Deliri di Masada
05 Gennaio 2008
Israele può vincere una guerra nucleare: soffrirebbe «solo» da 200 a 800 mila vittime, mentre la sua rappresaglia, anche «limitata a non più di dieci città iraniane», infliggerebbe da 16 a 28 milioni di morti alla Persia.
Sicchè «una ricostruzione dell’Iran sarebbe impossibile», mentre sarebbe «teoricamente possibile per Israele in termini demografici ed economici».
Tutto questo è scritto nero su bianco in uno studio - o scenario o predizione - del Center for Strategic and International Studies (CSIS) di Washington (1).
Il quale profetizza anche la data del conflitto atomico: tra il 2010 e il 2020.
Il CSIS esamina l’uno dopo l’altro parecchi scenari sempre più deliranti, ma con aria via via più seria: l’Iran attacca Israele (sic), l’Iran aggredisce gli USA, la Siria aggredisce Israele.
Le ipotesi presuppongono ciò che non è: che l’Iran abbia, fra un decennio, almeno cinquanta testate nucleari da 20-30 chilotoni e alcune da 100, un centinaio di missili Shahab 3, e la volontà suicida di attaccare il piccolo debole Stato ebraico con le sue 500 testate (il CSIS assicura: solo 200), alcune a fusione e fino a mille chilotoni, missili Jericho, bombardieri strategici avanzati come gli F-16.
E mettiamo che la Siria attacchi Israele (non il contrario, questo no).
Cosa succederà?
La Siria non ha bombe atomiche.
Ma, assicura il CSIS, si ritiene possieda armi chimiche, «agenti nervini, antrace e iprite».
Con queste, potrebbe infliggere al povero debole Stato ebraico 200-800 mila perdite, esattamente come le cinquanta (inesistenti) bombe atomiche iraniane.
In compenso, la reazione del piccolo debole regno di Sion potrebbe trasformare da 6 a 18 milioni di siriani in cadaveri.
Infatti «poiché la Siria ha solo 11 città in cui si aduna l’80% della popolazione, Israele è facilmente in grado di colpire ciascuna città con tre testate nucleari».
Trentatrè funghi atomici sulla riva orientale del Mediterraneo… ma ciò non impedirebbe ad Israele la «rinascita in termini demografici ed economici».
Soprattutto grazie «alla sua rete di sistemi antimissile Arrow, ai Patriot 3» (Comprate americano!), alla sua superiore intelligence e «alla sua capacità di lancio sotto attacco».
C’è vita dopo l’Armageddon.
Se questi deliri si possono pubblicare come fossero razionali, è perché così si pensa e si delira ai più alti livelli di Israele.
Lo racconta anche Uri Avneri in un articolo dal titolo significativo: «Morire con tutti i Filistei?». L’allusione è alle ultime parole di Sansone, il forzuto biblico che scosse le colonne centrali del tempio filisteo (Filistin è come «palestinese») facendo morire con sé anche tutti gli altri nemici (Giudici, 16,30).
Avneri descrive la paranoia che regna nelle stanze del potere israeliano (2): «Da mesi, i responsabili politici e militari discutono di una ‘vasta operazione militare’, ossia di invadere in massa la striscia di Gaza per mettere fine al lancio di razzi (Kassam) sul territorio d’Israele.
I capi militari, che di regola bruciano d’impazienza, oggi non manifestano alcuna fretta. Proprio no. Vorrebbero evitare ad ogni costo. Ma sono fatalisti. Ormai, tutto dipende dal puro caso.
Se domani un razzo Kassam cade su una casa di Sderot e ammazza una famiglia intera, ci sarà in Israele una tale levata di scudi che il governo si sentirà obbligato a dare l’ordine di attacco».
Per i militari dello Stato più armato del Mediterraneo, prosegue Avneri, «Gaza è un incubo».
In una superficie «appena doppia di quella di Washington, si ammassa un milione e mezzo di persone, prive di tutto e che non hanno niente da perdere, e sono dirette da un movimento religioso militante», ossia Hamas.
D’accordo, i palestinesi «non hanno né artiglieria né carri armati, ma possiedono oggi potenti apparati anticarro», sull’esempio di Hezbollah.
E ciò potrebbe - proprio come accadde quando Israele ha attaccato Hezbollah nel 2005 - provocare la perdita di «centinaia di soldati israeliani», nonché di «migliaia di palestinesi civili. L’armata israeliana userà carri armati e bulldozer corazzati, e il mondo riceverà immagini terribili, simili a quelle che il nostro esercito cercò di sopprimere e che suscitarono la protesta universale per il massacro di Jenin, nel 2002».
Inoltre, «Gaza può trasformarsi in una Masada palestinese, una sorta di mini-Stalingrado».
E rivela infatti Avneri: «La settimana scorsa, durante un’incursione di routine dell’armata israeliana, un lancia-razzi ha colpito uno dei nostri celebri corazzati Merkava Mark-3 prodotti in Israele. Miracolosamente, i quattro membri dell’equipaggio non sono stati uccisi. Ma in caso di un’importante battaglia, non si può contare su questo genere di miracoli».
Ovviamente, la superiorità israeliana finirebbe per «trionfare, magari con la distruzione di tutto l’ambiente e un massacro di massa. E poi?».
Già.
«Se l’armata si ritira, tutto torna come prima, e i tiri di razzi Kassam riprenderanno. Se resta a Gaza, l’armata diventa interamente responsabile dell’amministrazione di un territorio occupato: provvedere alle necessità alimentari, assicurare i servizi sociali, mantenere la sicurezza».
Qui, anche Avneri si abbandona ad un sogno: non s’è mai visto Israele provvedere ai bisogni delle popolazioni che opprime.
Ma il punto è un altro.
E’ che la parte dei filistei travolti sotto le macerie rischia di spettare agli israeliani, e la parte di Sansone, ad Hamas.
«Il problema è che nessuno sa sciogliere il nodo gordiano legato da Ariel Sharon, che ne è stato il maestro ed autore. Sharon decise il ‘piano di separazione’, una delle peggiori follie negli annali di questo Stato che di follie è pieno», dice Avneri.
«Sharon smantellò gli insediamenti (ebraici e illegali) di Gaza senza dialogare con i palestinesi e senza rimettere al comando l’Autorità palestinese. Non lasciò agli abitanti della Striscia alcuna possibilità di vita normale. Trasforò i territori in una gigantesca prigione. Tutti i collegamenti con l’esterno sono stati troncati. La marina israeliana blocca le vie marittime. La frontiera con l’Egitto è ermeticamente chiusa, l’apertura di un porto è stata impedita con la forza. L’aeroporto, distrutto, resta distrutto. Il passaggio da Gaza alla Cisgiordania è stato chiuso a chiave. Tutti i ponti di passaggio sono sotto controllo totale israeliano, aperti o chiusi arbitrariamente. Decine di migliaia di lavoratori di Gaza che avevano occupazioni in Israele sono stati privati di ogni mezzo d’esistenza. La conseguenza è stata inevitabile. Hamas ha preso il controllo militare di Gaza, senza che i responsabili politici di Ramallah [l’Autorità palestinese, Fatah] potessero farci niente [i due territori sono ecnlaves separate da territorio ebraico, ndr]. Razzi Kassam o tiri di mortaio dalla striscia di Gaza colpiscono i villaggi israeliani vicini senza che l’armata israeliana abbia il modo di impedirli. Uno degli eserciti più potenti del mondo, con le armi più sofisticate, si mostra incapace di far fronte alle armi più primitive del mondo.
Poi, il circolo vizioso. Gli israeliani bloccano i palestinesi dentro la striscia di Gaza. I combattenti di Gaza bombardano la cittadina israeliana di Sderot. L’armata israeliana risponde uccidendo dei combattenti e dei civili palestinesi. La gente di Gaza spara razzi sui kibbutz. L’armata compie incursioni e ammazza palestinesi. Hamas si procura armi anticarro più efficaci. Non c’è conclusione in vista».
Il peggio è che in Israele, dice Avneri, i cittadini israeliani «non hanno alcuna idea di quel che accade nella striscia di Gaza. La separazione è assoluta. Gli israeliani pensano: noi abbiamo abbandonato Gaza, abbiamo smantellato gli insediamenti a rischio di una crisi nazionale, e cosa accade? Che i palestinesi continuano a spararci da Gaza e trasformano la vita di Sderot in un inferno. Non abbiamo altra scelta che fare della loro vita un inferno».
Ai suoi concittadini - e a tutti noi che vogliamo chiudere gli occhi, in modo da poter dire in futuro «non sapevamo», «non potevamo immaginare», Avneri fornisce le seguenti informazioni.
«Israele impone il blocco su tutte le importazioni in Gaza, a parte meno di una decina di prodotti di base. Prima, per le importazioni e le esportazioni, occorrevano 8.900 camion, oggi sono 15».
«Per esempio, è vietato importare il sapone» a Gaza.
«L’acqua locale non è potabile, ma Israele vieta l’entrata di acqua in bottiglia e anche di pompe per acqua».
I pezzi di ricambio per le poche pompe funzionanti sono introvabili, «i filtri da 40 dollari costano oggi 250».
«E’ vietato importare cemento. Se c’è un buco sul tetto, è impossibile ripararlo. La sezione pediatrica dell’ospedale è silenziosa: mancando i ricambi, gli strumenti medici non funzionano più, ivi compresi le incubatrici e gli apparecchi di dialisi».
«I malati gravi non possono accedere a un ospedale né in Israele né in Egitto né in Giordania, per lo più sono condannati a morire».
«Gli studenti non possono raggiungere le università all’estero. Gli abitanti all’estero che visitano Gaza non ne possono più ripartire se sono titolari di una carta d’identità palestinese. I palestinesi con contratto di lavoro all’estero non sono autorizzati a partire».
«Quasi tutte le aziende sono chiuse per mancanza di materie prime, e i loro operai sono sul lastrico. Dopo 60 anni di occupazione, la produzione della striscia di Gaza è ridotta a nulla, a parte arance, fragole e pomodori. I prezzi sono alle stelle».
E’ la descrizione di un lager, e di un lager di sterminio.
Con l’aggravante che le spese di mantenimento sono a carico degli internati.
Avneri coinclude: «E’ possibile arrivare ad un cessate il fuoco. Secondo tutte le informazioni, Hamas vi è pronta, a condizione che sia generale», ossia che cessino anche le incursioni israeliane e gli assassini mirati nel lager.
E che le vie di passaggio vengano riaperte.
Ma Israele non vuole.
Sarebbe un «compromesso», mentre la «vittoria» deve essere totale per lo Stato-Dio.
Come ha detto Olmert, che sta cercando di convincere il popolo eletto ad accettare almeno una parte della realtà: «La scelta è tra il nostro diritto naturale di vivere in tutta la [biblica] terra d’Israele e la necessità di fare compromessi per assicurare l’esistenza di Israele come Stato ebraico».
Il che, tradotto, significa: se ci prendiamo anche Gaza come è nostro diritto divino, dobbiamo tenerci anche i palestinesi, membri della razza inferiore, e ciò non assicura Israele come «Stato ebraico», ossia il diritto di vivere nell’apartheid e nella purezza razziale.
Perciò bisogna fare dei «compromessi», s’intende momentanei, perché la mira è pur sempre quella di cacciare tutti i non-ebrei dal suolo dato a Giuda da YHVH.
I tempi non sono maturi per eliminare tutti i palestinesi, bisogna aver pazienza.
E’ in questo clima, in questo dilemma messianico-razzista, che nascono le fantasie atomiche, i deliri d’onnipotenza: piuttosto che scegliere il «compromesso» di lasciar vivere i palestinesi, Israele sogna l’uso dell’arma trionfale, dell’arma finale.
E si dice: può esserci vita dopo ‘Armageddon, noi perdiamo al massimo 800 mila uomini, ma ne inceneriamo 28 milioni.
E’, se vogliamo, il complesso di Sansone.
O il delirio di Masada.
In ogni caso, una irresistibile voglia di morte.
Note
1) David Isenberg, «Sneak peek at a desert Armageddon», Asia Times, 3 gennaio 2008.
2) Uri Avneri, «Mourir avec les Philistins? », GlobalResearch, 3 gennaio 2008.
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