Giustizia per goym
08 Gennaio 2008
Dal 1967, occupazione della Cisgiordania, i tribunali militari israeliani hanno processato più di 150 mila palestinesi: «Ignorando regolarmente le norme elementari di diritto e di diritti umani»,
si legge in un rapporto della ONG israeliana Yesh Din.
I membri di questa organizzazione umanitaria hanno assistito, per un anno, ad almeno 800 procedimenti.
Processi che durano 3,4 minuti in media.
Per decidere l’incarcerazione preventiva, ossia prima che la colpevolezza del catturato sia accertata, bastano 1,54 minuti.
Ciò che provoca «qualche dubbio» sulla completezza con cui i giudici esaminano gli atti.
Secondo i dati forniti dagli stessi militari, su 9.123 casi esaminati nel 2006, solo 23 persone sono state riconosciute innocenti.
Esiste «qualche dubbio», dice la ONG israeliana, che venga rispettato il principio secondo cui ciascuno è innocente fino a prova contraria.
Inoltre, «i tribunali militari non rispettano la pubblicità richiesta da qualunque procedura giudiziaria»: insomma, sono giudizi a porte chiuse.
«Le persone perseguite spesso non sono informate delle accuse contro di loro, perché esse sono formulate in ebraico e non vengono tradotte».
«Gli avvocati palestinesi devono lottare per avere accesso agli atti e conferire coi loro clienti incarcerati in Israele, in quanto devono ottenere un permesso per entrare in Israele».
«La legislazione di sicurezza (speciale) non pone alcun limite alla durata della detenzione durante l’inchiesta fino all’elevazione dell’accusa, né dall’accusa formale fino alla traduzione davanti al tribunale. Il solo limite dal momento dell’accusa formale è di due anni».
Una persona può restare in galera preventivamente per diversi anni, dunque innocenti secondo il diritto non-talmudico.
«A fine 2006, circa 1.800 prigionieri risultavano detenuti preventivamente da un anno, e 189 da oltre un anno. Sui 9.123 casi esaminati nel 2006, solo 130 cause erano concluse nel giro di un anno».
Nel 95% dei casi, gli accusati preferiscono patteggiare anziché affrontare i giudici militari.
I minorenni sono condannati alle stesse pene degli adulti.
Difatti, per le leggi «di sicurezza» (leggi speciali), la maggiore età comincia a 16 anni.
Secondo Yesh Din, i sedicenni sono tra il 4 e il 6% di tutti i detenuti.
«La giustizia militare non rispetta i principi fondamentali del diritto internazionale», conclude la ONBG israeliana.
Ciò non è una novità.
Lo stesso tipo di giustizia fu praticato dai «tribunali» dellla Ghepeù, NKVD e KGB in URSS, organismi il cui personale era ampiamente ebraico (come ha rivelato Solgentistin in «Due secoli insieme»).
La vera stupefacente novità è che questo genere di informazioni sia apparso, finalmente, su un giornale occidentale importante: Le Monde (1).
Per la prima volta, Le Monde rende anche noto che, «causa l’intensificazione delle operazioni a Gaza», l’eroico Tsahal «ha fatto 11 morti in due giorni».
Di cui «almeno tre sono civili», senza contare «cinquanta feriti circa»: il tutto in raids «condotto stavolta con aerei e non con elicotteri d’assalto»: insomma un vero e proprio bombardamento nel lager sotto casa.
I generali giudei hanno giustificato il massacro come rappresaglia per i soliti tiri di Kassam.
Le convenzioni internazionali vietano la punizione collettiva di un’intera comunità per gli atti compiuti da alcuni partigiani.
Almeno, questa è la norma che fu applicata alle rappresaglie tedesche del Terzo Reich.
Ma per gli eletti del Quarto, l’impunità è garantita.
Un altro giornale occidentale - il britannico Times - ha cominciato coraggiosamente a dire la verità (2).
Ha intervistato a lungo Sibel Edmonds, la bella interprete dalla lingua turca che ha lavorato per anni con l’FBI ad ascoltare intercettazioni delicate, e che da anni cerca di dire quel che ha saputo, inascoltata in USA.
Edmonds «descrive come agenti di spionaggio stranieri hanno pagato funzionari USA per creare una rete di ‘talpe’ in delicate istituzioni militari e nucleari», esordisce il Times.
«Fra le ore di intercettazioni ascoltate, essa dice di aver ascoltato la prova che un noto alto dirigente del Dipartimento di Stato è stato pagato da agenti turchi a Washington, che vendevano le informazioni ottenute [informazioni su armi nucleari da fabbricare] ad acquirenti nel mercato nero, fra cui il Pakistan».
Di questo alto personaggio, dice il Times, conosciamo il nome.
L’abbiamo contattato, e lui nega «con veemenza» l’accusa.
Non è difficile tuttavia risalire a questo nome: è Marc Grossman, già numero 3 al Dipartimento di Stato, già ambasciatore in Turchia, attualmente vicepresidente del Cohen Group, la società di lobbying creata da William Cohen, già segretario alla Difesa.
Come mai Sibel Edmonds ascoltava queste intercettazioni?
Perché stava aiutando l’FBI a «raccogliere prove contro alti dirigenti del Pentagono che lavoravano con gli agenti stranieri».
La traduttrice ha detto al Times: «Se fossero rese pubbliche le informazioni che l’FBI ha su questo caso, vedreste personaggi molto in alto davanti ai giudici penali».
I personaggi molto in alto del Pentagono sono quasi certamente Richard Perle e il vice-ministro Douglas Feith, e molto probabilmente anche Paul Wolfowitz.
Il Times continua: «Il racconto mostra fino a qual punto l’Occidente era infiltrato da Stati stranieri che ne carpivano i segreti nucleari. Sibel mostra come i governi occidentali chiudessero entrambi gli occhi, o persino aiutassero Paesi come il Pakistan ad acquisire la tecnologia nucleare».
Questa rete «è stata tenuta sotto intercettazione per anni dal controspionaggio congiunto britannico e americano. Ma invece di essere liquidata, sono state troncate le indagini dell’FBI e del Revenue & Customs britannico allo scopo di mantenere le relazioni diplomatiche» con i Paesi delle spie.
Oh guarda: dunque le spie lavoravano per Paesi amici.
Così amici che era il caso di non rovinarsi le relazioni diplomatiche.
Indovinate quali?
«I turchi e gli israeliani», dice Times, «avevano piantato delle talpe negli organismi militari e di ricerca che lavoravano alla tecnologia nucleare. La Edmonds sostiene che avvenivano diverse transazioni di materiale nucleare ogni mese, e che i pakistani ne erano fra i compratori finali».
La rete era aiutata da Marc Grossman, che «forniva ad alcune delle talpe, per lo più ricercatori con dottorato, la ‘clearance’ (il certificato di fidatezza) per lavorare in laboratori nucleari molto riservati. Fra cui il laboratorio di Los Alamos, che ha la responsabilità della sicurezza del deterrente nucleare USA».
«I turchi agivano spesso come un tramite per contro dell’Interservice Intelligence (ISI), il servizio segreto pakistano, perché come alleati sollevavano meno sospetti».
A capo dell’ISI era allora il generale Mahmoud Ahmad, lo stesso personaggio che pochi giorni prima dell’11 settembre 2001 fece trasferire 100 mila dollari al terrorista Mohamed Atta, e che quel giorno 11 settembre si trovava a Washington, bloccato a terra dalla chiusura dello spazio aereo.
Nulla di male: il generale fu invitato a pranzo dal capo della CIA.
Fu così che i segreti di fabbricazione atomica Made in USA giunsero nelle mani dello scienziato pakistano A. Q. Khan, il padre dell’atomica pakistana.
Oggi il professor Khan è agli arresti domiciliari in Pakistan, da quando s’è scoperto che condivideva i segreti con la Corea del Nord, la Libia e forse l’Iran, e sicuramente con emissari di Osama bin Laden (parlandone da vivo); ma naturalmente Khan è considerato un eroe nazionale, e la sua prigionia non è affatto pesante.
Altri «diplomatici turchi» nella rete spionistica «hanno venduto copie delle informazioni al miglior offerente. Nel 2000, sostiene Edmonds, l’FBI pedinò uno degli agenti mentre incontrava uomini d’affari sauditi a Detroit per vendere loro informazioni nucleari che erano state sottratte ad una base aerea militare in Alabama.
Lei stesso sentì quell’agente dire: «Abbiamo un pacco e lo vendiamo per 250 mila dollari».
Ogni volta che l’FBI cercava di passare all’azione contro le spie, veniva bloccato da ordini superiori.
La Edmonds ha constatato lei stessa che fra gli interpreti e traduttori usati per queste segretissime inchieste (avvenute tra il 1997 e il 2002) erano state piazzate delle talpe di questa rete.
Per esempio «una delle sue colleghe interpreti, come appurò l’FBI, era la figlia di un funzionario dell’ambasciata pakistana che lavorava per [il generale dell’ISI] Ahmad. A questa traduttrice fu elargita la massima clearance (l’accesso ai top secrets) nonostante le proteste da parte degli investigatori della polizia federale».
Nel marzo 2002 la Edmonds è stata licenziata: aveva accusato un collega traduttore di attività illecita in contatti con turchi.
Battagliera, ha fatto ricorso: e dopo tre anni l’Office of the Inspector General le ha dato parzialmente ragione, riconoscendo che fra i motivi del suo licenziamento c’era quello che «aveva fatto lagnanze giustificate».
L’avvocato generale dello Stato, a quel punto, le ha imposto - come ex dipendente - di non rivelare i segreti di cui era venuta a conoscenza.
Lei ha ripetuto le sue precise accuse davanti ad una sessione del Congresso (a porte chiuse), e nulla è accaduto.
Da allora, si batte per ottenere un’audizione pubblica.
Che naturalmente non ha ancora avuto.
Ma lei adesso ha postato sul suo sito le foto (senza i nomi e senza commento) di 18 personaggi, che sono evidentemente le spie che lei ha accusato a porte chiuse (3), e che hanno agito «nella piena consapevolezza del governo USA».
Vi si riconoscono Richard Perle, Douglas Feith, Marc Grossman, Larry Franklin (l’amico di Michael Ledeen), Brent Scowcroft, vari membri o ex membri del Congresso, qualche funzionario turco.
La grande maggioranza sono ebrei.
Ancora una volta, le rivelazioni di Sibel Edmonds non sono una novità (sono cose che ha già detto, ma su internet), anche se contribuiscono a spiegare, oggi, la frenesia con cui la Casa Bianca vuol riprendersi le testate nucleari pakistane, forse sapendo di non aver là più amici fidati.
La novità è che le abbia pubblicate il Times di Londra, in un articolo non firmato e in prima pagina. Dopo aver controllato le fonti e fatto controlli incrociati, come si spiega nel pezzo.
Ora che George Bush è sul viale del tramonto, Londra sta mandando un messaggio al «principale alleato»?
L’impunità talmudica è in pericolo?
Vedremo.
Note
1) Michel Bole-Richard, «La justice militaire israélienne accusée de bafouer les droits des Palestiniens», Le Monde.
2) «For sale: West’s deadly nuclear secrets», Times, 6 gennaio 2008.
3) «Sibel Edmonds’ State secret privilege gallery», www.justacitizen.com/images/Gallery%20Draft2%20for%20Web.htm. Il titolo che la Edmonds ha apposto alla galleria fotografica è signficativo: lo «State secret privilege» è il divieto per segreto di Stato impostole dall’avvocatura generale. Evidentemente le 18 facce corrispondono ai nomi che non può fare.
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