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Olocausti: occhio alle contraffazioni
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Inverno 1945. Herman Rosenblatt, un ragazzino ebreo, è rinchiuso a Schlieben, una tragica succursale di Buchenwald. Un giorno, al di là dei reticolati, il lacero, affamato e infreddolito Herman scorge una bambina di nove anni. La bambina si avvicina e gli lancia una mela al di là del filo spinato. Da quel giorno la bambina - essa stessa ebrea, che però contadini polacchi di un vicino casolare hanno fatto passare come loro figlia, e cristiana - torna a gettargli pane e mele; per sette mesi, fino a quando Herman viene trasferito in un altro lager.

Fine della guerra. Herman Rosenblatt viene liberato e si stabilisce in America. Nel 1957, ventenne a Coney Island, il ragazzo, in cerca di compagnia, si trova ad accettare un «appuntamento alla cieca»  con una giovane immigrata polacca di nome Roma Radzicki. Entrambi si raccontano di come hanno vissuto negli anni della guerra. Roma gli parla di un bambino che aiutò allora a sopravvivere, gettandogli delle mele oltre il reticolato di Schlieben. Folgorante agnizione: i due si riconoscono, si amano e decidono di unire definitivamente i loro destini. Pochi mesi dopo, si sposano.

Come non riconoscerlo? Fra tutte le memorie dei sopravvissuti alla Shoah, questa è la più commovente. Tanto che è diventato un libro di successo: «Angel at the Fence - The true story of a love that survived», (L’Angelo al reticolato - La storia vera di un amore sopravvissuto); lo ha scritto dieci anni fa lo stesso Herman Rosenblatt, ormai pensionato e stabilitosi a Miami. La memoria è pubblicata da Berkley Books, la filiale editoriale di massa di Penguin.

Dire best-seller è dir poco. Il libro e il suo autore (sempre affiancato dalla moglie, l’ex bambina) sono stati presentati ben due volte nel seguitissimo «Oprah Winfrey Show», dove la anchorwoman libraria più nota di America, Oprah Winfrey, decreta il successo dei grandi libri del momento. Da lì, innumerevoli articoli sui grandi giornali, interviste su CBS e Hallamark Channel; il libro viene pubblicizzato come il regalo ideale per il Giorno di San Valentino, festa degli innamorati; lo scorso settembre, è apparsa una riduzione per bambini, «Angel Girl»; è in corso la lavorazione del film tratto dalla storia vera più commovente del secolo, «Flower of the Fence» (Il fiore del reticolato) con un budget di 25 milioni di dollari. L’autore Rosenblatt riceve piogge di diritti d’autore.

Fino al 26 dicembre scorso. Quando Berkley Book annuncia con un comunicato di aver cancellato il best-seller «Angel of the Fence» dal suo catalogo, di aver rinunciato alla ristampa, e di avere «intenzione di chiedere all’autore e al suo agente Andrea Hurst la restituzione di tutto il denaro che hanno ricevuto per l’opera» (1).

Harris Salomon, il produttore del film tratto dalla bella memoria olocaustica, ha parimenti rinunciato alla produzione: «Rosenblatt mi ha ingannato professionalmente e personalmente», ha detto Salomon.

«Ha un solo modo per chiudere questa storia: tornare all’Oprah Winfrey Show con sua moglie Roma e spiegare perchè ha inventato tutta la storia».

Perchè la storia è falsa. Inventata di sana pianta, come ha scoperto il periodico «The New Republic» dopo un’accurata inchiesta.

Probabilmente, a far nascere i primi dubbi è stato il fatto che Herman e Roma sua moglie abbiano atteso 40 anni prima di raccontare la loro storia vera. Come mai?

Rosenblatt ha spiegato: «Negli anni ‘90, sono stato ferito da un rapinatore che ha fatto irruzione nel mio negozio di televisori. Mentre ero all’ospedale, mi è apparsa in visione mia madre, scomparsa nell’Olocausto, e mi ha detto che dovevo condividere la mia storia d’amore con il prossimo».

Una bella storia di troppo, con un’aggiunta paranormale di troppo.

Così, i giornalisti di The New Republic hanno sottoposto il caso al professor Kenneth Waltzer, direttore della facoltà di Studi Ebraici alla università statale del Michigan. Waltzer ha compulsato la mappa del campo di Schlieben: ed ha scoperto che il solo punto dove un prigioniero o un civile da fuori potevano avvicinarsi al reticolato era a fianco della caserma delle SS.

Compagni di prigionia di Herman Rosenblatt hanno detto che lui non aveva mai parlato della ragazzina che lo nutriva con mele e pane; e se pur c’era una esilissima possibilità che il giovane Herman potesse aver tenuto nascosta quella sua conoscenza, certo agli altri prigionieri non sarebbero sfuggite le mele in suo possesso. A parte che d’inverno in Polonia, trovare mele è raro anche in tempo di pace... Per di più, i vecchi compagni di prigionia a Schlieben hanno avuto periodici incontri per ricordare i tempi brutti; e Herman Rosenblatt vi partecipava, senza aver mai raccontato quel lato della sua storia.

«Una storia inventata», ha sancito il professor Waltzer.

Non è la prima, come si sa - o come si saprebbe se la stampa italiana ne avesse parlato.

La stampa di Francia e Belgio ha dato ampi resoconti della avventurosa e commovente storia della piccola ebrea Misha Defonseca, apparsa una dozzina di anni fa in un libro fortunato: «Misha - Memoria degli anni dell’Olocausto», dove l’autrice racconta la sua storia di piccola perseguitata in fuga per mezza Europa, giungendo fino a vivere con dei lupi (2). Un successone: traduzioni in 18 lingue, un film francese (Survivre avec les Loups), l’interessamento della Walt Dinsey Corp. per un film in USA, l’immancabile invito di Oprah Winfrey.

Poi si è scoperto che anche quello era un falso. A tradire l’autrice (la sua ghost writer, Vera Lee) è stata l’avidità; ad un certo punto hanno querelato l’editore inglese del loro libro, Jane Daniel di Gloucester, accusandola di aver mancato di promuovere il libro in USA e di avere incamerato profitti non contabilizzati. La Corte superiore del Middlesex decretò un risarcimento di 7,5 milioni  di dollari, deplorando l’avido editore che sfruttava una piccola sopravvissuta dai lager.

L’editore ha fatto ricorso (intanto una corte d’appello aveva triplicato il risarcimento, a 22 milioni di dollari: bisogna colpire duro questi antisemiti), e ha arruolato dei detectives privati per scoprire qualcosa a carico di Misha Defonseca, che le consentisse di scongiurare il pagamento miliardario.

Prontamente, i detective hanno contattato una ricercatrice genealogica, Sharon Segreant, la quale ha scoperto che Misha Defonseca si chiamava in realtà Monique De Wael, che era stata battezzata in una chiesa cattolica di Bruxelles nel 1937, e che nel 1943-44, quando secondo il suo racconto errava, piccina di soli sei anni, tra Germania, Polonia e Ucraina, riuscendo a fare amicizia con un branco di lupi, ad uccidere un soldato tedesco e a raggiungere il ghetto di Warsavia da cui poi sarebbe fuggita, ma non senza prima essere stata testimone oculare delle deportazioni e dell’eroica resistenza - in quei due anni, Monique alias Misha frequentava - come una normale bambina belga cattolica - una scuola elementare a Bruxells, e ciò risultava dai documenti scolastici.

La falsa ebrea Misha ha dovuto confessare. Mirabolante più del suo racconto anche la sua ammissione.

«Sì, mi chiamo Monique DeWael, ma l’ho voluto dimenticare fin da quando avevo 4 anni... Dal mio primo ricordo, mi sono sempre sentita ebrea. Certe volte non riesco a distinguere tra la realtà e il mio mondo interiore. La storia del libro è la mia storia, la ‘mia’ realtà».

A Sidney, l’editoriale UWA Press ha dovuto mandare al macero una lacerante «memoria di sopravvissuto» per lo stesso motivo. L’autore, Bernard Holstein, aveva ricordato la sua terribile esperienza di bambino internato ad Auschwitz: come vi fosse stato sottoposto ad esperimenti in quanto cavia umana, come si fosse unito alla resistenza occulta nel lager, come fosse fuggito solo per essere di nuovo catturato, e sottoposto a feroci torture dai cattivissimi nazisti; e come nonostante queste prove, fosse sopravvissuto sano e vegeto.

Al suo editore, come prova, Holstein mostrò il tatuaggio che recava sulla parte interna del braccio sinistro: il numero 111.404, la matricola dell’internato. Niente certificato di nascita in Germania, nessun testimone che confermasse la sua esperienza nel lager, nessuno che ricordasse il suo arrivo a Sideny da un centro di raccolta a Cipro, dove Holstein diceva di essere giunto dopo la liberazione.

Ma come si fa a dubitare di una vittima olocaustica? Holstein è stato invitato da tante scuole australiane a parlare della sua avventura: un bel modo per attuare il programma obligatorio di «Memoria della Shoah».

A guastare la festa è stata la famiglia adottiva australiana di Holstein: la quale ha rivelato che quel suo figlioccio si chiamava Bernard Brogham, che non era nato in Germania, e - fra l’altro - non è ebreo.

Nel 1999, in Germania, ha avuto un travolgente successo «Frammenti», un libro di 155 pagine in cui l’autore, Binjamin Wilkomirski, rievocava la sua vita di orfano ebreo lituano, internato in due lager successivi: la vivida incancellabile memoria dei topi che rosicchiavano cumuli di cadaveri, di bambini che per fame si mangiavano le dita fino all’osso. Tutto vero, tutto tremendo.

Wilkomirski è stato ospite alla Fiera del Libro di Francoforte, ha percorso gli USA a raccontare i suoi vividi ricordi in conferenze finanziate dall’US Memorial Museum, ha ricevuto in USA il «National Jewish Book Award» e, a Parigi, il «Prix Mémoire de la Shoah» .

La fortuna è durata fino a quando si è scoperto che Wilkomirski si chiama in realtà Bruno Doessekker, e che non è un ebreo ma uno svizzero, e nemmeno orfano. Lo storico elvetico Stephan Machler ha appurato, cercando negli archivi, che il piccolo presunto orfano ebreo non aveva mai lasciato la Svizzera negli anni in cui sosteneva di essere stato ospite di Majdnek ed Auschwitz (3).

Strani dubbi circondano da oltre 40 anni anche il celebre Diario di Anna Frank. Sicuramente la poveretta è finita a Belsen (dove la conobbe la madre di Daniel Finkelstein, autore de «L’Industria dell’Olocausto»). Ma secondo le ricerche del giornalista Brian Harris (4), il padre di Anna, signor Otto Frank, avrebbe affidato la rielaborazione e il rimpolpamento dello smilzo Diario manoscritto originale a Meyer Levin, noto scrittore americano e sionista militante (fu membro dell’Haganah).
Esisterebbe anche una sentenza della Suprema Corte di New York che obbliga Otto Frank a pagare 50 mila dollari di onorario per il lavoro, quello che ha portato alla terza e definitiva edizione del vero Diario di Anna Frank.

Pesanti sospetti aleggiano persino attorno ad Elie Wiesel, l’icona vivente del sopravvissuto all’Olocausto, Nobel per la Pace 1986, onnipresente e altezzoso ospite d’onore in tutti le occasioni della «Memoria», conferenziere planetario a 25 mila dollari a conferenza.

I sospetti sono tornati d’attualità nel 2006, in occasione dell’ennesima ristampa dell’edizione americana di «Night», la sua autobiografia, fortunatissima rievocazione delle sofferenze inenarrabili di Wiesel nei campi di sterminio nazisti.

holocaust_memory.jpgNella nuova prefazione di «Night» (rinnovata allo scopo di partecipare allo show di Oprah Winfrey, e rinverdire le vendite del vecchio best-seller), lo stesso Wiesel afferma che la nuova edizione «corregge diversi piccoli errori di fatto delle precedenti traduzioni» (la prima edizione, 40 anni fa, era in francese da un supposto manoscritto yiddish). Ma senza specificare quali correzioni avesse fatto alla sua veridica memoria.

I critici, ha raccontato il New York Times, si sono lanciati a cercare le discrepanze (5). A quanto pare, Wiesel aveva corretto l’età della sua entrata a Birkenau: «non ancora quindicenne» nelle prime edizioni, poi quindicenne nell’ultima. Wiesel essendo nato il 30 settembre 1928, qualcuno gli aveva fatto notare che nel 1944, quando fu internato, andava per i 16.

La nuova edizione ha edulcorato la descrizione di certe furtive  attività sessuali a cui si abbandonavano i giovani ebrei prigionieri che venivano portati ad Auschwitz in un vagone per il bestiame. Nelle precedenti edizioni, queste effusioni erano denominate col verbo «copulate»; in successive ristampe, sono divenute «flirt». Nell’ultima e rinnovata versione, i giovani prigionieri «si accarezzavano».

Più il tempo passa, e più i sofferenti dell’Olocausto diventano casti. Non copulano, si accarezzano. Poi ci sono aggiunte che si riferiscono alla morte del padre di Wiesel.

«Nulla che contraddica la versione originale », ha fulminato Wiesel, corrucciato da tanto antisemitismo.

Infatti ha ragione. Le varianti sono piccolezze. Che la memoria con gli anni sbiadisca, e debba essere corretta, è fin troppo umano. E sono piccolezze anche i falsi ricordi olocaustici che diventano sempre più frequenti - e sempre più premiati, pubblicizzati e adottati anche nelle scuole - via via che i veri sopravvissuti, con l’inesorabile passare del tempo, scompaiono portando con sè le loro memorie.

Si guardi il lettore di ricavare da questo fenomeno di contraffazione la conclusione che l’Olocausto non sia mai esistito, che i 6 milioni di morti non furono sei, che forni crematori e camere a gas sono anch’essi un’invenzione.

Da questa conclusione, personalmente, mi dissocio con tutte le mie energie; pronto, a richiesta, a dissociarmi anche da me stesso (6).

Ciò che questo articolo intendeva far notare è altro, e più modesto: un fenomeno che allarma meno lo storico che l’economista di mercato: la frode in commercio. La contraffazione di marchi prestigiosi è un fenomeno notoriamente in crescita, fra l’altro molto dannoso per il Made in Italy. Per quanto deplorevole, il fenomeno ha una forte giustificazione venale e mercantile: il logo «Dolce & Gabbana» consente di vendere a 150 un jeans identico a quello che si trova al mercato rionale a 10; il marchio «Prada» consente di esitare a 8 mila euro una borsetta di pezza fabbricata in Cina per 5 dollari e forse meno.

La griffe «Vera Memoria dell’Olocausto» soggiace, per così dire, allo stesso facile valore aggiunto: tentazione irresistibile per scrittori senza qualità, ma desiderosi di assurgere alla testa delle classifiche di vendite, spacciando le loro fantasie per autobiografie della Sofferenza Assoluta.

Come l’ipocrisia - disse Voltaire - è l’estremo omaggio che il vizio rende alla virtù, anche questa pioggia di contraffazioni, in fondo, va intesa come un estremo omaggio alla Sola Religione Rimasta, tributato da goym, svizzeri belgi o australiani, che sognano di essere giudei aureolati dalla persecuzioni.

Ma il fenomeno è destinato a crescere irresistibilmente: non senza la responsabilità delle lobby del Piccolo Popolo Sofferente, impegnate a mantenere verde una «memoria» e il senso di colpa lucroso che ne deriva, nonostante l’inarrestabile inaridirsi delle memorie dei sopravvissuti, sempre più inclini a diventare trapassati. Così, accade che il Memorial Museum premi come «Autentica Memoria» cose che sono palesi contraffazioni.

Di questo passo, finiremo per applaudire libri di orfani ebrei cinesi perseguitati dai nazisti cinesi, e con la scritta in piccolo «Made in China». 




1) Gabriel Sherman, «The greatest lover story ever sold», The New Republic, 25 dicembre 2008.
2) David Mehegan, «Author admits making up memoir of surviving Holocaust», Boston.com, 29 febbraio 2008.
3) Doreen Carvajal, «Disputed Holocaust Memoir Withdrawn», New York Times, 28 dicembre 2008.
4) Brian Harris, «The Anne Frank Diary Fraud», TRB News, 22 febbraio 2002.
5) Edward Wyatt, «The Translation of Wiesel’s ‘Night’ Is New, but Old Questions Are Raised», New York Times, 19 gennaio 2006. Notevole e consigliata la lettura di Christopher Hitchens, «Wiesel Words», The Nation, 19 febbraio 2001, che esordisce: «IS THERE a more contemptible poseur and windbag than Elie Wiesel?», ossia: «Esiste al mondo un poseur disprezzabile e pallone gonfiato  come Elie Wiesel?».
6) Ciò che avveniva agli intellettuali in Paesi dove vigeva la libertà d’opinione di tipo sovietico: «A volte ho pensieri da cui mi dissocio».


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