USA: schiacciati dal Pentagono
24 Gennaio 2008
«La nostra armata sta cominciando a sfilacciarsi»: così si legge nel rapporto dal campo che il generale a riposo Barry McCaffrey ha scritto per il Dipartimento di scienze sociali di West Point.
Il viaggio del generale in Iraq aveva lo scopo di valutare gli effetti del «surge», del rafforzamento di truppe decretato da Bush e dai suoi strateghi da tavolo (1).
Il rapporto dà un quadro amarissimo della più potente e costosa armata della storia, e dei sentimenti anche più amari degli ufficiali contro la Casa Bianca.
«Con 25 brigate di combattimento una campagna attiva di contro-insorgenza può aver successo nel prossimo decennio», scrive McCaffrey.
E’ un tratto di ironia: 25 brigate sono oltre la metà dell’intero esercito.
Quattro brigate sono occupate permanentemente in Afghanistan e lo saranno per i prossimi 15 anni. Lo sforzo di un decennio non può essere sostenuto.
Specie con la grande depressione che si sta instaurando.
«La nostra campagna di reclutamento ha portato sotto le armi migliaia di nuovi soldati che non dovrebbero essere in divisa»: pregiudicati, drogati, bocciati alla scuola media.
I molto relativi successi degli ultimi mesi non sono dovuti al «surge», ma al fatto che, per esempio ad Anbar, «i sunniti hanno cominciato ad aver paura di Al Qaeda [guerriglieri sauditi fanatici] e gli abitanti hanno cominciato a collaborare all’autodifesa. Sono per lo più sunniti, anche la cosa si sta estendendo ad aree sciite, a sud di Baghdad».
«La gente irachena s’è rivoltata contro Al Qaeda perché questa ha esagerato, tentando di imporre una pratica dell’Islam aliena, dura ed estranea alla pratica moderata della minoranza sannita. Gli elementi stranieri, con il loro odio per gli sciiti, che trattano da apostati, hanno alienato la popolazione in generale».
Insomma sono gli iracheni a mettere a segno qualche vittoria contro il «terrorismo globale».
Vittoria relativa: «Contiamo ancora 3 mila aggressioni al mese contro le forze USA, della coalizione o irachene. E’ ancora in corso una guerra civile».
Ma questo fenomeno, che gli americani chiamano «Risveglio del movimento tribale» (Awakening of Tribes Movement) poteva avvenire cinque anni prima, se ogni contatto con le tribù e i suoi capi non fosse stato positivamente vietato da Donald Rumsfeld e dai suoi neocon, rappresentati in Iraq da Paul Bremer.
«Molti degli uomini che paghiamo a Babil (gli americani stipendiano le milizie di autodifesa anche a Falluja e a Ramadi, il martoriato triangolo sunnita) sono gli stessi che persero lo stipendio perché Bremer sciolse la Guardia Repubblicana e il Baath», dice un ufficiale: «E’ stata una mossa stupida. Ciò che facciamo oggi, è ricostituire l’esercito iracheno disciolto».
E ancor oggi questa alleanza di fatto con gli iracheni viene, più che dalla decisione della Casa Bianca, da decisioni di fatto compiute dagli ufficiali operativi, per necessità di alleggerire la pressione sui propri uomini.
A quei livelli, di capitano o colonnello, risuonano le critiche più feroci contro la Casa Bianca e gli strateghi da tavolo del Pentagono: che considerano apertamente l’avventura irachena un fallimento militare, ma anzitutto politico e morale.
Non proprio apertamente, ma affidano le loro opinioni taglienti a generali a riposo.
«Ogni ufficiale, sia o no in servizio, teme che alla fine saremo noi militari a restare col sacco in mano», dice Volney Warner, ex quattro stelle: «Daranno la colpa a noi di questo disastro. Ma non siamo stati noi a decidere di andare in Iraq. Ce lo hanno ordinato. Dunque, il biasimo vada a chi lo ha meritato».
Tra gli ufficiali intermedi c’è rabbia anche verso i generali leccapiedi, come Petraeus, che elogia il «surge».
Dei gallonati che stanno in ufficio al Pentagono e non hanno detto abbastanza «no» a Rumsfeld, Cheney, Condy Rice e Bush, lasciando che si inframmettessero nella micro-gestione della guerra, che intorbidassero la catena di comando con considerazioni politiche e d’immagine, che hanno ordinato l’uso della tortura ed ora lo negano.
Persino uno di questi carrieristi, il generale Michael Mullen, oggi presidente del Joint Chiefs of Staff, ha capito che l’aria è cambiata.
«I soldati e le loro famiglie sopportano gravi sacrifici per mantenere il ritmo delle operazioni», ha detto alla sua prima uscita pubblica nella carica, «ma la loro resilienza ha dei limiti, e dobbiamo tenerne conto».
Alludeva in particolare al prolungamento mostruoso dei turni e all’estensione dei servizi in linea delle stesse unità, nonostante le promesse e le aspettative, e che sta usurando corpi ed anime, e riempiendo gli ospedali e gli obitori di giovani reduci spezzati dallo stress del combattimento.
Ma Mullen ha anche alluso ad un problema più grave: «Coloro che sono in servizio e sono in disaccordo con le direttive politiche dei nostri capi civili», ha detto, «lo dichiarino coi piedi, dimettendosi, come hanno facoltà».
Il guaio è che tanti non hanno aspettato il suo suggerimento.
Capitani, maggiori, tenenti colonnelli e colonnelli (i livelli cruciali nella conduzione reale del conflitto) hanno votato coi piedi a frotte.
«Il Corpo dei Marines non esiste più», ha detto un ex comandante dei Marines al giornalista Mark Perry: «E’ stato dissanguato dall’insorgenza. Hanno perso i quadri, i maggiori e i capitani… e non si fa niente per trattenerli. L’armata è alle corde, i turni vengono prolungati e poi prolungati di nuovo. L’armata è esausta».
Ma il vero motivo degli abbandoni lo dice un ex comandante dei Marines, Joe Hoar: «E’ indubbio che c’è un rapporto fra il numero delle dimissioni di ufficiali e la fiducia che questi ufficiali hanno nei loro comandi superiori e nella leadership del Paese. Quando non sai rispondere alla domanda più fondamentale, ‘perché combattiamo’, i soldati perdono fiducia nei loro leader».
Quando parlano sotto anonimato, questi quadri intermedi sono più particolareggiati: rimproverano ai loro generali superiori di non aver mai opposto resistenza alle follie di Rumsfeld, Douglas Feith e Wolfowitz: per viltà e carrierismo burocratico.
Ma poi sono i capitani, i maggiori e i colonnelli che devono dare ordini che mandano alla morte soldati ventenni, in esecuzione di decisioni cui quei leccapiedi non hanno saputo resistere forti della loro dignità professionale.
Nel fondo, è anche la constatazione, maturata sul campo, della illegittimità di questa guerra, e della dignità della leadership civile.
Più che l’insorgenza irachena, è questo che ha spezzato il morale dei comandi intermedi e dei loro uomini.
Un risultato che si sta cominciando a discutere in USA, visto che esso costa al Paese cifre incalcolabili.
Il bilancio del Pentagono è ufficialmente pari a 623 miliardi di dollari (più del resto del mondo messo assieme, Cina e Russia compresi), ma in più, secondo l’analista militare Chalmer Johnson, bisogna aggiungere un 30-40% di «bilancio nero», ossia ufficialmente dissimulato sotto la voce segreto militare (2).
Ma questa voce - che fa salire il bilancio reale sui mille miliardi annui - nasconde, per comune conoscenza, disordini contabili, sprechi, burocratismo, incompetenze e programmi errati, e corruzione in complicità con l’apparato militare-industriale.
L’organo militare è in USA quello che è in Italia la Casta.
Più precisamente: l’enorme corazza sta schiacciando il guerriero globale.
L’economia della superpotenza è dissanguata da questa spesa.
«Nel 2008, gli Stati Uniti si trovano nell’anormale posizione di non riuscire a pagare il loro elevato livello di vita e insieme il suo establishment militare, chiaramente sovradimensionato e sprecone.
Il governo non tenta nemmeno più di ridurre i costi rovinosi del mantenimento di grandi armate permanenti in 800 basi estere, di sostituire l’equipaggiamento distrutto o consumato da sette anni di guerra, e di prepararsi ad una guerra nello spazio siderale contro avversari ignoti. La più completa irresponsabilità fiscale è stata celata dietro manipolazioni finanziarie, come indurre Paesi più poveri a prestarci denaro in quantità mai vista; ma il giorno della resa dei conti si avvicina».
Johnson sottolinea che «mentre spendiamo somme demenziali in progetti di ‘difesa’ che non hanno alcuna relazione con la sicurezza nazionale, manteniamo a livello incredibilmente basso il carico fiscale sulla parte più ricca della popolazione americana».
E spiega che quest’assurdo deriva da un’ideologia, che Johnson chiama «military Keynesianism»:
la credenza che «possiamo compensare l’erosione accelerata della nostra base industriale e la perdita di posti di lavoro delocalizzati all’estero attraverso massicce spese militari».
Crediamo che «politiche pubbliche basate su guerre frequenti, grandi spese in armi e munizioni, e vaste armate permanenti possano sostenere all’infinito una ricca economia capitalista. E’ vero il contrario».
Johnson ricorda che l’enorme spesa militare significa «mancati investimenti nelle infrastrutture sociali ed altre esigenze per il bene a lungo termine del nostro Paese. Sono quelli che gli economisti chiamano ‘opportunity costs’, le cose non fatte perché s’è speso il denaro in altre cose. Il nostro sistema di istruzione pubblica s’è degradato a livelli inimmaginabili. Non abbiamo dato una sanità a tutti i nostri concittadini, e trascurato le nostre responsabilità… soprattutto, abbiamo perduto la nostra competitività industriale per i bisogni civili, un uso molto più efficiente di risorse limitate che l’industria delle armi».
A dire il vero, fino a pochi giorni fa tutti o quasi i candidati presidenziali si sbracciavano a promettere «maggiori» spese militari (3).
Rudy Giuliani promette, se eletto, di creare dieci nuove divisioni con tutto l’armamento relativo. Mitt Romney promette di aggiungere 100 mila uomini all’armata di terra, e aumentare le spese fino al 4% del PIL (oggi sono al 3,5%, bilanci ‘neri’ a parte), perché secondo lui «l’America ha abbandonato la difesa».
Anche Hillary Clinton promette almeno altrettanto.
Michael Huckabee ha superato tutti: «Oggi spendiamo il 3,9% nella difesa, contro il 6% del 1986, sotto il presidente Ronald Reagan. Dobbiamo tornare al 6%».
Il che significherebbe stanziare al Pentagono e alle industrie militari, uniche beneficiarie, altri 800 miliardi di dollari.
E’ una gara dei concorrenti ad accaparrarsi i favori del complesso militare-industriale, superandosi l’un l’altro in servilismo alla lobby.
Ma via via che la grande crisi avanza, queste grida si abbassano di tono, e le «promesse» di questo tipo, lungi dal sedurre gli elettori, li allarmano.
E’ possibile che mentre la crisi si aggrava, i discorsi comincino a vertere sul perverso «keynesismo militare» e sul costo astrale di una difesa che schiaccia l’America, e si dimostra inefficiente e moralmente dubbia.
Forse, tragedia aiutando, l’America metterà sotto processo la sua Casta corazzata.
E noi, la nostra?
Note
1) Mak Perry, «Troops felled by a ‘trust gap’ », Asia Times, 24 gennaio 2008.2) Chalmer Johnson, «How to sink America», TomDispatch, 22 gennaio 2008.
3) Doug Bandow, «The great defense budget black hole», Antiwar.com, 18 gennaio 2008.
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