Mosca: qualcosa non va?
31 Gennaio 2008
MOSCA - Naturalmente, i media hanno colto la palla al balzo: Putin anti-democratico.
Mikhail Kasyanov, il capo del partito Unione democratica del Popolo, non potrà concorrere alle elezioni.
Tra i due milioni di firme raccolte per la candidatura, 80 mila sono risultate false secondo la corte competente.
Poche lacrime vanno sparse su Kasyanov, uomo cresciuto all’ombra della famiglia Eltsin, fatto primo ministro da Putin nel 2000, e che Putin ha sbattuto fuori nel 2004; noto al pubblico come «Misha 2%» (la sua tangente-tipo), nei sondaggi la sua popolarità è bassa e gli odi che ispira alti, e le sue possibilità di far davvero la parte del competitore democratico sono praticamente zero.
Proprio per questo, però, è inevitabile chiedersi se occorreva proprio sbarrare il passo con metodo discutibile ad un simile concorrente elettorale.
Inevitabilmente, più che un atto di forza, tutto questo sembra un’ammissione di debolezza.
Di fragilità del potere di Putin.
Di problemi e fratture difficili da identificare da fuori.
A dire il vero, anche nell’Unione Sovietica il problema della successione è sempre stato il tallone d’Achille del regime.
A decretare chi sarebbe andato sulla poltrona di segretario - in mancanza di una procedura «legale» e accettata - sono state sempre lotte di potere, congiure di palazzo e purghe degli sconfitti.
L’ordine di potere verticale instaurato da Putin non sembra aver rafforzato questo snodo debole. Anzi, secondo uno studio malevolo ma acuto dell’intelligence militare britannico (1), la successione di Putin può «aprire le frammentazioni che il dominio di Putin ha nascosto, e mettere in forse il più cinico successo di Putin: l’ordine senza legge».
Gli inglesi, che speravano di impadronirsi dei cespiti russi attraverso i loro «oligarchi» di fiducia da loro finanziati (Khodorkovski si comprò la Yukos con capitali dei Rotschild) non hanno mai perso la speranza di rivincita: di qui la precisione con cui identificano i punti deboli del potere a Mosca, le rivalità interne e le sue fratture «nascoste», da ampliare appena se ne presenti l’occasione.
Il recupero dei patrimoni nazionali sotto il potere del Cremlino, per esempio.
A prima vista, un successo: negli anni ‘90, sette banche «private» (degli oligarchi con finanziamenti anglo-americani) controllavano il 50% del prodotto interno lordo, e con una dozzina di grandi gruppi pseudo-indipendenti raggiungevano il 70% del controllo.
Oggi, cinque alte cariche del Cremlino presiedono a gruppi aziendali o conglomerati che controllano il 33% del PIL.
Personalità quasi ignote, vecchi agenti del KGB (siloviki), vicini al presidente e di sua fiducia.
Un sistema che, secondo gli inglesi, è «inefficiente».
Dove l’autorità è delegata il meno possibile, e l’iniziativa è raramente consentita.
Dove ciò che non è animato dalla volontà diretta del presidente è «anarchico o inerte».
Dove manca «l’integrazione orizzontale», nel senso che scarseggiano lo scambio d’informazioni e il coordinamento operativo tra uffici, ministeri e individui.
Ai subordinati non vengono fornite le informazioni di cui necessitano per applicare le decisioni, o men che meno per «prendere decisioni».
Ciò rende il sistema «privo di meccanismi correttivi in caso di errori».
Soprattutto, questa concentrazione verticale del potere politico ed insieme economico-patrimoniale «ha concentrato le rivalità» di questi pochi potenti accentratori la cui legittimità è legata a Putin.
Qualcosa di queste rivalità s’è intravista proprio quando si è cominciata a profilare la necessità di trovare un successore.
Per qualche tempo, il candidato al trono è parso essere l’ottimo vice-primo ministro Sergei Ivanov, espressione del settore militare-industriale e delle alte tecnologie.
Oggi, il designato è Dmitri Medvedev, il presunto «liberista» simpatico agli ambienti occidentali, ma soprattutto presidente di Gazprom.
«Capite che è impossibile ritrovare la condizione di superpotenza solo attraverso lo strumento petrolifero?», disse un esasperato Ivanov in un’intervista a Trud il 7 gennaio 2007: evidentemente, era cominciata la lotta dei due settori per la direzione politica nazionale.
Ed evidentemente, contro il complesso militare-industriale, ha vinto il petrolio.
Queste rivalità sono tenute a freno finchè al vertice c’è l’energico, abile e deciso Putin, ma poi?
E’ per questo che gli stessi rivali, probabilmente, vogliono che il potere supremo resti a lui.
Solo che, la Costituzione vietando un terzo mandato presidenziale, il metodo scelto è quello di far fare a Putin il primo ministro eletto dal popolo, e mandare alla presidenza un suo uomo di stretta fiducia.
Solo che la Costituzione del ‘93 accentra tutti i poteri che contano sul presidente, non sul primo ministro.
Un commentatore russo ha notato, ragionevolmente, che meglio sarebbe stato cambiare la Costituzione per dare a Putin un terzo mandato: l’accomodamento escogitato, dove il primo ministro darà di fatto gli ordini al «suo» presidente, accresce la macchinosa confusione del potere di fatto, e in ogni caso viola, almeno nello spirito, la Costituzione.
Che poi aumenti la capacità di tenere a freno le rivalità dei potentati politico-industriali, è più che dubbio.
Gli inglesi, con malcelata schadenfredue, si aspettano che «il trasferimento del potere reale sarà cattivo, prolungato e destabilizzante» e che in alcuni potentati «la tentazione di reclutare il fattore internazionale sarà forte», e che le trame potranno giungere a «trappole accuratamente tese contro lo stesso Putin»: come «l’affare Litvinenko», tranello teso (secondo Londra) dal FSB (ex KGB) per assicurarsi la «lealtà» di Putin.
E’ evidente lo scopo di seminare zizzania e suscitare sospetti di accordi occulti col «fattore internazionale», ossia con gli interessi stranieri che Putin ha energicamente debellato.
Ma le insinuazioni non sembrano senza fondamento.
Il gruppo di potere che ha prevalso ha certo suggerito le frasi programmatiche che si leggono in molte dichiarazioni ufficiali: «Il peso che il Paese ha nel mercato energetico mondiale determina in larga parte la sua influenza geopolitica», «il potente settore energetico è uno strumento per la condotta della politica interna ed estera».
Il fatto è che mentre le forze armate sono state sempre (anche durante il periodo sovietico) distanti dalla stanza dei bottoni politici, il settore energetico (ossia Gazprom) è praticamente tutt’uno con la politica.
Non è solo che i livelli dirigenziali sono affollati di persone con un passato nell’intelligence; è che non è più ben chiaro se è la politica a comandare Gazprom, o Gazprom a comandare la politica.
Per esempio, coi Paesi sovietici dell’Asia Centrale, e specialmente col Turkmenistan, mantiene e difende coi denti lo status di unico compratore e di unico canale d’esportazione del petrolio locale: tentativi turkmeni di prendere contatti coi consumatori finali, e pagare a Gazprom solo le royalty per il transito nei suoi condotti, sono visti come una minaccia non concorrenziale, ma politica.
Ciò porta a tensioni e conflitti non necessari con questi Paesi, ed anche con la Cina, che vuol comprare quel petrolio.
Tensioni che si stanno accumulando, e possono scoppiare in futuro.
A valle (downstream), Gazprom vuole anche il controllo alle sue condizioni dei gas ed oleodotti, e la sua rudezza di «global energy leader» ha provocato i noti scontri con l’Ucraina, tentata dalle manovre americane di inglobamento nella «democrazia», e tensioni con la alleata Bielorussia. L’addebito a prezzo quintuplicato dei fluidi energetici all’Ucraina come ritorsione alla rivoluzione colorata locale, e l’interruzione delle forniture all’Europa (l’80% del gas che consumiamo passa per i condotti ucraini) ha avuto un effetto peggiore: ha fatto paura alla UE, e dato forza in essa agli elementi ostili al processo di integrazione economica Europa-Russia, ai filo-americani che mettono in guardia dalla «dipendenza energetica» da un regime «inaffidabile».
La proclamata volontà del colosso di «controllare l’intera catena del valore» (dai giacimenti asiatici alle condutture fino alle pompe di benzina europee) non ha fatto nulla per placare le ansie.
E nemmeno la frase di Aleksei Miller, il presidente esecutivo di Gazprom, quando nel giugno 2007 ha evocato un modello accentrato, «un unico centro di regimi di estrazione, di trasporto, di immagazzinamento sotterraneo e vendita».
Questo atteggiamento disconosce le legittime preoccupazioni europee riguardo alla sicurezza e continuità della fornitura, che comporta «diversità di fonti, fornitori, vie e metodi di trasporto», e dà credibilità a chi dice che l’interdipendenza fra UE e Mosca sta diventando «dipendenza» a senso unico.
Bisogna ricordare che queste ansie si stavano, fino a poco fa, appianando: ben felici numerosi Stati europei di stringere contratti a lungo termine con un fornitore più stabile (e meno minacciato) che le Arabie petrolifere.
Adesso, in molti c’è la sensazione che Gazprom si comporti come un nuovo Patto di Varsavia, teso alla «conquista» e alla «superiorità assoluta» più che all’interscambio; perché dopotutto, se l’Europa ha bisogno del gas russo, anche la Russia ha bisogno dei mercati e del know-how europei.
A questo si aggiunge il dubbio sulla capacità futura di Gazprom, troppo impegnata in questa sua azione «politica», a consegnare la merce.
La produzione di tre dei suoi quattro principali giacimenti di gas sta declinando.
Secondo l’International Energy Agency, solo per mantenere gli attuali livelli di estrazione, 200 miliardi di metri cubi dovranno provenire da giacimenti interamente nuovi: ma i relativi investimenti non vengono fatti.
Gazprom investe invece, consumando molto capitale proprio, in nuove condutture da esportazione, in acquisizioni di reti estere, progetti non direttamente estrattivi, e ricerche in altre parti del mondo.
Da dove verrà il gas da far passare per tutte quelle nuove reti e condutture, non è chiaro.
Gazprom tace, come fosse in ballo il segreto militare, e non la dovuta informazione alla clientela.
Insomma, si fa strada la sensazione che Gazprom agisca non come uno strumento della politica nazionale, ma come il suo protagonista e cervello.
Con gran svantaggio del business, tra l’altro.
Perché le vecchie infrastrutture d’epoca sovietica non vengono rinnovate né riparate, le condutture perdono, gas e petrolio vengono sprecati sui campi d’estrazione secondo i vecchi vizi sovietici da industria pesante; lo sfruttamento dei nuovi giacimenti in zone estreme viene ritardato perchè esso richiede capacità tecnologiche e finanziarie che la Russia non ha in casa, e che Gazprom non vuole ottenere dalle imprese occidentali perché il prezzo sarebbe associarle in joint-ventures.
La diffidenza verso le «sorelle» anglo-americane sarà anche giustificata.
Ma tutto ciò, alla lunga, potrà avere un effetto politico anche interno, ma nient’affatto favorevole, anzi sgradevolissimo: «Crescono i segnali», dice il testo inglese, «che può presto mancare la fornitura di energia all’economia russa che cresce rapidamente, e alla popolazione, che si è abituata a considerare la fornitura di energia a prezzo ‘sociale’ come primaria funzione dello Stato».
Il giudizio dell’opinione pubblica interna può cambiare dal favorevole all’ostile, se un giorno cominciasse a mancare la certezza del riscaldamento invernale, e se i prezzi interni dovessero salire verso quelli «di mercato»; la credibilità del regime e l’autorità di Putin ne sarebbero scossi.
Il sistema andrebbe decentralizzato e aperto, onde liberare iniziativa e fantasia imprenditoriale, acquisire mezzi finanziari e conoscenze tecniche; ma in quanto il sistema economico Gazprom è anche sistema politico (e burocratico, ancora «sovietico»), non ha l’elasticità per riformarsi, tanto più che la situazione è complicata da rivalità e nodi di corruzione e favori, visto che le forniture avvengono attraverso entità di intermediazione di scelta di Gazprom, dove chiaramente interessi (ossia tangenti e rendite di posizione) sono la contropartita di sudditanze o alleanze «politiche».
Si aggiunga che questo avviene di fronte agli sforzi dell’Europa - il cliente principale - di darsi una vera politica energetica europea, dove il cliente «parli con una sola voce».
Una proposta della Commissione, il 19 settembre 2007, è chiaramente intesa contro la concentrazione del mercato energetico (la strategia perseguita da Gazprom), essenzialmente separando le attività di fornitura-estrazione dalle reti di trasporto (come avviene per le ferrovie: la proprietà dei binari è distinta dalle imprese che vi fanno correre i treni).
In «applicazione del principio di reciprocità», la UE esige la stessa separazione da «imprese di Paesi terzi» che vogliono investire nelle infrastrutture energetiche europee.
E’ un chiaro messaggio a Gazprom: non di per sé ostile, un invito all’apertura (di cui ha bisogno) e alla interdipendenza.
Ma la risposta è stata ostile: Kostantin Kosachev, il presidente della commissione esteri alla Duma, ha replicato: «Come loro stanno impedendoci di entrare nei settori di mercato dell’economia euro-occidentale, così noi limiteremo l’accesso ai nostri partner esteri ai corrispondenti settori strategici dell’economia russa».
Una risposta che ancora una volta confonde i piani, il politico e l’economico, in modo tale che non si capisce quale guidi l’altro, o ne sia guidato; e che oltretutto tratta la UE come una potenza politica, mentre è - male o bene che sia - solo un mercato comune.
Questo atteggiamento ha alienato parecchi Paesi ben intenzionati a collaborare.
Anzitutto la Germania, e non solo per il filo-americanismo di Angela Merkel.
Lo ha riconosciuto con dispiacere Dmiti Medvedev, il presidente designato (da Putin): «La Germania non è più il nostro ponte per l’Europa».
Il punto è che Medvedev è anche il presidente di Gazprom.
Saprà distinguere tra le due funzioni, una volta al Cremlino?
Dalla risposta a questa domanda dipende la solidità dei futuri rapporto tra UE e Mosca; e se nelle tensioni e fragilità della stessa Russia potranno insinuarsi le forze - anglo-americane - che puntano a divaricare i rapporti e a trasformare le fragilità in brecce.
Note
1) James Sherr, «Russia & the West: a reassessment», The Shrivenham Papers no. 6. Defence Academy of the United Kingdom, gennaio 2008.
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