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Obama promette di incriminare Bush. O quasi.
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E’ accaduto a Deerfield Beach, Florida, durante un incontro di cittadini-elettori con Joe Biden, il candidato alla vicepresidenza a fianco di Obama. Alla domanda di alcuni presenti, se la nuova amministrazione democratica è disposta a «perseguire le violazioni commesse contro la Costituzione dal presente governo», Biden ha risposto di sì (1).

«Non ci ritrarremo dal perseguire ogni fatto penale accertato», ha detto. Ed ha ricordato che varie commissioni del Congresso «stanno raccogliendo dati, convocando e registrando testimoni, formando un dossier. Fanno la cosa giusta, non muovo accuse false su niente». Ma «se ci sono basi per perseguire penalmente un violatore, saranno coltivate. Non per spirito di vendetta, ma per la necessità di preservare la coscienza che nessuno - non un attorney general, non un presidente - è al disopra della legge».

Anche Barak Obama, intervistato ad aprile dal Philadelphia Daily News, aveva detto più o meno: se sarò eletto, chiederò al procuratore generale di intraprendere prontamente l’esame degli atti dell’era Bush, se non altro per distinguere «le cattive politiche» dai «fatti penali veri e propri» (genuine crimes).

Poi però aveva aggiunto una frase che si può tradurre così: «D’altra parte, avete ragione, non vorrei consumare il mio primo mandato in qualcosa che sarebbe sentito dai repubblicani come una caccia alle streghe settaria; abbiamo troppi problemi da risolvere».

Anche Joe Biden, interpellato dalla Fox (neocon), ha annacquato tutto, in questo modo contorto: «Il fatto è che il Congresso USA sta raccogliendo testimonianze e documenti su questioni come se la legge è stata violata da qualcuno. Ma, come si sa,  avvengono un sacco di cose sgradevoli. E il solo fatto... che siano avveute sotto una precedente Amministrazione non significa che il ministero della Giustizia seguente, se ci sono prove di fatto, non debba perseguirle. Ma io non ho prove di questo. Non sto parlando di perseguire penalmente il presidente Bush».

Allora sì o no?

Il tema è delicato e questa ambiguità è costante fra i democratici. Da una parte la loro speaker, Nancy Pelosi, ha sempre rigettato anche la più lontana possibilità di ammettere una mozione di impeachment contro Bush, benchè i democratici abbiano ora la maggioranza parlamentare. Dall’altra, parecchi democratici hanno emesso parecchie convocazioni obbligatorie (subpoena) per chiamare a deporre alti esponenti del governo Bush, specie sul tema dell’autorizzazione alla tortura degli «enemy combatants» a Guantanamo, ed altre questioni gravi: per esempio aperta un’inchiesta sul licenziamento «politicamente motivato» di procuratori federali, e tre personaggi come Harriet Miers (già consigliere della Casa Bianca), Karl Rove (lo spin doctor) e Josh Bolten attuale capo dello staff, sono stati incriminati per «disprezzo del congresso» per aver rifiutato di rispondere alla convocazione. I casi sono ora davanti a una corte federale.

La prudenza e ambiguità democratica si spiega col fatto che anche il partito «di sinistra» è nelle mani dell’AIPAC, e del resto della nota lobby, che difende Bush ben cosciente che sta difendendo se stessa; ed ha tutti i mezzi per rovinare la campagna di Obama attraverso i media. Difatti, da giorni Biden corre qua e là davanti ad elettorati ebraici a rassicurare: Obama difenderà Israele meglio di Bush (2).

Ora però, sotto elezioni, i democratici sanno bene che una parte consistente del loro elettorato reclama azioni dure contro l’amministrazione Bush (non solo cattive politiche, ma veri e propri crimini), e vuole attrarre quei voti. Dopotutto, secondo sondaggi che risalgono al 2007 il 39-45% degli americani vorrebbero l’impeachment di Bush; ma 46-55% sono contro, e ciò dice come la questione sia altamente polarizzante, e dunque da maneggiare con prudenza. Dicendo sì ai seguaci in riunioni, e no alla Fox news.

Nel febbraio 2006 la American Bar Association (l’ordine degli avvocati, in certo senso) ha denunciato Bush di avere superato i suoi poteri costituzionali autorizzando intercettazioni telefoniche senza mandato giudiziario. La Casa Bianca sostiene che questi poteri sono impliciti nella funzione di Comandante in Capo che il preidente assume in guerra. La cosa è stata insabbiata.

Nel marzo 2003, un gruppo di soldati e loro familiari, cui si sono uniti membri del Congresso, ha ingaggiato una causa (John Doe I vs. President Bush) sostenendo che la guerra all’Iraq era stata scatenata in assenza di una dichiarazione di guerra varata dal Congresso, e dunque in violazione della Costituzione: un delitto, se provato, alquanto più grave della relazione sessuale per cui Clinton è stato sotto minaccia di impeachment per due anni. Ma il tribunale investito del caso lo ha respinto.

Le giustificazioni per l’invasione dell’Iraq - le armi di distruzione di massa di Saddam, i legami tra Saddam e Bin Laden - sono state comprovate false da documenti ufficiali, persino del Pentagono. La Commissione senatoriale per l’intelligence ha cercato di avviare un’approfondita inchiesta sulla questione, ma è stata insabbiata da nuovi «regolamenti» creati ad hoc dai repubblicani quando ancora erano maggioranza.

Autorevoli membri della American Association of  Jurists hanno denunciato che la guerra all’Iraq, non essendo difensiva, è una guerra d’aggressione: contraria dunque alla Carta dell’ONU (ratificata dagli USA), e quindi configarabile come «crimine contro la pace». Già il segretario dell’ONU in carica aveva definito l’aggressione dell’Iraq «illegale».

Nulla di fatto.

Dall’11 settembre 2001 Bush ha sancito che talebani, membri di Al Qaeda ed altri non meglio specificati «terroristi» sono «unlawful combatants» e dunque, a suo dire, non soggetti alle salvaguardie delle Convenzioni di Ginevra.

L’American Bar Association, Human Rights Watch e persino il Council on Foreign Relations hanno opposto che ciò è contrario al diritto interno e internazionale; una maggioranza di giudici della Corte Suprema (Hamdan vs. Rumsfeld) ha sancito che le Convenzioni di Ginevra si applicano ai detenuti per «terrorismo globale».

Risultato: zero.

Anzi il Congresso ha approvato nel 2006 una legge (Military Commissions  Act) che fornisce un quadro «legale» per la detenzione dei «combattenti illegali» e il loro processo in commisioni militari a porte chiuse. Molti senatori hanno dichiarato che questa «legalità» è incostituzionale, e implicitamente che simile legge sarebbe motivo di impeachment, almeno quanto il lavoretto di Monica Lewinsky.

Zero su zero.

Numerose «renditions» di prigionieri e sospetti sono state fatte dalla CIA, ossia estradizioni in Paesi dove questi detenuti sono stati torturati. Le Nazioni Unite reiteratamente, con la UN Convention Against Torture, ancora il 19 maggio 2006 hanno dichiarato questa pratica americana illegale, e in violazione delle norme internazionali.

La stessa UN Convention ha deplorato le tecniche di «interrogatorio intensificato» (enhanced interrogation techniques), fra cui il famigerato waterboarding, come tortura. Tali «tecniche» sono state documentate molte volte e al di là di ogni dubbio.

Alcuni alti giuristi militari americani, come Alberto J. Mora, hanno testimoniato che gli ordini di torturare (pardon, «interrogare con intensità»)  sono giunti dai più alti livelli dell’Amministrazione. Esiste persino un rapporto della Croce Rossa Internazionale che ha avvertito la Casa Bianca che i metodi d’interrogatorio usati dalla CIA possono rendere l’Amministrazione passibile di denuncia per crimini di guerra.

 L’Amministrazione ha infine varato il Detainee Treatment Act nel 2005, per regolamentare e ridurre i numerosi abusi documentati. Ma nella dichiarazione di firma della legge (signing statement), Bush ha esplicitamente affermato la sua intenzione di non tener conto della legge, in caso di «necessità».

Lasciamo perdere altri casi da impeachment - dalla latitanza del governo durante l’uragano Katrina, fino al licenziamento di sei avvocati federali (attorney general) per motivazioni politiche oscure (per vari motivi, erano invisi ai repubblicani), fino al potere di detenere cittadini americani senza accusa nè processo, ossia l’abolizione dell’habeas corpus.
Il centro della questione è che Bush (o chi lo manovra) si è accaparrato poteri esecutivi di un’ampiezza e arbitrarietà mai viste, rendendosi insindacabile con la scusa che c’è la guerra al terrorismo globale e quindi lui è il Commander in Chief.

Praticamente, secondo quanto ha denunciato il giurista Glenn Greenwald, oggi i tre poteri dello Stato (esecutivo, legislativo e giudiziario) sono accentrati nella stessa persona, in contrasto totale con lo spirito e la lettera della Costituzione voluta dai Padri Fondatori.

A questo proposito John Nichols di The Nation ha scritto, con giustificato allarme: «Se Bush e Cheney non sono chiamati a render conto, questa Amministrazione consegnerà ai suoi successori un armamentario di strumenti di potere più grande di quanto abbia mai avuto un esecutivo; più autorità, e concentrata in meno mani, di quanto i Fondatori abbiano mai concepito, per non dire consentito» (3).

Ciò significa riconoscere che la democrazia americana ha subìto un colpo di Stato ed è ora un regime dittatoriale.

Tutte le accuse di cui sopra sono state nel giugno scorso raccolte dal deputato Dennis Kucinich, subito affiancato dal collega Robert Wexler, che ha depositato 35 motivi di impeachment contro George Bush. I democratici hanno fatto finta di niente, o trascinato le cose fino ad oggi - quando ormai un procedimento d’impeachment contro Bush, uscente, ha poco senso.

Resta dunque la possibilità di azioni penali successive, del genere di quelle evocate da Biden e da Obama per chiari motivi elettorali, e poi in parte smentite davanti ai media della nota lobby.

Ma la sola eventualità sta inducendo in queste settimane Bush e la sua amministrazione a varare leggine intese a proteggersi il didietro: la conferma dello stato di guerra perpetua (che giustifica gli arbitrii del commander in chief), un embargo più feroce contro l’Iran (4), il tutto unito alle provocazioni intese ad aprire forse nuove fasi belliche (Georgia, Ucraina, Pakistan), probabilmente alla ricerca del casus belli che possa - magari - giungere fino alla sospensione del voto.

Così, magari per eccesso di pessimismo, tendiamo a credere che Obama non farà nulla: troppe verità scottanti rischiano di venire alla luce, dirompenti per la fede nella «religione civile» americana. E forse, a qualunque successore non dispiace di avere «un armamentario di poteri senza precedenti».

Lo stato orwelliano di guerra perpetua è troppo favorevole, ed appare ormai inerente al regime americano. 





1) Elana Schor, «Obama might pursue criminal charges against Bush administration», Guardian, 3 settembre 2008.
2) Brendan Farrington, «In Florida, Biden touts record on Israel», AP, 3 settembre 2008.
3) Per una descrizione generale della casistica, si veda l’ottima voce «Movement to impeach George W. Bush» su Wikipedia.
4) John Byrne, «Bush quietly seeks to make war powers permanent  by declaring indefinite state of war», Raw Story, 30 agosto 2008. «Buried in a recent proposal by the Administration is a sentence that has received scant attention - and was buried itself in the very newspaper that exposed it Saturday. It is an affirmation that the United States remains at war with al Qaeda, the Taliban and "associated organizations". Part of a proposal for Guantanamo Bay legal detainees, the provision before Congress seeks to «acknowledge again and explicitly that this nation remains engaged in an armed conflict with Al Qaeda, the Taliban, and associated organizations, who have already proclaimed themselves at war with us and who are dedicated to the slaughter of Americans».


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