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Occidente, terzo mondo
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Anzitutto, qualche interessante statistica sulla Cina (1):

Già oggi è il maggior consumatore mondiale di carbone, granaglie, fertilizzanti, cellulari, frigoriferi e televisioni.

E’ il maggior importatore di minerale ferroso, acciaio, rame, alluminio e nickel.

E’ il maggior produttore mondiale di cemento e carbone.

Nel 2006 la Cina ha bruciato 2,5 miliardi di tonnellate di carbone, ossia più dei tre Paesi che seguono nell’utilizzo del carbon fossile (Russia, India e USA) messi assieme.
La Cina conta almeno 2 mila centrali di produzione di elettricità funzionanti a carbone, e ne aggiunge una nuova ogni 4-7 giorni.
Tra il 2003 e il 2006 l’uso del carbone come combustibile è cresciuto più che nei 23 anni precedenti, e la Cina è responsabile di tale aumento per il 90%.
Dal 2006 la Cina ha superato gli Stati Uniti come massimo emettitore planetario di ossido di carbonio.
Già nel 2005 emetteva il doppio del biossido di zolfo degli americani.

La Cina lancerà nel 2008 17 satelliti artificiali.
Ha in progetto di costruire 3 portaerei.

E’ il maggior importatore mondiale assoluto di legname raccolto illegalmente, dato che dall’inizio del boom già tre quarti delle foreste cinesi sono sparite, e un quarto dell’immenso territorio è deserto.
La Russia è il suo maggior fornitore, e qui metà del legname viene ricavato in modo illegale; l’Indonesia il secondo fornitore, e qui è illegale la raccolta all’80%.
Il 90% dei prodotti in legno fabbricati in Cina è consumato all’interno del Paese (fra cui 45 milioni l’anno di bacchette per mangiare).
Ma il 10% esportato vale 17 miliardi di dollari, e il 40% finisce negli USA.

La Cina è il terzo produttore mondiale di auto dopo Giappone ed USA, e nel 2015 sarà il primo.

Entro il 2030 le auto sulle strade cinesi - oggi 33 milioni - saranno 130 milioni.

La Cina produce metà delle fotocamere, un terzo degli apparecchi TV del mondo.
Il 60% dei bottoni.
La metà dei reggiseni in seta e la metà dei fuochi artificiali.
Naturalmente, produce anche un terzo di tutti i rifiuti del pianeta.

Ogni anno 400 mila cinesi muoiono prematuramente per malattie respiratorie o cardiache da inquinamento.
Circa 250 mila muoiono per incidenti di traffico: sei volte più che in America anche se gli americani guidano 18 volte di più auto.
Delle venti città più inquinate del mondo, 16 sono in Cina.

Circa 700 milioni di cinesi bevono acqua inquinata da scarichi industriali o animali.
Un miliardo di tonnellate di liquidi di scolo non trattati vengono gettati ogni anno nel fiume Yangtze.
Quattro fiumi su cinque non hanno più pesci, perché troppo inquinati.

Le tempeste di polvere (un tempo evento raro) hanno ormai cadenza mensile, e spesso le polveri cinesi raggiungono gli Stati Uniti: nel 2001 50 mila tonnellate di polveri cinesi si posarono sugli USA (fino al Maine), ossia 2 volte e mezzo la produzione di polveri quotidiana negli stessi Stati Uniti.
Il 36% delle emissioni di mercurio in America sono di provenienza cinese, e i particolati sospesi provenienti dall’Asia coprono la metà dei limiti legali d’inquinamento della California, terra di salutisti molto ecologici.

I danni ambientali costano, si calcola, il 10% del PIL cinese; solo le morti dovute a inquinamento costano il 4% del PIL.
Nonostante questo, il boom continua, e si capisce perchè: il reddito pro-capite in Cina è solo un decimo di quello americano, e i salari sono altrettanto bassi.  E tuttavia, la classe media cinese – oggi valutata in 100 milioni - sarà di 700 milioni nel 2020
. 

 

La domanda è: quanto sarà grande la classe media europea (o americana) nel 2020?
Essa sta già diminuendo.
Non c’è settore industriale in cui la forza-lavoro occidentale sia veramente competitiva rispetto alla Cina o all’India: il conglomerato Tata ha annunciato la produzione di un’auto da 2.500 dollari, e insieme l’acquisto dalla Ford in difficoltà di Jaguar e Land Rover.
Non ha solo il vantaggio comparativo del lavoro a basso costo, ma anche gli ingegneri, la robotica, le capacità di progettazione e di marketing un tempo esclusive dell’Occidente.
Gli indiani e i cinesi hanno imparato, mentre noi abbiamo perso conoscenze, cultura e istruzione.

La «superiorità» occidentale non ha mai avuto cause razziali.
Dipendeva dal «capitale intellettuale» accumulato qui nei secoli, e che si esprimeva in certezza del diritto, onestà intellettuale e creatività culturale, in laboratori di ricerca e grandi università, dove lo scambio di idee e scoperte era accelerato dalla fiducia reciproca, informale: la chiacchierata attorno alla macchinetta del caffè, tipicamente.
Oggi i frutti dell’innovazione occidentale sono passati al dominio comune globale, e in Occidente il ritmo dell’innovazione cala.
Grazie anche ad una «etica» generale che paga di più i divi dello spettacolo che gli ingegneri, che stima più i calciatori che i ricercatori, e in generale, le attività del «tempo libero» più che quelle, ardue, della serietà.

Aiutava la disponibilità di capitali enormi a basso costo, tipica (una volta) dei Paesi ricchi.
Questo vantaggio competitivo oggi è devastato da due decenni di politiche di bassissimi tassi d’interesse imposti sul piano globale, che ha eliminato insieme il vantaggio comparativo dei costi di finanziamento più bassi per l’Occidente, e abolito la propensione al risparmio dei cittadini occidentali in nome del consumo frenetico e superfluo.
I capitali di ventura hanno avuto la possibilità di «investirsi» senza limiti là dove i salari risibili promettevano la più incredibile retribuzione del capitale: più l’Indonesia che l’Italia o gli USA. L’abbondanza di moneta ora è là, e le conoscenze per investimento e speculazione di Wall Street e Londra hanno indotto un’immensa crisi d’insolvenza proprio in Occidente.

Risultato: mentre, fra luci ed ombre la Cina ha una crescente classe media nazionale, probabilmente con le virtù di stabilità e solidità, patriottismo e risparmio delle classi medie «nerbo delle nazioni», in Occidente la società si foggia a clessidra.
In mezzo una classe media che striminzisce e perde qualità e potere d’acquisto (2).

In alto, una piccola classe di miliardari, speculatori, divi, e forse ricercatori che stanno ancora alle frontiere estreme della ricerca, per ora irraggiungibili da Cina e India (forse): che non si sa per quanto tempo ancora potranno dare un vantaggio competitivo ai nostri Paesi rispetto ai colossi «emergenti».

In basso, una quantità di posti di lavoro nei servizi non esportabili, che richiedono basso livello di qualificazione.
Un barbiere cinese costa meno di uno milanese, ma continuerà a non convenirci andare in Cina per farci tagliare i capelli: così il posto del barbiere italiano, e il suo livello di reddito, è più sicuro di quello dell’operaio e dell’ingegnere.
Lo stesso si può dire di un’altra quantità di servizi: commesso di negozio e pizzaiolo, cameriere d’albergo, donna delle pulizie in ditte e ristoranti, benchè dotati di istruzione pari al cameriere, alla donna delle pulizie e al commesso africano, potranno pretendere ancora salari dieci volte superiori al loro collega africano o cinese.

Lo stesso si può dire di badanti e infermiere, di cui cresce la domanda.
In teoria, uno Stato che volesse mantenere almeno questi livelli dovrebbe bloccare l’immigrazione di forza-lavoro poco qualificata, che fa concorrenza ai nostri ignoranti nazionali.
Ma un momento, quale concorrenza?


I giovani italiani usciti analfabeti dalle scuole, non vogliono i mestieri di badanti e di infermiere. Non sono disponibili per lavori dignitosi, non sono stati educati né allo spirito di sacrificio né alla solidarietà che richiedono; non ne hanno, del resto, nemmeno le competenze (che per gli infermieri sono tutt’altro che minime).
Loro vogliono fare i disk-jockey e le veline; il Paese deve importare infermiere dalla Polonia, donne delle pulizie dal Maghreb e badanti dalla Romania e dall’Ucraina.

 

I nostri giovani forniti di laurea affollano i concorsi pubblici, sperando in uno stipendio pubblico.
Ed è questo il problema aggiuntivo dell’Italia rispetto agli altri Paesi occidentali.
Se esiste qui qualcosa di simile ad una classe media,  percettrice di aumenti di stipendio e capace di accrescere il suo potere d’acquisto, è la classe genericamente definibile come burocrazia pubblica.

In questa classe non sono tutti parassiti.

Ci sono persino insegnanti e presidi che lottano contro tutta la mentalità corrente per mantenere (espandere non più) il capitale culturale collettivo, prefetti e poliziotti che si battono per mantenere quell’altro inestimabile capitale che è l’ordine pubblico, la cui assenza rovina la Colombia e l’Iraq.

Ma come classe generale, questa è massicciamente addetta ai «servizi non vendibili»: come per il barbiere non possiamo andare a Pechino, così dobbiamo tenerci i docenti, gli agenti e gli statali locali.
Che costano dieci o venti volte di più, dando un servizio più che mediocre o nessun servizio, ma

i cui salari crescono più dell’inflazione.
E sono i soli a crescere.

Ed ogni aumento di questi salari in senso stretto improduttivi, non-esportabili, ha un solo effetto: produce inflazione, perché sempre più denaro in mano a questa classe concorre all’acquisto degli stessi beni.

E’ per questo che il bilancio di Padoa Schioppa (di cui ha vantato un «avanzo primario» grazie a trucchi contabili da codice penale) ha raggiunto una tassazione vicina al 44%, ed un aumento delle entrate del più 7,2% in un anno, dovuto in gran parte all’aumento del prelievo fiscale diretto, aumentato da solo del 13%: una spoliazione, visto che i redditi dei contribuenti privati e produttivi non hanno raggiunto nemmeno un decimo di quella percentuale.
E’ per questo che, nonostante la torchia sanguinosa, le uscite pubbliche continuano a superare le entrate: 44,2% contro 43,7%.
E che aumentano le spese correnti, più 3,7%.
Senza contare che nel 2008, anno di recessione per i contribuenti, lavoratori e quel che resta della classe media, si dovrà rinnovare il contratto scaduto dei dipendenti pubblici: altri 4-5 miliardi di euro.
Altre imposte.
Altra inflazione, che graverà sui privati, sulla sempre più ristretta base imponibile dei produttivi che esportano.
E’ un passo storico tragico, che l’Occidente sarebbe in piedi ad affrontare, se ancora avesse la sua cultura e la sua intelligenza.
Non ce l’ha più.

Il risultato dunque sarà questo: l’erosione dei redditi occidentali, diretti a convergere verso quelli cinesi in una tendenza storica.
Intanto, è vero, quelli aumenteranno.
Ma si dovrà arrivare ad un punto in cui la stessa ignoranza e sarà pagata ugualmente in Cina come in Italia - salvo che per la Casta.

Gran parte della popolazione occidentale sotto i 30, a parte una minoranza iper-qualificata o di successo nello spettacolo o nella finanza, abbia di fronte un ventennio di ripetuti periodi di disoccupazione, con cambi di lavoro cercati non per migliorare il proprio emolumento, bensì per accettare paghe via via inferiori.
E’ probabile che verso il 2030 il reddito mediano in USA ed Europa sia il 50-60% di quello attuale,  Casta esclusa.

Solo fra un trentennio, quando l’istruzione d’alta qualità e le infrastrutture moderne di Bologna e del Bangladesh saranno più o meno pari, e l’immigrazione dal Terzo Mondo al Primo (ex Primo) sarà stata ridotta dalla stessa inappetibilità dei salari in Occidente, il campo di gioco globale sarà pareggiato, e i livelli di vita forse cresceranno di nuovo, insieme nel Terzo e nell’ex Primo Mondo. S’intende, se ci sarà qualcuno ancora vivo, o in grado almeno di leggere e scrivere.


 

Note

1) «The China effect», Rense.com, 6 gennaio 2008.

2) Martin Hutchinson, «Eroding western linving standards», Asia Times, 9 gennaio 2008.


 
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