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Lasciare un "segno" su Roma
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Nessuno più degli ex amministratori capitolini dovrebbe ammettere la difficoltà di operare scelte sul corpo complesso di Roma. Un corpo – se si esclude la “cura del ferro” – abbandonato per il quindicennio rutellian-veltroniano a uno sciapo provincialismo urbanistico, culminato nella facile e acritica accettazione del feticismo commerciale delle archistar. La destra sociale alemanniana ha almeno fin dall’inizio giustamente condannato gli interventi-spot di Meier o di Piano, entrando così in sintonia con la popolazione, la quale, più che belle opere nel senso estetico del termine (soggettivo e cerebrale, e quasi sempre anti-popolare), desidera una bella città in cui vivere. Un urbanista di sinistra, Campos Venuti, sostiene che la bellezza di una città risiede innanzitutto nella cultura che ne sostiene l’ordito logico e permette ai cittadini di usare una macchina urbana di buona qualità. Vero. Ma la città è anche e innanzitutto sentimento concreto e quotidianità, respiro metafisico, fatto di carne, mattoni, relazioni. Bella non è la città dichiarata tale dai critici alla moda, o dalla funzione economico-produttiva, ma quella dove le persone concrete godono a stare, vivere, lavorare: un luogo vivo, posseduto e amato da chi vi abita.
 
In un libro appena pubblicato (La città sostenibile è possibile, Gangemi) il prof. Ettore M. Mazzola ha fornito dati molto interessanti sull’architettura romana tradizionale: dura di più e costa di meno delle costruzioni moderne, genera lavoro specializzato, la gente la abita con piacere. La sua ecologia è superiore a molta sedicente bio-architettura. Perché, allora, a partire dalla metà degli anni ’20 è stata soppiantata? Se la qualità di Garbatella e San Saba, i cui edifici non hanno avuto bisogno di alcun restauro per quasi un secolo, e dove la gente si sente “a casa”, è stata seguita dal degrado criminogeno di Corviale, costato in proporzione fino al 40% in più, e già in via di osceno sgretolamento, lo si deve a ragioni storiche e speculative, ma anche a un’ideologia della pianificazione dall’alto che paradossalmente ha conosciuto molti difensori a sinistra, e una serie di sperimentazioni dove – rileva Mazzola – le cavie sono i cittadini.
 
La frontiera della progettazione scientifica (Smart Code, Pattern Language, Biofilia), lontana dal glamour delle archistar, guarda ai centri storici: organismi iperconnessi, autorganizzati, paradigmatici per le scienze della complessità e dell’intelligenza artificiale. In parole semplici: luoghi dov’è bello abitare, perché la conformazione stessa dello spazio risponde alla natura degli esseri umani, facilita la connessione e le relazioni fra le persone, collega le funzioni socioeconomiche. Con tale modello il Campidoglio può innescare una rivoluzione urbana all’avanguardia in Europa e nel mondo, assai più incisiva di qualunque “star-spot” che produce luoghi (o non luoghi) distinti dalla città, oltre che molto più economica ed efficiente: trasformare progressivamente e partecipativamente ogni zona urbana in un centro piacevole per la vita. I mezzi e le competenze ci sono, è solo compito del coraggio culturale e politico di impiegarli per lasciare un segno d’amore sulla città eterna.
 
Alcuni esempi: 1) Corviale, abbattimento graduale del dinosauro, e sua sincronica sostituzione, riempiendo il vuoto desolante, con edifici a misura umana, connessi in rete biofilica a piazze all’italiana, strade piccole, prati, accessibili da tutti i punti. 2) Ostiense, recupero dell’area morta e pericolosa dell’ex-gazometro a nuovo centro della città politica da disporsi lungo il Tevere, con edifici e percorsi urbani a valenza simbolica, interlacciati a strutture residenziali e commerciali. Il fiume funzionerebbe da corridoio preferenziale per smaltire il traffico dei politici in arrivo da Fiumicino. 3) Lungotevere di S. Michele, ridimensionamento biofilico e scalare del complesso, e recupero della strada e del lungofiume alla vita sociale.

Stefano Serafini (Gruppo Salingaros)

Fonte > 
Il Tempo |  23/04/2010, p. 20

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