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Fallito il piano delle banche centrali
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Tutti dicono che l’inflazione rialza la testa nel mercato globale: certo, rincarano il grano e il greggio (ma i metalli calano, il rame è sceso del 23 per cento da ottobre, il nickel del 53 da maggio, segno del rallentamento produttivo), ma il motivo principale è monetario.
La banca centrale europea, quella che si è data come compito unico la stabilità del prezzi, ha creato dal nulla altri 348,6 miliardi di euro per gettarli alle banche in crisi, che non si prestano i soldi l’un l’altra.

Denaro a breve: due settimane.
Al 4 per cento, ossia a 0,70 meno che il tasso commerciale a breve.
Tanto per far passare le vacanze di Natale senza file di clienti agli sportelli.
Ammesso che fra due settimane le banche debitrici restituiscano quella cifra colossale, l’effetto inflattivo non sarà visibile.
Ma se i prestiti saranno in tutto o in parte prolungati, allora una nuova valanga di moneta entrerà in circolo.

Persino le banche centrali inglese e americana osservano basiti: la nostra Banca Centrale riesce a buttar via, in bocca ai giocatori d’azzardo, mezzo miliardo di dollari, senza suscitare una sola reazione dai contribuenti (o sudditi).
La Banca d’Inghilterra è stata aspramente criticata per aver gettato nel forno delle banche decotte meno di un decimo di quella cifra, e con condizioni punitive.
Le banche inglesi manco hanno toccato quel denaro messo a disposizione, sono corse a Francoforte a indebitarsi con l’Europa.
Tutte ad arraffare il loro regalo di Natale.
Tanto, gli europei tacciono…..

Questa ulteriore e imponente trasfusione d’emergenza, dopo le innumerevoli precedenti, dice che la clamorosa sceneggiata di pochi giorni fa, quando le cinque principali banche centrali, guidate dalla Federal Reserve, hanno platealmente condotto una trasfusione congiunta, sta fallendo.

Lo scopo era di ridare fiducia al sistema finanziario globale, sia rimettendo in sesto il mercato interbancario oggi paralizzato, sia mostrando urbi et orbi che le grandi banche d’emissione sono concordi e saldamente all’attacco del problema, tutte insieme come una invincibile forza d’urto.

Le grandi banche private americane hanno potuto fornirsi di liquidi in dollari in via anonima, e la Federal Reserve ha accettato come garanzia dei prestiti anonimi, quali «attivi», i derivati più dubbi, al valore che avevano tre mesi fa, e che è oggi è ridotto come minimo dell’80 per cento, ammesso che qualcuno voglia comprare quei pacchetti maleodoranti. 

Non è servito a nulla.

Il mercato interbancancario non si è rianimato, come dimostra il livello del tasso Libor, che indica la salute di tale mercato – ossia la fluidità e facilità con cui le banche sono disposte a prestarsi denaro a vicenda – e che è rimasto altissimo.
Quanto all’impressione psicologica che ha fatto la quadrata legione delle cinque banche centrali, è stata addirittura negativa: dopo l’annuncio dell’intervento congiunto e gli squilli di tromba, le borse sono cadute dappertutto.
La speculazione ha interpretato l’intervento nel modo seguente: vuol dire che le banche private sono in condizioni ancora peggiori di quanto si sospettava, dunque scappiamo.

«La Federal Reserve», commenta il sito Europe2020, «ha dunque perso i due attributi che la caratterizzavano nel sistema finanziario mondiale dal 1945: la sua credibilità di attore che a volontà poteva modificare le tendenze generali dei mercati, e la capacità di organizzare e trascinare l’insieme delle banche mondiali secondo i suoi obbiettivi» (1).

Il tutto è naturalmente aggravato dal peso sproporzionato che ha la finanza speculativa nell’economia mondiale.

Secondo il sito francese, c’è un altro elemento in vista: le strategie delle principali banche mondiali occidentali (Fed, BCE, Bank of England e Banca Nazionale Svizzera) sono divergenti.
La «quadrata legione» si è riunita forse per l’ultima volta, e solo per somministrare un calmante passeggero, non per concertare una terapia.

Via via che le conseguenze della recessione USA mostreranno tutta la loro vastità (a spese degli americani, ma anche dell’Asia troppo dipendente dall’export in USA), le forze centrifughe si rafforzeranno, ciò che secondo Europe 2020 dovrebbe portare a «una rottura del sistema finanziario mondiale contemporaneo nell’estate del 2008».

Saranno disastri per le maggiori istituzioni finanziarie: basta pensare che 7 grandi banche hanno in pancia il 98 per cento dei derivati tossici sub-prime (per la cifra siderale di oltre 154 trilioni di dollari), mentre il 2 per cento restante (sono pur sempre quasi 3 trilioni, tremila miliardi) sono sparsi tra le altre 929 banche di primaria importanza.
Ancor più soffriranno le banche che non hanno capito l’evoluzione in corso, e si sono troppo fortemente agganciate al dollaro e ai suoi destini: vedi Cina.

 

Ovviamente anche investitori e depositanti avranno i loro guai, con rischi di perdite considerevoli «come nel 1929 e nel 1973 ed anni seguenti».
Ma la necessità potrà far trovare la forza di costruire e organizzare un nuovo sistema.
Gli USA subiranno la botta maggiore, soprattutto perché il nuovo ordine finanziario globale non sarà più organizzato a loro profitto, come da oltre mezzo secolo.
Il prossimo presidente (in carica da gennaio 2009, molto tardi per la velocità degli eventi) sarà occupato nel compito di gestire una trasformazione veramente storica, con tutte le nuove limitazioni economiche e finanziarie del caso, tanto più che ciò avverrà in un quadro generale di recessione.
Ma almeno l’interventismo devastatore USA e la sua ideologia – il capitalismo terminale – saranno meno intrusivi.

E’ possibile che si apra uno spazio per le classi dirigenti della zona euro, in concerto con Cina e Giappone, di accordi di lunga durata con Russia e gli altri paesi petroliferi per organizzare qualcosa di simile ad una nuova Bretton Woods.
In via immediata, dovranno evitare che la crisi non controllata e aggravata da recessione e credit crunch si volga in caos, nel tutti contro tutti.

Ma esistono classi dirigenti all’altezza del momento?
Ecco l’incognita.

L’Europa occidentale non ha l’aggravio di una bolla immobiliare così titanica come gli Stati Uniti, sicchè possono aspettarsi una recessione lenta e non abissale, come lenta e scarsa è stata la crescita negli anni del boom speculativo.
Le case non scendono di prezzo a rotta di collo, sicchè le banche che hanno concesso mutui sarebbero ora in condizioni passabili, se non fosse per un piccolo dettaglio: se cioè non si fossero lanciate a speculare sul mercato immobiliare USA, così «avanzato» e tanto «sofisticato», come hanno fatto certamente le banche tedesche e tante altre banche europee, in numero ancora sconosciuto (ma il mega-prestito bisettimanale della BCE ci suggerisce qualcosa).

Questa «classe dirigente» dovrebbe essere sostituita con le brutte.
Ma da chi?
Dalla «classe dirigente» politica?


Ormai il 50 per cento della proprietà delle maggiori imprese tedesche, che vanno benissimo, appartiene ad investitori esteri.
Adidas è straniera al 79 per cento, Bayer al 78, la stessa Deutsche Borse di Francoforte è in mano a stranieri per l’84 per cento: ringrazino i tedeschi la loro «classe dirigente», a cui è sembrato moderno aprire i confini a potenze con dollari facili che hanno comprato tutto
 Ora i tedeschi sgobbano per i petrolieri sauditi e arabi, per gli speculatori americani, per i Soros e i Rotschild (2).

 

Il colpo più doloroso lo riceverà il Regno unito, il cui sistema economico è più «americano» e dove i servizi finanziari (la City) producono oltre il 9 per cento del Pil, sono la sola industria rimasta.
Nei prossimi anni, saranno pochi a richiedere i servizi finanziari sofisticati della City.
Per di più, lì la bolla immobiliare è di tipo americano, con i prezzi a Londra sopravvalutati di almeno il 200 per cento.
Si aggiunga che i consumatori inglesi sono indebitati come gli americani, e che la loro ricchezza solida – che magari hanno impegnato come collaterale per i prestiti – è legata alla casa in cui abitano, e che, nel giro di tre anni, varrà il 40 per cento in meno.
In compenso, Londra ha la propria moneta sovrana, e la sterlina svaluterà, ritrovando la storica parità col dollaro (1,50) e favorendo così quel che resta del sistema industriale, che resiste nel nord inglese (3).

S’intende che quando parliamo di Europa occidentale come l’area che sarà relativamente la meno colpita, non intendiamo l’Italia.
Questa seguirà in qualche modo il destino della «nuova» Europa, dell’Est baldanzosamente diventato liberista.
Per lo stesso motivo – il debito pubblico – ma contratto per diverso movente: all’Est, i paesi si sono indebitati sui mercati speculativi internazionali per finanziare il loro sviluppo e i loro consumi. Estonia e Lettonia, che sono i paesi di successo in questa avanzata, hanno un deficit commerciale pari al 10 per cento del Pil, che sarà difficilissimo da rifinanziare con l’avanzare della recessione, la quale provoca il declino degli investimenti esteri.
Pensate quello che succederà all’Italia, che ha un debito «pubblico» pari al 103 per cento del Pil, e su cui paga 70 miliardi di euro l’anno, risucchiati dalle nostre tasche da Visco e consegnati in parte ai creditori esteri (è stato Ciampi ad inaugurare l’indebitamento internazionale).
Qui, non ci si è indebitato per lo sviluppo, ma per mantenere i lussi della Casta parassita. 
Si tratterà di vedere se gli italiani hanno ancora abbastanza risparmi da comprare BOT a buon interesse.
O se, come pare, si sono già indebitati troppo per lo schermo piatto a 72 pollici e il SUV, o per il mutuo variabile.

Bisognerà tornare a lavorare per il consumo interno: e probabilmente per sostituire badanti ucraine e muratori romeni e panettieri egiziani.
Lo sappiamo ancora fare?
Le nostre aziende ancora produttive sono piene di immigrati (a cui dovremo pagare la pensione quando torneranno in patria: esborso netto, consumato altrove) e di vecchi operai italiani prossimi al ritiro.
Bisognerà strappare i giovani dalle discoteche?
Se riusciremo a restare nell’euro, ecco l’altro grande interrogativo.

Ma questo sarà ancor poco, in confronto a quel che può succedere in Asia.

La Cina, il grande vincitore di questi anni folli, può diventare il massimo perdente.
Già oggi la Cina soffre di insufficienza di credito nel mercato interno.
I consumi stanno aumentando – finalmente, ma non nel momento migliore – e l’inflazione cresce già vistosamente mentre i tassi d’interesse nell’economia interna restano negativi.
Verrà il momento in cui i risparmi delle formichine messi nelle banche cinesi non basteranno a finanziare insieme i consumi crescenti e la fame di denaro delle imprese di stato, perennemente in perdita e mantenute in vita con i prelievi tributari (anche loro hanno la Casta).
Al contrario dell’Italia, la Cina ha enormi riserve (ma in dollari deliquescenti) che può usare, anzi già sta usando, per salvare le sue banche strapiene di crediti inesigibili.

Ma ciò attizza le spinte inflazioniste, che possono anche innescare l’iper-inflazione.

Si vedrà allora il valore della «classe dirigente» di Pechino.

Nel 2008 avrà da gestire, quasi sicuramente, una grande depressione che però, al contrario di quella americana del ’29, sarà caratterizzata non da deflazione ma da inflazione.
Il Pil potrà crollare (per la scomparsa del consumatore USA) e il suo folle mercato azionario, anche del 70 per cento, con gran dolore degli speculatori interni e di quelli internazionali che si sono lasciati attrarre dai trionfi di carta di quel «mercato».
Ma il Paese è ormai densamente industrializzato e sta imparando il lavoro di qualità: nel giro di sei anni risalirà al rango di grande potenza produttiva che è suo.

Andranno meglio le altre economie asiatiche, proprio quelle che sono state relativamente trascurate dall’avidità della speculazione globale perché i loro tassi di profitto erano meno astronomici di quelli promessi dalla Cina.
Taiwan si salva grazie alla sua liquidità e alla sua specializzazione nell’elettronica, settore che sarà meno toccato dalla recessione.
Il Giappone ha buone possibilità di soffrire poco, anche perché basta che rialzi il suo tasso d’interesse primario – oggi allo 0,50 per cento – ad un 2-3 per cento: tale è la cultura del risparmio in Giappone, che un rincaro dei tassi là stimola l’economia anziché strangolarla.
Anche la Corea del Sud beneficerà: basta dire che la sua borsa, trascurata dagli speculatori folli, ha un p/e (rapporto fra prezzo dell’azione e dividendo) di solo 12, contro il 40-50 cinese.
Chi nella depressione avrà ancora dei liquidi, potrà fare là buoni affari.

Decisamente, dobbiamo cambiare la nostra «classe dirigente»: altrimenti, avremo un ennesimo 8 Settembre.



Note
1) «Alerte LEAP/E2020 : Phase de rupture du système financier mondial en 2008»,  Europe2020, 15 dicembre 2007.
2) Marie de Vergès, «Les etrangers controlent plus de 50% des groupes allemands», Le Monde, 18 dicembre 2007.
3) Martin Hutchinson, «Wheres  the juiciest bear food?», Asia Times, 19 dicembre 2007.


 
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