Vendesi Occidente stupido
12 Dicembre 2007
Abu Dhabi, attraverso il suo fondo Adia, ha comprato quasi il 5% della banca più grossa d’Occidente, Citibank: a prezzo da liquidazione, visto che le azioni di Citi, devastata dalle perdite sub-prime, sono ai minimi storici.
Ha persino ringraziato il suo salvatore arabo, che per la sua iniezione ricostituente di 7,5 miliardi di dollari s’è fatto dare non azioni, ma obbligazioni convertibili, che fruttano interesse sia che Citi vada bene, sia che vada male.
Singapore, attraverso il suo fondo Temasek, ha cominciato a comprare dal 2006 un 11,5% della proprietà della Standard Chartered Bank, ed ha approfittato di ogni successiva caduta dei corsi azionari per avanzare: ora della banca possiede il 17,2%.
Temasek ha anche il 2% della Barclays, mentre la Cina, attraverso la sua Developmnet Bank, s’è aggiudicata il 3,1% della banca inglese oggi in rovina.
L’altro fondo di Singapore si chiama GIC, ed ha «salvato» la svizzera UBS, la banca che gestisce le ricchezze dei super-miliardari meno visibili, con una iniezione di 9 miliardi di dollari.
E così fan tutti.
Dubai, attraverso vari fondi controllati dall’emiro, s’è comprato il 28% della Borsa di Londra (London Stock Exchange), il 20% del NASDAQ, il 68% della Thomas Cook India; e inoltre il 2,2% di Deutsche Bank, il 3% di HSBC, il 3,5% di Euronext, il 10% di Perella Weinberg Partners.
I cinesi stanno comprando a man bassa in USA ed in Europa, dove i prezzi sono bassi a causa dello scoppio della bolla più cretina e criminale del mondo.
Questi tempi di restrizione del credito e recessione sono tempi ideali per chi ha denaro liquido, che può comprare ciò che viene liquidato.
E quelli, di soldi ne hanno anche troppi: sono i «fondi sovrani» dei Paesi asiatici e petroliferi, esportatori, creati apposta per gestire le riserve che si accumulano (1).
Il fondo Adia di Abu Dhabi ha in pancia 875 miliardi di dollari.
Il fondo Temasek di Singapore dispone di 160 miliardi e l’altro, GIC, ne ha da spendere 100.
Uno solo dei fondi della Cina, il CIC, dispone di 200 miliardi.
Tutti insieme, i fondi sovrani hanno da spendere 2.500 miliardi di dollari, cifra che vedono aumentare ogni anno di un migliaio di miliardi: nel 2015, se esisterà ancora il mondo come lo conosciamo, ne avranno a disposizione 12 mila miliardi.
E ci comprano.
Il capo della Qatar Investment Autority, il fondo sovrano di quell’emirato, che siede su 60 miliardi di dollari, ammette che è diventato «irresistibile», dopo il crack immobiliare USA che deprime tutti i prezzi, andare a scegliere a metà prezzo i migliori gioielli dell’economia americana.
«Ci sono opportunità eccezionali per i fondi sovrani, che possono agire rapidamente e in modo riservato», dice il tizio, che si chiama Kenneth Shen, anglo-cinese: «Stiamo pascolando nel settore delle istituzioni finanziarie»: banche, borse, «asset managers», fondi speculativi disperati - e fino a ieri la punta d’eccellenza dell’economia USA - si consegnano in massa ai compratori liquidi esteri.
Così, il trionfo dell’ideologia occidentale terminale, la globalizzazione competitiva e la divisione internazionale del lavoro, finisce come doveva prevedibilmente finire: che i maghi del guadagno senza produzione, la finanza pura, diventano proprietà dei produttori-esportatori di merci reali.
A pezzi e a bocconi, l’Occidente (che si credeva più furbo) finisce sotto il dominio di sovrani stranieri: sovrani nel senso proprio.
Quelli non sono fondi speculativi privati, bensì riserve di Stato.
Di Stati altrui.
Che diventati padroni, vorranno (giustamente) comandare.
La Germania sta varando in fretta qualche legge che possa fermare alle frontiere questi fondi impedendo loro di mettere le mani, almeno, sulle «tecnologie strategiche» che sono il patrimonio nazionale, nonché sul settore energetico: leggi soprattutto dirette verso Cina e Russia, l’altro Stato che è pieno di dollari sovrani.
L’Unione Europea sta pensando a qualcosa di più burocratico e contorto: ha minacciato un regolamento che vieterebbe a fondi sovrani di utilizzare basi in uno Stato europeo per lanciarsi in acquisti da fallimenti nel resto del mercato comune.
Ma ha solo minacciato, e poi soprasseduto: la base amica europea da cui i raider partono è ovviamente Londra (dove la Borsa, come abbiamo visto, è già in mano a Dubai per il 20%), e la lobby britannica si oppone con successo: salvare il dogma liberista, prima di tutto.
I fondi sovrani agiscono secondo una stretta razionalità, anch’essa prevedibile: siccome i dollari in cui affogano perdono valore, se ne liberano andando a comprare in America qualunque cosa, proprio come un compratore privato farebbe in tempi d’inflazione.
Così, dollari che dormivano nelle casseforti tornano in circolo in massa, potenziando l’effetto inflattivo.
L’effetto, cioè, già pericolosamente innescato dalla Federal Reserve abbassando i tassi d’interesse, su disperata richiesta degli speculatori americani.
A questo proposito James Turk, della newsletter «Free Market Gold & Money Report», evoca il circolo vizioso che portò alla super-inflazione tedesca degli anni ‘20.
«Le richieste degli investitori USA alla Federal Reserve di abbassare i tassi d’interesse non sono diversi dalle richieste rivolte alla Reichsbank di stampare più moneta onde compensare ciò che era perduto a causa dell’inflazione. Il dollaro è diretto verso lo stesso sbocco cui si diresse il Reichsmark. La domanda calante erode il potere d’acquisto della valuta, e la Banca Centrale risponde creando ancor più unità di moneta – ‘stampando marchi’ nel caso della Reichsbank e ‘iniettando liquidità’ nel caso della FED: il che è esattamente la stessa cosa» (2).
I miliardi di dollari delle riserve sovrane estere che entrano in America a comprare di tutto moltiplicano e accelerano potentemente la leva inflazionistica.
Anzi, l’inflazione sta già producendo i suoi effetti, come vediamo dai rincari che ci svuotano le tasche (il globalismo prometteva un infinito ribasso): su tutte le merci che non escono dalle fabbriche, dove l’aumentata produzione industriale può contenere o mascherare l’effetto.
Quali merci?
Quelle dei campi e degli allevamenti, quelle delle miniere, la terra agricola, il petrolio, il cibo insomma.
Difatti materie prime e alimenti rincarano.
Di fatto, grazie al mercato unico senza barriere, la Cina sta esportando la sua inflazione mentre compera e si appropria dei cespiti occidentali.
Che dire?
La Reichsbank degli anni ‘20 aveva almeno la scusa della mancanza d’esperienza: una spirale
iper-inflazionistica non s’era mai vista prima nella storia.
Un giorno si riderà di un Occidente liberista che ripetè lo stesso errore per cieca fede nei dogmi del mercato e della finanza senza controllo, e si vendette allo straniero.
Né si vede segno di resipiscenza.
La Victorinox, che dal 1891 fornisce all’esercito svizzero il famoso coltello rosso dalle infinite lame, s’è vista portare via quella commessa storica: per ingiunzione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (il celebre WTO, il poliziotto del liberismo), l’armata elvetica ha dovuto fare un’offerta per l’attrezzo nuovo (dovrà avere anche una porta USB…) sul mercato mondiale, in libera competizione sul prezzo: ovviamente, quattro fabbriche cinesi che producono la copia esatta si sono messe in gara per aggiudicarsi la commessa, e quasi sicuramente vinceranno.
Se si fosse rifiutata, la Svizzera sarebbe stata condannata a pagare una multa miliardaria.
E’ vietato preferire la propria fabbrica nazionale, anche se la Victorinox ha 920 dipendenti che saranno presto a spasso, se è un’azienda familiare, se il prestigio del coltellino svizzero sta nel fatto di essere, appunto, di qualità svizzera (3).
E non è il solo caso.
Il comune elvetico di Stein am Rhein, nel cantone di Sciaffusa, ha espresso l’intenzione di restaurare il suo castello di Hoheklingen, che risale al dodicesimo secolo.
Siccome il progetto ha un costo elevato (23 milioni di franchi), il WTO ha sancito che per una simile cifra occorreva lanciare un’asta internazionale.
Il comune si è ribellato: ha voluto che il restauro fosse eseguito da aziende locali, perché pagano le imposte localmente, creano posti di lavoro locali, e sono lì se ci sarà bisogno di altri lavori sul castello.
«Non intendo rispettare direttive assurde che non valgono per piccoli paesi e cittadine», ha detto il sindaco, che si chiama Hostettman; ed ha dichiarato il paesello che amministra «zona libera dal WTO».
Una cosa un po’ più seria della scritta «comune denuclearizzato» che sindaci italiani di villaggi che nessuno pensa di nuclearizzare fanno apporre all’entrata dei loro paesotti.
Infatti, il sindaco Hostettman, col sostegno della popolazione, ha pagato la multa (lieve, grazie ad un tribunale svizzero ragionevole) ed ha fatto restaurare il castello dalle imprese locali.
Ed è interessante sapere che ben 70 comuni svizzeri si sono dichiarati «liberi da WTO», fra cui Zurigo e Ginevra.
L’esempio pare essere contagioso, perché centinaia di altre città europee l’hanno seguito: fra cui spicca Vienna.
La storia ricorderà forse questi sindaci come coloro che salvarono l’Occidente dalla sua stupidità suicida?
Sicuramente, non saranno sindaci italiani.
Note
1) Ambrose Evans-Pritchard, «Sovereign funds scoop up crisi victims», Telegraph, 11 dicembre 2007.2) Richard Daughty, «Weak dollar induces a dream world», Asia Times, 11 dicembre 2007.
3) Werner Wüthrich, «L’OMC menace-t-elle la liberté?», Réseau Voltaire, 5 novembre 2007.
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