Contro Visco, preghiamo Sant'Antonio
19 Gennaio 2008
Una famiglia su due vive con 1.872 euro al mese, e vive male.
Penso ricordiate perfettamente cosa era, alla vigilia dell’introduzione dell’euro, l’equivalente in lire: 3 milioni e 700 mila.
Era lo stipendione di un medio dirigente.
Buono anche per la carissima Milano.
Abbastanza da situarvi nella media borghesia.
Trichet intima di non aumentare i salari, perché altrimenti lui alza i tassi ancora un po’: dice che c’è l’inflazione.
Ma il grosso dell’inflazione l’ha creato proprio la BCE, con l’euro.
E’ già fatto.
I rincari in corso, petrolio e grano, contro cui non possiamo far niente perché derivano dal mercato globale, sono pìccolezze al confronto del miracolo oscuro della BCE: d’un colpo ci ha dimezzato il potere d’acquisto.
Per portarci, ritengo, più vicini ai salari cinesi, per renderci più competitivi.
I sindacati finalmente si sono accorti che gli operai non ce la fanno, sono i meno pagati d’Europa. Confindustria prevede un aumento pari a 2,5 euro al giorno, gli operai vogliono di più.
I politici «agitano il problema», ci fanno vedere che sono consapevoli delle nostre strettezze: mai però che avanzino una proposta per risolvere il problema.
Perché la soluzione è una sola, e nello stesso tempo impossibile - e inconfessabile.
Come sa ogni famiglia, risparmiare sulla bistecca e la frutta è battaglia persa.
Perché poi arriva l’assicurazione auto (almeno 700 a bimestre), il telefono, l’elettricità (le bollette più care d’Europa per i servizi più scassati d’Europa), la rata del mutuo o l’affitto, qualche multa,
il bollo auto, il canone TV, gli infiniti balzelli del vivere: ed è quello che stronca.
Spese che si portano via fette sempre più grosse di quei 1.872 euro mensili, e che sono «incomprimibili».
Bisognerebbe tagliare lì, naturalmente.
Già basta dire quello che tutti sanno: che quei 1.872 euro sono quel che resta dei circa 3.500 euro della paga lorda, dopo che il fisco ha prelevato l’imposta personale, e l’INPS i contributi.
Siamo benestanti prima delle tasse; dopo il prelievo, siamo poveri che faticano ad arrancare a fine mese.
Visco e il Fisco ci tassano come quando eravamo davvero benestanti in lire, a 3,8 milioni mensili. Con un lordo così, siamo scuoiati dall’aliquota massima: per il fisco sono ricchi anche i poveri (naturalmente, i veri ricchi è tanto se si degnano di pagare il 15%).
Anche il pensionato a mille euro, che nel resto d’Europa è esente, qui è contribuente.
Un signore.
Ridurre le tasse alle categorie fino al 1.900 euro?
Non sia mai.
Lo Stato ha bisogno estremo di denaro per le «spese correnti»: autoblù, lussi della Casta, stipendi dei primari che Mastella mette a capo degli ospedali campani (e «Mastella sceglie solo i peggiori», come dice il direttore Annunziata in una telefonata intercettata, Annunziata il traditore dell’Udeur perché non ha voluto obbedire una volta: ma non «reato», solo «malcostume», anche se poi qualche paziente crepa).
Ma non facciamo del populismo.
Riconosciamo che il grosso della spesa corrente viene da tre voci: gli interessi sul debito pubblico titanico unico in Europa, il costo schiacciante della previdenza, e la spesa sanitaria gestita dalle regioni, i più irresponsabili degli enti.
Come si è arrivati a queste colossali spese correnti «incomprimibili» e a tale tassazione?
Il problema va posto.
Uno Stato definito totalitario per eccellenza, quello di Hitler, tassava il reddito personale al 27%.
In totalitarismo, la burocrazia e la «democrazia» hanno superato Hitler.
Sono tutte conseguenze di decisioni «politiche» prese oltre trent’anni fa.
Dal ‘69, credo, fu allegramente decretato che l’INPS avrebbe pagato, con 40 anni di contributi, pensioni pari all’80% dell’ultimo salario.
Che la percentuale era insostenibile si capiva già allora, ancora nel boom economico.
Ci furono resistenze, inascoltate.
Era il tempo in cui ancora l’INPS era gestito da tecnici assicurativi competentissimi, gli attuariali, ma già stava per essere consegnato alla direzione CGIL-CISL-UIL: associazioni private che gestivano un ente pubblico istituzionale.
Era già la «politica» che voleva prevalere sulla contabilità.
Ha prevalso, e i risultati si vedono.
Quanto alla creazione delle regioni, ricordo benissimo che, allora, non se ne sentiva alcuna esigenza.
Non c’era una domanda popolare di «federalismo», tutt’altro.
Le Regioni erano nel programma del Partito Repubblicano.
Ugo La Malfa, il massone internazionale, voleva la regionalizzazione nel più vasto piano dell’Europa del massone Jean Monnet, per depotenziare le sovranità nazionali.
La Malfa era un uomo lugubre, ideologicamente determinato, e aveva dietro i capitali USA (era stato un informatore dell’OSS, la futura CIA).
La DC, per averlo al governo, gliela diede vinta.
Del resto la sinistra DCgià aveva capito quel che si poteva ricavare dalle regioni, in fatto di «clientele».
I comunisti, con il blocco delle regioni rosse assicurato, avevano capito anche meglio i vantaggi per loro.
Alle Regioni fu affidato il Servizio Sanitario Nazionale, nato dopo l’abolizione delle mutue di categoria (che funzionavano benissimo).
Com’è finita, lo sanno i morti dell’ospedale di Vibo Valentia, e quelli della Campania dove i primari li sceglie Mastella fra i peggiori.
ASL, entità tecniche, diventate»politiche»: covo di candidati trombati da stipendiare, di malversatori per normale malcostume, ciascuna col suo parlamentino e il suo governicchio spartitorio, e in più con il suo «manager» pagato come un manager privato, ma in quota a questo o a quel partito.
Spese alle stelle.
Se prima il fiume del denaro pubblico in uscita passava per l’unico tubo dello Stato, ora passa per dozzine di buchi, l’immagine stessa del colabrodo.
Per ridurre le tasse e rimettere un po’ dei loro euro in tasca ai cittadini che non ce la fanno con 1.872 al mese, bisognerebbe ridurre queste uscite, tappare qualche buco.
Fare un discorso serio sulle Regioni.
Le Regioni sono un disastro, come mostra la monnezza in cui affoga Napoli.
Ci sono Regioni che non sono capaci di autogoverno e non meritano alcuna autonomia.
In Spagna, dove gli autonomismi sono feroci (terrorismo basco) e agguerriti (catalani economicamente avanzati e ben auto-governati), si è discusso a lungo se dare l’autonomia anche alle regioni che non la chiedevano.
Un dibattito pubblico, ma anche alto.
Le due proposte erano, se ben ricordo: «Todos caballeros» - ossia, un’autonomia regionale uguale per tutti, o «plato de quesos», un piatto di formaggi misti con diverse misure di autonomia, in base alla dimostrate diverse capacità di autogoverno.
Loro hanno scelto i formaggi misti, saggiamente.
Noi, senza discutere, il «todos caballeros».
La stessa autonomia per Veneto e Campania, per Lombardia e Calabria.
Ancor più autonomia per la Sicilia, a cui avrebbe dovuto essere centellinata causa mafia.
Hanno consegnato regioni intere a camorra, mafia, n’drangheta, n’drine.
Ora sono loro il governo regionale, o almeno il sottogoverno.
E chi paga per gli sprechi e le malversazioni dei governi autonomi della malavita?
Ogni lombardo, a conti fatti, dà 6 mila euro l’anno delle sue tasse alla «solidarietà nazionale».
Se non ci fossero Campania, Calabria e Sicilia, ogni milanese avrebbe 500 euro al mese in più.
Il Veneto, dà alla nazione, per «solidarietà», 900 milioni di euro l’anno.
E’ il conto delle tasse pagate e dei servizi ricevuti in cambio: la differenza in meno per il Nord. Accusare il Nord di «chiamarsi fuori», come fanno i bassoliniani e i napoletani, è quanto meno ingiusto.
E alla lunga, irrita.
Attenzione soprattutto al Veneto.
La Lombardia continuerà a pagare, è ancora fortemente italiota, anzi Formigoni ha fatto in Lombardia l’occupazione generale della Regione a nome di CL - insomma la sta meridionalizzando. Ma il Veneto è un’altra storia.
E’ stato formato all’amministrazione absburgica, l’Austria gli è più vicina dell’Italia.
Ed è più vicino a pensare che alla «nazione» colabrodo sta dando troppo.
Tutto è dovuto a queste decisioni «politiche» prese alla leggera trent’anni fa (Prodi era già nelle poltrone di potere), il che ci dovrebbe avvertire di quanto ci costeranno le decisioni prese oggi per accontentare Mastella, Diliberto o Pecoraro Scanio.
Quasi tutti quelli che presero quelle decisioni sono morti nel loro letto, non possiamo nemmeno più impiccarli.
Anche Mastella e Pecoraro moriranno nel loro letto, con doppia pensione cumulabile, ministeriale e parlamentare.
E non sono 1.872 euro.
Non si parla di abolire le regioni, disastro ed errore conclamato.
Né di impiccare Mastella, anzi: le due coalizioni se lo contendono.
La conseguenza: continueremo a pagare più tasse per le loro «spese correnti», mentre diventiamo sempre più poveri.
E già corre sottopelle la «grande coalizione» Veltroni-Berlusconi, con lo scopo di fare le «riforme impopolari» rese necessarie dal disastro dell’amministrazione politicizzata: le quali consistono nel taglio delle pensioni e dei servizi sanitari.
Non ci resterà, alla fine, se non la soluzione Sant’Antonio.
Parlo di Antonio il Grande, l’egiziano, il padre di tutti gli eremiti e stiliti del deserto.
Antonio aveva ereditato dal padre ottanta ettari della fertile terra del Nilo: un fellah benestante.
Nel 313, racconta Atanasio, regalò ai poveri i suoi beni, ai vicini tutti i terreni, e si ritirò nel deserto.
Non lasciava però alcuna dolcezza del vivere, ma solo la «enormitas indictionum», l’enorme peso delle tasse che gravava sui terreni.
Diocleziano, sempre assillato dalle spese correnti (essenzialmente per la difesa dei confini), aveva varato una riforma fiscale che solo Visco sta per superare in efficienza: in ogni villaggio veniva fissata una certa quantità di grano, la cui esazione era affidata ai due o tre più ricchi del paese.
Se non raggiungevano la quota, questi esattori involontari ne rispondevano con le loro ricchezze private; diventavano così gli estortori dei loro vicini.
La «lotta all’evasore» più perfetta.
A Visco piacerà soprattutto questo lato odioso, una fiscalità che obbliga la gente a spiarsi e denunciarsi a vicenda.
Meglio sappia cosa provocò questo sistema fiscale efficacissimo: lo spopolamento dei campi e la devastazione economica.
Quando Antonio regalò la terra ai vicini, praticamente disse: pagate voi le tasse che ci gravano sopra.
I vicini accettarono, non potevano far altro: sarebbe stato peggio se Antonio avesse lasciato la terra incolta, perché la quota fiscale comprendeva anche il raccolto di quegli 80 ettari.
Difatti, racconta Atanasio, l’esempio di Antonio divenne irresistibile: «Molti uomini facoltosi» lo seguirono nelle sabbie del deserto (in Egitto, era dietro casa) «per scaricarsi dai pesi della vita».
Stenti, focacce, acqua salmastra da bere, ma la vicinanza di Dio e la pace terrena.
«Lì nessuno veniva tormentato dall’esattore delle tasse», dice Atanasio (1).
Il fisco romano, ormai cristiano, non poteva costringere i suoi migliori contribuenti a tornare
«nel mondo», la scelta di diventare anacoreti doveva essere rispettata.
Fino ad un certo punto.
Fino a quando la sete di Dio non cominciò a prendere non solo troppi «facoltosi», ma anche
i giovani di leva: ossia i figli dei fellahin che venivano presi in retate a sorpresa per andare a combattere nel nord contro i barbari germanici.
Scappavano e diventavano anche loro eremiti, asceti, anacoreti.
Il deserto diventò più affollato che le rive fertili del Nilo.
A questo punto, l’imperatore Valente sancì, militaresco, che i renitenti erano «dei lavativi»
(letteralmente: ignaviae sectatores, fancazzisti) e ordinò una spedizione di legionari per prenderli «dai loro nascondigli».
Si approfittò per fare retate anche degli eremiti ex-facoltosi, per portarli con la forza «ai propri doveri nella comunità d’origine».
Ossia ai doveri fiscali che li legavano alla gleba, già servi alto-medievali.
La santa legione tebana era formata da quei poveri fellahin; non a caso era venerata in Svizzera e in Germania, terre che seminò con le spoglie dei suoi martiri là dove era stata mandata a servire ai confini.
Gli anacoreti, in parte furono trascinati, in parte bastonati a morte, i più si ritirarono ancora più addentro nel deserto.
Non più quello dietro casa.
Non si vuole insinuare affatto che quelli non fossero santi veri.
Lo erano.
Lo stesso fenomeno - bande di contadini e piccoli proprietari che sfuggivano al morso del fisco, per disperazione, nelle foreste o nei deserti - avveniva in Gallia e nell’Africa del nord, ma lì aveva dato luogo a un fenomeno ben diverso: le torme del brigantaggio feroce, accecato dalla fame, bande che aggredivano ville e sbudellavano i ricchi: in Africa detti circumcelliones, in Gallia bagaudi, portarono dovunque terra spopolata e crisi demografica, e l’attività economica ridotta dentro villae già rinforzate di mura come castelli feudali, già proiettati nell’alto medioevo.
In Egitto, i tartassati divennero anacoreti e stiliti, asceti ossia atleti di Dio.
Non è una differenza da poco.
Perciò eleviamo le nostre preghiere a Sant’Antonio, primo eremita, fondatore del monachesimo e patrono degli evasori fiscali per necessità.
Avremo bisogno del suo aiuto.
Note
1) Tutte le notizie che seguono sono tratte da Hans Conrad Zander, «Quando la religione non era ancora noiosa», Garzanti, 2003. Zander è monaco domenicano.
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