L’Impero Americano: una conclusione (Prima parte)
AntiWar
25 Marzo 2009
Dove va l’America?
Nota dell’Autore: quello che segue è il testo di un intervento alla Conferenza “Le prospettive di pace nel 21° Secolo”, tenutasi il 21 marzo a Parigi, col patrocinio del Bernardins College e dell’Università della Sorbona.
Il tema del mio discorso odierno, il declino e la caduta dell’impero americano, non mi rallegra affatto; prima di tutto, io sono americano e, poi, perché la descrizione dell’America come un impero è fin troppo vera. Quando pensate che la Rivoluzione Americana fu combattuta principalmente contro un potere imperiale, che gli Stati Uniti si formarono durante una lotta contro un esercito di occupazione, e che la vittoria contro gli inglesi fu di ispirazione per gli anti-imperialisti di tutto il mondo, è veramente vergognoso venire qui a descrivere come tutto ciò sia finito in tragedia, tradimento ed in breve e odioso declino.
Quel declino non era scritto negli astri ma è stato reso inevitabile dalle azioni di singoli uomini (e donne!), quegli uomini e donne che ci governano, le elites del governo e del mondo aziendale, dei mezzi di informazione e delle classi dirigenti. Il loro atteggiamento mentale è stato ben riassunto da un anonimo funzionario della Casa Bianca, in un intervista al giornalista Ron Suskind, rispondendo ad una obiezione contro la guerra in Iraq e la politica dell’amministrazione Bush della guerra preventiva.
“Il funzionario disse che le persone come me si trovavamo ‘in quella che chiamiamo la comunità basata sulla realtà, - che egli definì come composta di person e- ‘che credono che le soluzioni emergano dal proprio attento studio della realtà distinguibile… ‘In realtà il mondo non funziona più in questo modo’ continuò, ‘adesso noi siamo un impero, e costruiamo la nostra realtà mentre agiamo. E mentre voi studiate quella realtà, con tutta l’attenzione possibile, noi continueremo ad agire, creando altre realtà nuove, che voi potrete anche studiare, ed è così che le cose verranno fatte. Noi siamo gli attori della storia…, e voi, tutti voi, potrete soltanto studiare ciò che noi facciamo.’”
Mentre indubbiamente molto diffuso a Washington, questo modo di pensare ha caratterizzato non solo l’amministrazione Bush ma è stato ed è tuttora emblematico delle classi governanti di tutti i paesi occidentali. Gli antichi Greci avevano una parola per definirlo: hubris, che si potrebbe definire come una specie di arrogante superbia, tale da spingere i comuni mortali a credere di poter agire come dei. Era considerato il peggior peccato possibile (quello che scatenava l’ira degli dei, la fthonos ton teòn, n.d.t.). Questo atteggiamento mentale tuttora permea la cultura moderna, almeno nel mondo occidentale, e mentre le sue radici sono principalmente psicologiche, la prima evidenza di questa crisi si manifesta nell’economia.
Abbiamo sentito parlare di “bolla” e del preteso “pericolo” di deflazione come radice del problema. Una contrazione radicale dell’attività economica, milioni di disoccupati, colossi economici fatti a pezzi; improvvisamente, ci hanno detto, trilioni di dollari sono spariti, dal giorno alla notte, come a nebbia che all’alba si alza sul fiume. Dove sono andati a finire? In tasca a chi? Oppure, prima di tutto, non ci sono mai stati?
Per anni abbiamo continuato ad indebitarci e abbiamo stampato denaro per coprire gli interessi, mentre il capitale non veniva rimborsato. Sempre di più, in una nazione che non crea altro che annunci e complicati strumenti finanziari troppo complessi da capire, i costi dell’impero sono stati sopportati dai contribuenti mentre i benefici sono stati divorati dalla nostra unica e sola industria che vanti prospettive di crescita, cioè il nostro complesso militar-industriale.
Gli Stati Uniti sono fondamentalmente un impero che ha fatto bancarotta. Siamo come una famiglia una volta grande e poi trovatasi in ristrettezze economiche, cui è stata pignorata la casa e che se ne sta tranquillamente in salotto a chiacchierare, come se niente fosse, mentre l’ufficiale giudiziario sta arrivando per sfrattarci. Gli esseri umani sono creature abitudinarie: continuano a comportarsi nello stesso modo anche quando le circostanze sono ormai cambiate. L’altro giorno il presidente Obama ha annunciato la prossima grande fase nella “guerra al terrorismo” che ha ereditato da George W. Bush: stiamo per mandare altri 17.000 soldati in Afghanistan, raddoppiando quindi il numero di soldati in quel paese, ed abbiamo cominciato a lanciare attacchi oltre frontiera in territorio pakistano. La guerra la terrorismo continua ad espandersi e l’economia americana continua a contrarsi. Come pagheremo tutto ciò?
Chiunque creda realmente che gli Stati Uniti si ritireranno, che rinunceranno ad arrogarsi il compito di gendarme del mondo, o che perlomeno riducano la propria presenza internazionale in maniera significativa, sta semplicemente sognando. In verità l’attuale crisi finanziaria può ben dimostrarsi un incentivo ad aumentare tale presenza e, specificamente, per una escalation della cosiddetta “guerra al terrorismo”.
Tanto per cominciare, incrementare le spese del governo è il nocciolo essenziale della filosofia del nostro nuovo presidente: una nazione che ha speso fino a ridursi indigente adesso si abbandona ad un’orgia di spese per “stimolare” l’economia. Ora, ci sono tanti pozzi senza fondo in patria che possono assorbire tutti questi dollari, a meno di non elargirne a piene mani ai propri sostenitori o buttarli da un aereo. Comunque, se andiamo all’estero, c’è un sacco di nuove opportunità di sperperare denaro in giro come se non dovesse mai esserci un domani: guardate per esempio la cosiddetta ambasciata che stiamo costruendo in Iraq, più grande dell’intero Vaticano e che contiene in sé stessa un’intera città, completa di sale cinematografiche, centri commerciali e quant’altro necessario all’umana felicità, con la sola eccezione dei bordelli. E, naturalmente, questa città mascherata da “ambasciata” deve essere difesa, non può essere vittima dei nemici dell’America; e ci vorranno migliaia di soldati americani per salvaguardarla. Ho un’informazione per voi: checché ne possa dire il nostro presidente, noi non lasceremo l’Iraq tanto presto.
(Fine prima parte)
Tradotto da Arrigo de Angeli per EFFEDIEFFE.com
Justin Raimondo
Fonte > Antiwar | 23/3/2009