuto 14 anni per provare di cosa erano capaci. Il risultato non è che un cumulo di macerie. Adesso, dacci quattro anni, popolo tedesco, e poi giudicaci!».

Mantenne la promessa. Nel 1936, il numero di disoccupati, da 6 milioni, era sceso ad un milione. Nel 1937-38 (prima, si noti, che la guerra imponesse la sua forma di «pieno impiego») si notò una penuria di manodopera, tanto era ridotta la disoccupazione. E ciò senza ridurre il popolo ad una casta di frugali monaci guerrieri, né applicare ricette tipo «lavorare meno per lavorare tutti».

Lo storico Niall Ferguson, inglese dunque ostile, ha constatato che tra il ’33 e il ’38 il reddito netto settimanale operaio (dopo la deduzione fiscale) aumentò del 22%, mentre il costo della vita crebbe solo del 7%. Il reddito dei lavoratori (dunque il loro potere d’acquisto) continuò a crescere anche durante la guerra. Nel 1943 la paga oraria reale era aumentata di un altro 25%.

I salari elevati però non rendono la misura dei miglioramenti che il lavoratore germanico ottenne dal regime, per lo più sotto forma di benefici non-monetari sul posto di lavoro. Dalle mense aziendali con pasti caldi, alle esercitazioni, al miglioramento delle condizioni sanitarie e di sicurezza (per lo più con campagne sistematiche ed esercitazioni in fabbrica), al perfezionamento dell’assicurazione nazionale di malattia e delle pensioni di vecchiaia con accantonamenti sulle buste-paga, fino ad iniziative volte a «ridurre la monotonia del lavoro ripetitivo con mezzi come la musica, la coltura della piante (sic) e dei premi speciali per le realizzazioni», ammette Gordon Craig, altro storico britannico (Germany 1866-1945, Oxford, 1978, pp. 621-622).

Dal Fascismo italiano, il Reich copiò l’idea del dopo-lavoro, applicandola con molta più larghezza di mezzi: organizzazione attività sportive e di escursioni collettive, entrata a concerti e a teatri a prezzi sovvenzionati, fino a crociere e viaggi-vacanza all’estero attraverso il leggendario ente del turismo Kraft durch Freude (“La forza tramite la gioia”). Questo stesso ente progettò l’utilitaria per il popolo (VolksWagen) escogitando un sistema di risparmio perché comuni operai potessero acquistarla a rate; sicché il numero dei proprietari di auto triplicò negli anni Trenta. Né la VW era il modello unico di uno stato di tipo collettivista: le fabbriche di auto americane Ford e General Motors (Opel) facevano concorrenza in Germania, e raddoppiarono la produzione cinque anni, dal ’32 al ’37.



I consumi alimentari, fra il 1932 e il ’38, ultimo anno di pace, crebbero del 16%, il fatturato del settore abbigliamento crebbe di un 25%, quello dei mobili e dei casalinghi. Il consumo di vino salì del 50%. Segno inequivoco del benessere e della fiducia nel futuro, la natalità crebbe del 22%: nel pieno della grande recessione mondiale, ha scritto lo storico americano Gordon Craig, «la Germania nazionalsocialista è stato il solo Paese di popolazione bianca ad accusare un certo aumento della fecondità». Diminuirono la mortalità infantile e malattie come la tbc. Calò anche il tasso di criminalità, e calarono i processi penali.

Il Pil aumentò «della rimarchevole media dell’11% l’anno» (Niall Ferguson), insomma tanto da far invidia alla Cina d’oggi.

Impressionante il rilancio economico rapidissimo che il Reich produsse in Austria dopo l’Anschluss, la riunificazione del marzo 1938: il tasso di disoccupazione austriaco del 1937 era quasi del 22%; nel 1939 era crollato a 3,2%. Il Pil austriaco crebbe del 12,8% nel breve periodo da marzo a dicembre ’38. Nel 1939, il prodotto interno lordo austriaco crebbe ancora, incredibilmente, al 13,3%. Nel solo tratto fra giugno e dicembre 1938, il reddito settimanale dei lavoratori austriaci dell’industria salì del 9%. Evidentemente, il regime aveva liberato energie congelate od incagliate da un regime sociale superato, pre-industriale, di classe. Il rilancio dell’Austria è stata «la realizzazione economica più notevole della storia moderna», secondo lo storico americano Evan Burr Bukey (Hitler’s Austria, 2000).

Nelle grandi Imprese (rimaste private), nei 4 primi anni i profitti netti quadruplicarono, in ovvia coerenza con l’aumento del Pil all’11%. Tuttavia, dal 1934, il regime limitò per legge i dividendi agli azionisti al 6% annuo. I profitti non ripartiti dovevano essere investiti in titoli di Stato che davano un interesse annuo del 4,5%. Tale politica ebbe l’effetto voluto: incoraggiare i reinvestimenti e l’autofinanziamento delle imprese, riducendone il bisogno di ottenere prestiti bancari, e dunque emarginando l’influenza, anche politica, del capitale finanziario puro.

L’imposizione fiscale: la tassazione sulle imprese fu regolarmente accresciuta in simultanea con il rilancio in corso, dal 20% del 1934 passò a 25% nel 1936 e al 40% nel 1939-40. La fiscalità personale fu fortemente «progressiva»: ai redditi più alti furono fatte pagare imposte dirette proporzionalmente più gravose che ai redditi inferiori. Sui redditi superiori ai 100 mila marchi annui, l’aliquota fu alzata dal 37,4 al 38,2%. Gli appartenenti alla classe più ricca erano solo l’1% della popolazione, avevano il 21% dei redditi nazionali, ma su questi pagavano il 45% del gettito tributario generale. Per contro, nel 1938, i tedeschi delle classi di reddito più basse rappresentavano il 49% della popolazione, si dividevano il 14% del reddito nazionale ma non pagavano che il 4,7% del carico fiscale generale.

Le aziende potevano concedere dei «bonus» ai dirigenti, ma solo in rapporto diretto ai risultati ottenuti e in coincidenza con premi dati a dipendenti.

Politica di classe: All’inizio del ’37, davanti al Reichstag, Hilter proclamò che il regime aveva avuto come «obiettivo di dare diritti uguali a quelli che non avevano diritti. (...) Il nostro obiettivo è stato di permettere a tutto il popolo tedesco di essere attivo non solo sul piano economico ma anche sul piano politico, e ciò è stato possibile con il coinvolgimento organizzato della popolazione». Joachim Fest, l’ostilissimo storico ebreo, ha ammesso: «Il regime ha vegliato che nessuna classe sociale abbia più autorità sopra le altre, e dando a ciascuno la possibilità di progredire, ha dimostrato praticamente la neutralità di classe (con) misure che rompono effettivamente le vecchie strutture sociali pietrificate. Esse migliorano concretamente la condizione materiale di gran parte della popolazione».

«È incontestabile che i nazisti incoraggiarono la mobilità sociale ed economica della classe operaia» (così lo storico John A. Garraty, in «The New Deal, National Socialism, and the Great Depression», The American Historical Review, ottobre 1973 (Vol. 78, N°4), pp. 917, 918).

Come il regime (genialmente affiancato dal capo della Banca Centrale Hjalmar Schacht, «ariano d’onore») riuscì a questo, l’ho raccontato nel mio saggio Schiavi delle banche: essenzialmente, allargando il credito e persino con pseudo-moneta: gli effetti MeFo, cambiali tratte da una impresa fittizia e scambiate come mezzo di pagamento dalle industrie, che mai le portarono all’incasso; anche perché fruttavano il 4% annuo.



Qui mi limito a citare John K. Galbraith. Che segnalò «i considerevoli debiti (contratti) per le spese pubbliche, e specialmente per le ferrovie, la rete fluviale, e le autostrade, le cui conseguenze sulla disoccupazione sono state più benefiche che negli altri paesi industrializzati». I grandi investimenti pubblici uniti «a un metodo di controllo dei salari e dei prezzi». In quegli stessi anni, ricorda Galbraith, «i conservatori britannici ed americani denunciavano le eresie dei finanzieri nazisti – indebitamenti e spese (pubbliche) – e concordi predicevano il crollo; e i liberali americani e i socialisti britannici puntavano il dito sulla repressione, la distruzione dei sindacati, le Camicie Brune...». In realtà, «Hitler aveva anticipato una politica economica moderna» (Galbraith intende keynesiana). Fatto sta che «alla fine degli anni ’30la Germania aveva conseguito il pieno impiego con prezzi stabili (senza inflazione, ndr). Un successo assolutamente unico nel mondo industriale».

Le ricette keynesiane, in USA, ebbero meno successo. «I nazisti praticarono il finanziamento del deficit su grande scala in parte perché il loro sistema totalitario su prestava meglio alla mobilitazione della società», scrive lo storico Garray. «Già nel 1936 la grande depressione era per l’essenziale terminata in Germania, mentre era lungi dall’esserlo negli Stati Uniti» (William E. Leuchtenburg, Franklin Roosevelt and the New Deal, New York, Harper &Row, 1963 pp. 346-347). Nonostante tutti gli enormi «stimoli» messi in opera dal New Deal con grandi spese pubbliche, appena si tentò di allentarli nel 1937, la disoccupazione risalì alle stelle. Nel marzo del 1940 i disoccupati americani erano il 15% della popolazione attiva.

Ci volle il grande stimolo del riarmo bellico per ottenere il pieno impiego. Il New Deal «non ha mai dimostrato di poter arrivare alla prosperità in tempo di pace. Alla fine del 1941 c’erano ancora sei milioni di disoccupati in USA, e solo alla fine del 1943 – anno di guerra piena – l’armata dei disoccupati infine scomparve» (Leuchtenburg, citato).

Un fallimento economico enorme, e un successo politico eccezionale: l’egemonia mondiale USA. Com’è potuto accadere?

In un certo senso, col senno di poi, si può dire che il sistema hitleriano aveva un limite nella sua stessa perfezione: come «i successi» della Germania odierna, era fatto per i tedeschi, su misura della loro mentalità e virtù collettive, e a loro vantaggio esclusivo. Hitler non seppe proporre il modello come universale, come modello da proporre ai popoli conquistati o associati. In qualche modo, un provincialismo fatale per l’ambizione e nell’utopia di dominio che sicuramente agì nel Terzo Reich. L’economia nazista prosperò come un sistema chiuso, autosufficiente, favorito dalla stessa chiusura dei commerci mondiali provocata dalla Grande Depressione dopo il 1929.

Per confronto, si sottovalutò enormemente il potenziale industriale ed agricolo inespresso gli Stati Uniti. Con il senno di poi, si sarebbero dovute trarre le debite deduzioni da certe notizie di cronaca provenienti dagli USA che furono prese come curiosità e stranezze: per esempio, le migliaia di tonnellate di grano e i milioni di litri di latte gettati in mare allo scopo (disperato) di sostenerne i prezzi per gli agricoltori, mentre milioni di americani soffrivano la fame e facevano la fila per un piatto di minestra. Questo spreco odioso – ordinato dall’ideologia del «libero mercato» capitalista che continuò a dominare le menti americane – indicava che la crisi americana era una crisi da sovrapproduzione cronica; dovuta almeno in gran parte alla chiusura degli sbocchi mondiali. Era un sintomo significativo. Mostrava che l’economia americana aveva bisogno di espansione. O per dir meglio: gli USA sono costituiti da qualcosa che possiamo definire un «imperialismo economico strutturale»: il business non può stare nei suoi confini, ha bisogno di impadronirsi di mercati globali. Lo ha fatto magistralmente sul piano politico-propagandistico, lanciandosi nella conquista dell’Europa (ed oggi globale) ponendo il suo modello come «democrazia», «libertà», ma fu anche capace di chiamata a genti diverse ad entrare nel sistema di «benessere» e «liberazione» che imponevano le sue multinazionali. I vinti e gli esausti furono finanziati col Piano Marshall per il vantaggio stesso delle multinazionali USA, occorreva ricostituire un «mercato»; la dazione fu un mezzo politico supremo per ottenere il consenso (e persino, ohimè, la gratitudine) dei vinti.

E la Germania nazista? Nei territori occupati, specie dell’Est, introdusse la moneta d’occupazione, ossia non poté mai giungere a considerare «alleati» i collaborazionisti, ma solo «vinti e saccheggiati»: Non si occuparono di ottenere il consenso dei russi ed ucraini che inizialmente li avevano accolti col pane e il sale, e grazie a cui sarebbero arrivati fino a Vladiostok senza colpo ferire.

Ho già raccontato come ci provarono, furbescamente, anche nella Repubblica Sociale – del resto era stata da loro costituita, era un loro satellite del tutto dipendente. Non certo nella situazione di potere reclamare la propria sovranità davanti al gigantesco e armatissimo salvatore.

Invece (cito me stesso) un mese dopo la sua nomina, il ministro delle Finanze di quello Stato evanescente, Domenico Pellegrini Giampietro (un napoletano), ingiunse ai tedeschi di ritirare immediatamente dalla circolazione i «marchi d’occupazione» (Reichskreidit Kassenscheine) con cui le truppe germaniche, ogni volta che entravano in una bottega a comprare le poche merci esistenti, commettevano di fatto un esproprio senza indennizzo (nel Meridione liberato, gli americani continuarono per anni a inondare il Paese della loro moneta d’occupazione, le AM-lire). Ma la RSI non era più territorio occupato, era un alleato: dunque le truppe germaniche favorissero adempiere ad ogni pagamento esclusivamente in lire italiane. E di cessare requisizioni e prelievi di fondi dalle nostre banche. Anzi, visto che c’erano lavoratori italiani nel Terzo Reich, Pellegrini Giampietro pretese ed ottenne il trasferimento in Italia dei loro risparmi. Frattanto, impedì il trasferimento del Poligrafico di Stato a Vienna; fece restituire buona parte dell’oro che la Wehrmacht aveva sottratto alla Banca d’Italia, e mise al sicuro le sue riserve d’oro e valute a Fortezza, dove gli americani le trovarono intatte nel ’45.

Intanto il Ministro dell’Economia Corporativa, Angelo Tarchi, sventava i ripetuti tentativi dei tedeschi di trasferire gli impianti industriali del Nord nel Reich. Già ANIC e Montecatini ed altre erano state trasferite. Il Ministro Tarchi riuscì a far firmare ai tedeschi un accordo in cui questi garantivano la restituzione degli impianti il loro ripristino, la sostituzione (se necessario) con complessi di uguale potenzialità e caratteristiche nell’ipotesi di distruzione, con spese totali a carico del Reich, oltre alla restituzione di materie prime asportate, prodotti semilavorati e la fideiussione della Deutsche Bank secondo le norme previste dalle convenzioni.

I tedeschi, come si vede, si piegarono (sicuramente fumando di rabbia), perché dopotutto sono tedeschi, riconoscono che quel che è giusto è giusto, e quando fanno ingiustizie hanno la coda di paglia. In breve, non sono The Ugly American. Il che contiene un ovvio insegnamento per i nostri politici: a RSI riuscì a reclamare la propria sovranità davanti a Berlino, ed era uno staterello a perdere, senza mezzi, disperato, che si sapeva destinato a durare pochi mesi.

Se oggi non si ottiene da Berlino quello che è giusto e si lascia fare ai tedeschi i maestri di scuola e i furbeschi gretti moralisti ai nostri danni, non è perché i Governi italiani non hanno «la forza». È che non hanno le palle.




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