Per la NATO, guerra atomica preventiva
23 Gennaio 2008
La NATO deve prepararsi a lanciare anche attacchi nucleari preventivi per scongiurare l’uso di armi di distruzione di massa da parte dei nemici (1).
Non è ancora il programma che Robert Gates presenterà al vertice NATO a Bucharest.
Per adesso, è un suggerimento per la riforma dell’Alleanza, presentato «spontaneamente» da quattro pezzi molto grossi dell’apparato militare euro-americano.
Firmato da quattro ex capi di Stato Maggiore, fra cui il britannico lord Peter Inge e il generale USA John Shalikashvili, il documento è intitolato «Towards a Grand Strategy for an Uncertain World - Renewing Transatlantic Partnership» (2) e vuol essere la bozza della «riforma» auspicata dal Pentagono; il cui capo, Robert Gates, s’è recentemente lamentato della impreparazione delle truppe europee in Afghanistan e della necessità di riaddestrarle per il nuovo tipo di guerra futura.
Guerra asimmetrica e irregolare, controguerriglia, guerra al «terrorismo».
Il documento propone un rovesciamento epocale della dottrina strategica dell’Alleanza, che ha sempre dichiarato che avrebbe usato l’arma nucleare solo come risposta ad un attacco nucleare.
Ora invece, si propone di usare l’arma assoluta per primi.
L’attuale dottrina «ci lega le mani» e «ci priva di un grande elemento di deterrenza», ragionano (se si può dir così) i firmatari.
«Il rischio di altre proliferazioni è incombente [oltre all’Iran, sottinteso], e con esse il rischio di una guerra nucleare, benchè limitata in ampiezza, diventa possibile. L’uso per primi di armi nucleari deve rimanere nella nostra faretra dell’escalation come il mezzo definitivo per scongiurare l’uso di armi di distruzione di massa».
E chi avrebbe queste armi di distruzione di massa?
Sì, già lo sappiamo: «Terrorismo, fanatismo e fondamentalismo religioso sono le grandi minacce per l’Occidente» nelle guerre future, scrivono i suggeritori.
Insomma è il proseguimento della lotta inaugurata da Bush, e se Bush tramonta, il progetto complessivo resta.
I firmatari non perdono tempo a spiegarci perché una testata atomica sia uno strumento possibile contro il fanatismo religioso.
E il lato agghiacciante è che tra i «pericoli per il sistema di vita dei membri della NATO» pongono anche «la criminalità organizzata, il cambiamento climatico e le migrazioni su scala di massa», piaghe contro cui il mezzo militare non sembra più indicato.
Ma vogliono instillare la sensazione che - come Israele - il nostro mondo è circondato da nemici, tanto più pericolosi in quanto mal identificati.
Può accadere che immigrazioni di massa e crimine organizzato forniscano la Bomba al «fondamentalismo religioso», o magari al «fanatismo» e al «terrorismo» fanatico religioso.
Il diffondersi delle tecnologie nucleari, infatti, ci assicurano i quattro, significa che «non esiste alcuna prospettiva realistica di un mondo nuclear-free. Semplicemente non c’è».
Per di più, l’indebolimento delle alleanze globali (ONU) è un fatto compiuto: compiuto da chi, non viene detto.
Il mondo è in disordine, e non ha più tavoli negoziali aperti.
Quindi meglio prevenire.
Se questa dottrina fosse stata vigente quando Colin Powell dimostrò all’ONU, con foto satellitari, flaconi di presunto antrace, e tubi di alluminio che Saddam aveva i mezzi per fare la sua Bomba ed armi batteriologighe, oggi l’Iraq sarebbe vetrificato da funghi atomici preventivi.
Ma i tempi non erano maturi; si è dovuto invadere il Paese e devastarlo con armi convenzionali, subendo poi la controguerriglia anti-occupazione, con grande spreco di tempo e di denaro.
La armi di distruzione di massa non sono mai state trovate, come noto.
Ma l’idea di una guerra resa economica dal lancio di testate atomiche, preventivo e non provocato da una minaccia nemica di pari livello, resta attraente.
Anzi diventa sempre più attraente quanto più la NATO, sul terreno, si mostra indebolita, strategicamente ottusa e divisa di fronte al nemico (come in Afghanistan, dove persino gli inglesi hanno intavolato trattative con la guerriglia talebana), e dunque è tentata di compensare la sua debolezza con l’armamento in cui ha la superiorità totale.
Ovviamente questo suggerimento viene dal lato anglo-americano dell’Alleanza.
I firmatari propongono anche una riforma del processo decisionale, nel senso di abbandonare le procedure che richiedono il consenso di tutti gli alleati, in modo da «agire rapidamente» senza i veti e le condizioni limitanti poste da «certe nazioni».
E’ noto che in Afghanistan, gli europei tendono a presidiare la capitale e poco più, adducendo che la partecipazione alle operazioni belliche vere e proprie susciterebbe la rivolta dei loro elettorati. Robert Gates vuole appunto scavalcare queste esitazioni, e spera di allestire un direttorio NATO, una specie di consiglio di sicurezza (egemonizzato da Washington e da Londra) che disciplini gli alleati renitenti al mutamento dell’Alleanza da difensiva ad offensiva.
Naturalmente senza aspettare il mandato dell’ONU, «quando si richiede azione immediata per salvare un grande numero di vite umane».
Con l’atomica è possibile salvarle tutte in un colpo solo.
Mentre le Borse precipitano, il nuovo ‘29 avanza e l’egemonia americana nel mondo cade a pezzi, è significativo che gli Stranamore USA ancora propongano questo genere di strategie virtuali, pensino a guerre immaginarie da vincere con una potenza anch’essa ormai immaginaria.
Modello di questo «pensiero» militare virtualista è il report scritto per la prestigiosa Military Review dal generale David Barno, che ha guidato le forze USA in Afghanistan dall’ottobre 2003 al maggio 2005.
Barno scrive che la strategia di anti-insorgenza adottata mentre era lui il capo ha portato «risultati drammaticamente positivi».
La sua strategia era di porre «al centro di gravità» non «il nemico», bensì il popolo afghano. Sapevo, assicura, che la tolleranza degli afghani per l’occupazione straniera «è un capitale limitato, da consumare lentamente e con moderazione»: per cui, dice, prese la massima cura ad evitare morti di civili, maltrattamenti dei prigionieri e trasgressioni al rispetto dei capi tribali, che offendono la cultura tradizionale.
A leggere il generale Barno, viene il sospetto che abbia operato in un altro Afghanistan, diverso da quello percorso da commandos americani sparacchianti, dove le capanne diventano bersaglio legittimo per missili da crociera e bombe intelligenti sganciate da F-15.
La cosa ha cominciato a prendere una brutta piega, dice il generale, quando l’allora ambasciatore americano a Kabul Zalman Khalilzad, con cui aveva operato «in unità di intenti», fu richiamato ad altri incarichi, mentre Washington annunciava - era il 2005, quattro anni d’occupazione già trascorsi - che il comando sarebbe passato alla NATO, e gli Usa ritiravano 2.500 uomini.
«Non c’è da stupirsi, questo fatto fu visto nella regione come il primo segnale che gli USA stavano dirigendo alla porta d’uscita, rinforzando i dubbi ben radicati (nella regione) sulla continuità dell’impegno americano».
Fu la NATO (non gli USA) a restringere i suoi compiti alla «dimensione militare che è solo il 20%», trascurando la conquista dei cuori e delle menti, che è l’80%.
E’ un rimprovero agli inglesi che, mandati là con truppe insufficienti, hanno combattuto fino allo stremo: si concentravano troppo sul «nemico» - i guerriglieri più ostinati della storia nel terreno più difficile del mondo - anziché sul «popolo» da guadagnare alla propria causa.
Inoltre, il governo del presidente Karzai è inefficace per via di «potenti interessi al suo interno», sicchè «corruzione, criminalità, povertà e il fiorente commercio di droga» hanno scosso la fiducia della popolazione.
«La NATO, erede di un uno sforzo internazionale che originariamente era ben visto, è minacciata dalla disaffezione che monta nel popolo afgano».
Forse perché l’occupazione e l’antiguerriglia durano da sette anni?
Come passa il tempo.
Chi scrive può testimoniare che Barno sogna il contrario di quello che personalmente questo giornalista ha visto: già nel 2003 gli europei della NATO, che si tenevano nella capitale come protettori di Karzai e dell’ordine pubblico, dovettero addirittura vietare alle truppe speciali americane di entrare a Kabul, perché provocavano problemi con la loro aggressività, il loro girare armati e in abiti locali (anziché in divisa) sui loro Humvee, ignari della catena di comando e spesso indistinguibili dai mercenari a contratto (anch’essi visti nei ristoranti di lusso in completo blu o in sahariana, e col mitra).
Erano gli europei che tentavano disperatamente di guadagnare le menti e i cuori, mentre gli americani piombavano in elicottero su villaggi dove immaginavano «il nemico».
Ma quelle di Barno sono meno menzogne deliberate, che immaginazioni virtuali.
Indicano la bolla in cui vive l’apparato militare USA, nelle guerre scatenate da Bush con mezzi e uomini insufficienti e una strategia - voluta da Rumsfeld - tra il commerciale e il tecnologico.
La sola cosa reale del report del generale Barno è la citazione iniziale di Sun Tzu: «Strategia senza tattica è la strada più lenta alla vittoria. Tattica senza strategia è il rumore prima della disfatta».
La seconda parte della citazione descrive esattamente la condizione della NATO oggi (3).
Note
1) Ian Traynor, «Pre-emptive nuclear strike a key option, NATO told», Guardian, 22 gennaio 2008.
2) Thierry Meyssan, «Un directoire USA-OTAN-UE à la place du Conseil de sécurité?», Réseau Voltaire, 17 gennaio 2008.
3) Citato da M. K. Bhadrakumar, «NATO hears ‘noise before defeat’ », Asia Times, 19 gennaio 2008.
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