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Gli autori del crack
27 Gennaio 2008
Come oggi di nuovo, anche la crisi del 1929 fu lo scoppio di una bolla speculativa, conseguenza (come oggi) di una deregulation e di un estremo lassismo creditizio.
Oggi, la causa sono i bassissimi tassi d'interesse sui debiti innescati da Greenspan, che hanno spinto ad indebitarsi eserciti di insolventi potenziali.
Nel 1926, fu consentito a Wall Street di comprare azioni a credito, anticipando solo il 10%
del dovuto.
Se, poniamo, il tasso del debito era al 3% e le azioni salivano al 6%, chiunque credeva di poter giocare, guadagnare e - restituito il debito - tenere per sé ancora un profitto.
La dattilografe e i fattorini d'albergo cominciarono a indebitarsi con le banche per speculare in Borsa.
Nell'aprile del '29 ci fu un aumento dei tassi, e per la prima volta fattorini e dattilografe non riescono a rimborsare gli interessi, divenuti ormai superiori ai profitti di Borsa; sono costretti a vendere i titoli per pagare i debiti, e così innescano la reazione a catena che porterà al crack dell'ottobre.
Ma fino a quel Giovedì Nero, sono anni di bengodi: tutti sono ricchi a credito, esattamente come oggi i poveracci hanno potuto accendere un mutuo per case che non potevano permettersi.
Dal 1926 al 1929 i corsi azionari aumentano del 120%, quasi la metà dell'aumento strepitoso segnato dalle azioni nell'intero decennio, dal 1921 (300%).
Ma quel 300% corrisponde ad un aumento della produzione industriale, nel decennio, del solo 50%.
Che importa? Non è per i dividendi che fattorini e impiegatine comprano azioni a credito, ma per lucrare sul rialzo dei corsi.
Tra maggio e ottobre 1929, la produzione industriale scende a precipizio - del 7%; tra marzo e settembre la produzione di auto precipita da 622 mila a 416 mila veicoli, ma la Borsa, trionfale, continua a salire.
E non è nemmeno che ci sia eccesso di produzione industriale, aumenti di auto invendute; la verità è che le industrie producono meno perchè sono in asfissia di capitali: i capitali corrono a «investire» sulle azioni anziché nell'economia reale.
Niente paura, «i fondamentali sono sani», ripetono i grandi banchieri.
Invece, come appureranno poi gli storici dell'economia, in quei mesi si produce una sinistra inversione: i titoli aumentano più dei profitti industriali.
Ma questi aumentano comunque più della produzione e della produttività.
E la produttività (del lavoro) aumenta più che i salari.
Dunque anche allora come oggi, a pagare i costi della grande illusoria ricchezza sono i lavoratori. Come sempre quando impera la Borsa, dove il gioco è a somma zero - se qualcuno vince, è perché qualcun altro ha perso la stessa cifra - tutto si riduce ad una eccezionale retribuzione del capitale a spese del lavoro. Dopo il crack del '29 fu vietato l'acquisto di azioni a credito e la vendita di titoli allo scoperto (le due cose sono equivalenti).
Oggi, questo è stato di nuovo consentito.
Non a tutti, si capisce.
I normali fondi d'investimento, e ancor più i fondi pensione, sono tenuti a certe regolamentazioni per ridurre i rischi.
Oggi possono giocare allo scoperto solo gli hedge fund, che possono così manipolare al ribasso i corsi; e possono acquistare a credito, con i derivati altamente «leveraged».
Dunque si è tornati a ripetere lo stesso «errore», se vogliamo chiamarlo così.
Perseverare diabolicum.
Come mai? La risposta è nei clienti degli hedge fund: per farne parte, bisogna investirvi almeno un milione di dollari di patrimonio, e il numero dei soci deve essere inferiore a cento.
Insomma: bisogna essere plutocrati (1).
La categoria per cui non valgono le regole dei comuni mortali.
A cominciare dalla tassazione.
Quanto paga un dipendente sul suo salario lo sappiamo, in Italia fino al 43%, in USA e Gran Bretagna fino al 37%.
Mentre i 54 miliardari in sterline che abitano a Londra (senza essere necessariamente britannici) hanno pagato nel 2006, su una fortuna complessiva di 126 miliardi di sterline, tributi per 14,7 milioni.
Attenti alle parole «miliardi» di ricchezza contro «milioni» di tasse: il carico tributario di questi signori si aggira sull'1,2%.
E questo durante il governo del partito laburista di Tony Blair, l'ex partito della giustizia sociale, la cosiddetta «nuova sinistra».
Il motivo non è un mistero. Ronald Cohen, uno dei giganti del private equity, ha versato al partito di Blair un contributo di 1,8 milioni di sterline, l'ex partner Goldman Sachs John Aisbitt ha regalato al «New Labour» 750 mila sterline, e così via (la lista dei donatori plutocrati è lunga, la donazione minima mezzo milione di pound): una piccola spesa con cui lorsignori si sono garantiti legislazioni tributarie e deregolamentazioni «business friendly», favorevoli agli affari (loro).
D'altra parte, se le tasse aumentano, quelli ci mettono niente a stabilirsi alle Cayman.
In Inghilterra come in USA, gli eletti del popolo sono pagati dai plutocrati, e dunque al loro servizio.
Dunque questi possono giocare a credito e allo scoperto, ciò che è vietato a investitori più piccoli.
Lo hanno fatto alla follia, usando tutti i sofisticati moltiplicatori offerti dai derivati, coi miliardi presi a prestito a tasso zero col «carry trade», con tutti i trucchi messi a disposizione della loro impunità, dall'insider trading al rifiuto di fornire informazioni ai controllori; hanno rifilato meraviglie tossiche alle grandi banche, che le hanno ingoiate credendo di aver trovato la gallina della uova d'oro.
Questi hanno manovrato immensi multipli del capitale e pseudo-capitale speculativo che portò alla rovina del 1929: per questo il disastro che stanno portando al mondo è immensamente più grosso, pieno di buchi.
Ma il meccanismo, dimensioni a parte, è identico. I plutocrati che contano sono poche decine.
I primi dieci gestori di fondi hedge hanno incassato personalmente in un solo anno (2006) almeno mezzo miliardo di dollari, pari a 1,3 milioni di dollari al giorno.
Il più noto è l'ebreo ungherese George Soros, che ha incassato 950 milioni.
Ma il meno noto Steve Cohen se n'è intascato 900.
Quello che si è più pagato è James (Jocob) Simons, creatore del fondo Renaissance, 1,7 miliardi di dollari in un anno.
Ma questi sono americani.
A Londra, il gestore di hedge fund di maggior successo pare essere Nathaniel Rothschild, figlio di Lord Jacob Rothschild: col fondo da lui fondato, Atticus Capital, ha 8 miliardi di dollari in gestione, e la sua specialità è l'acquisizione non di azioni ma di intere Borse-valori europee, che poi fonde insieme.
Il suo profitto personale è stato - nei limiti in cui è possibile indovinarlo, visto che questi non compilano la dichiarazione dei redditi - di 240 milioni di dollari.
Ciò lo metterebbe alla pari con Noam Gottesman, fondatore del fondo GLG, che con il socio Pierre Lagrange s'è scremato i suoi 240 milioni nel 2006.
Ma Nat Rotschild è considerato un «giovane», ha ancora splendidi traguardi da superare. L'elenco sarebbe lungo e noioso.
Basti dire che un hedge fund può pagare ai suoi trader («the best and brightest», i migliori e i più intelligenti, spesso con lauree in matematica e software: indicativo drenaggio di cervelli nella improduttività) premi e gratifiche per 250 milioni di dollari l'anno; e che un creatore di hedge fund fra i meno attivi s'intasca 40 milioni di dollari annui (2).
E non si dimentichi che i loro colossali profitti sono, nel gioco a somma zero della finanza, profitti mancati per tutti noi comuni mortali.
O più precisamente, in USA e Gran Bretagna, perduti da fondi-pensione responsabili del sostentamento di futuri milioni di vecchi lavoratori.
Per questo milioni di lavoratori pagano ogni mese i contributi: per farseli derubare dai ricchissimi, giocatori d'azzardo non tenuti alle regole cui sono costretti (giustamente) i fondi-pensione.
E' questo il vero motivo per cui contributi sempre più cari sulle buste paga rendono sempre meno. Ed ora che il crack è prossimo, provate a immaginare: chi guadagnerà dallo «stimulus» decretato dal Tesoro USA e della FED, che è poi in parte essenziale un «fiscal stimulus»?
I Rotschild, o Gottesman, i Soros, i Simons, quelli che pagano 1,2% di tasse, avranno la loro parte.
Ma venga lo stimulus, se risolleva i corsi cadenti e ridà fiato al credito, direte voi.
Anche nel 1929 si decretò uno stimulus.
Non subito.
Prima, dovettero passare due terribili mesi.
In cui i plutocrati di allora tentarono l'elettroshock sulla Borsa, quel gatto morto che ad ogni scarica guizzava e poi ricadeva.
Il Giovedì nero, 24 ottobre, i titoli non trovano compratori a qualunque prezzo, e il Dow Jones (che era a 381 a settembre perde 22,6%.
Tumulti si susseguono davanti ai portoni del New York Stock Exchage dove una folla immensa di piccoli azionisti che cerca di entrare - per vendere - si vede sbarrare il passo dalla sicurezza e poi dalla polizia.
I cinque maggiori banchieri d'affari di New York si riuniscono nella sede di J.P. Morgan & Co., e raccolgono fra loro liquidità da iniettare in Borsa.
E' il primo Plunge Protection Team in azione.
Il capo della J.P. Morgan, Thomas Lamont, dichiara ai radioreporter: «C'è stata una piccola quantità di vendite in perdita. E' parere condiviso del nostro gruppo (consensus: il primo Washington consensus) che per lo più le quotazioni di Borsa non rappresentino fedelmente la situazione. [essa] è suscettibile di migliorare».
Basta questo annuncio a provocare una lieve ripresa: nella lingua di legno dei banchieri, il pubblico ha capito che interverranno loro per sostenere i corsi.
E difatti alle 13.30 i grandi banchieri entrano a Wall Sreet.
A loro nome parla Richard Withney, vicepresidente della Borsa di New York.
Ad alta voce, ostentatamente, chiede: a quant'è il titolo Us Steel?
A 198 dollari, gli rispondono (era a 262 pochi giorni prima).
E Withney: «Ne compro 25 mila a 205».
Ripete la cosa per una dozzina di titoli.
I corsi rialzano, a fine giornata le perdite sono limitate a un «normale» 2,1, il Dow è risalito a 299,47.
Tutti sospirano di sollievo.
Specialmente i fattorini e le dattilografe, che si sono indebitati per giocare: è il momento di vendere e chiudere i debiti, si dicono.
Il volume degli scambi è quadruplicato, dai 3 milioni di una giornata normale a quasi 13 milioni. Nonostante tutto, i corsi tengono miracolosamente venerdì.
Tengono anche la mezza giornata di sabato, fra alti e bassi pazzeschi. I banchieri passano la domenica a congratularsi: siamo salvi.
E domani, non eserciteremo alcuno «stimulus».
E' il Lunedì Nero, 28 ottobre: passano di mano oltre 9 milioni di titoli, il Dow ricade a 260,64. General Electric perde in poche ore 48 punti, Eastman Kodak 42, Westinghouse 34.
Il 29 ottobre, Martedì Nero: il volume degli scambi sale a 16,4 milioni, le telescriventi subissate comunicano i valori con 2 ore di ritardo, aumentando il panico: nessuno sa a quanto ha venduto i titoli, quanto ha perso, quanto non potrà restituire alle banche creditrici che già spediscono telegrammi con l'ingiunzione: «Rientrare immediatamente».
Winston Churchill, che è a New York ed è sul punto di perdere nel disastro 500 mila dollari, racconta di aver visto uno speculatore rovinato buttarsi da un grattacielo. Il contraccolpo sull'economia reale è quasi immediato nelle settimane seguenti.
Le banche, colpite dalle perdite nette delle migliaia di piccoli speculatori indebitati che non ripagano il debito, sono costrette a restringere il credito.
Le grandi imprese restano a corto di capitale, le più esposte o deboli falliscono; le banche stanno ancora peggio e restringono ancora la borsa. La disoccupazione cresce.
Il 2 dicembre, il presidente degli Stati Uniti Edgar Hoover convoca politici, banchieri, capitani d'industria per contribuire tutti insieme ad elaborare il pacchetto di salvataggio.
Il Congresso offre di varare, in concordia bipartisan, un taglio fiscale di 160 milioni di dollari di allora (22 miliardi di dollari di oggi, molto meno dello stimulus di Bush, che è di 150 miliardi).
La Federal Reserve promette credito a basso costo, promessa vana perché l'iniezione di liquidità che poteva fornire, allora, era limitata dalla quantità d'oro che sosteneva la cartamoneta.
In ogni caso, è una gara commovente al soccorso. Le grandi imprese promettono: nessuna riduzione dei salari.
I sindacati: nessuna agitazione per aumenti di salari.
Il Tesoro: raddoppio delle spese per pubbliche costruzioni, da 248 a 423 milioni di dollari.
I grandi cantieri: nuove costruzioni navali transatlantiche per 200 milioni di dollari.
La Pennsylvania Railroad rivelò che dal 1930 avrebbe messo in costruzione «150 potenti elettro-locomotive al costo di 16 milioni di dollari».
La AT&T promise di aumentare le sue spese in infrastrutture a 600 milioni di dollari.
La United Gas di accrescere il suo impegno di 6,5 milioni. Henry Ford, il grande costruttore d'auto, fu il solo a cogliere l'aspetto sistemico della crisi.
Prima di entrare dal presidente, disse ai giornalisti: «Primo: Le attività speculative hanno sottratto all'industria i cervelli di uomini che altrimenti starebbero lavorando a fare progetti migliori per i beni, e migliori metodi di manifattura e pianificazione, onde immettere più valore nei prodotti.
Secondo: il volume della produzione americana ha superato non la capacità del nostro popolo di consumare, ma il suo potere d'acquisto.
Di conseguenza, proporrò al presidente Hoover due misure.
Primo: o mettere più valore aggiunto nelle merci, o abbassare i loro prezzi al livello del loro attuale valore.
Secondo: un aumento generale dei livelli salariali» (3).
Abbassare i prezzi ed aumentare le paghe!
S'era mai sentita una simile eresia, nel capitalismo liberista?
Hoover rigettò la proposta: quella di Ford presupponeva che già fosse instaurata la depressione, ma Hoover riteneva che c'era solo «una minaccia di recessione».
La disoccupazione Sale?
D'accordo, ma sale anche in Germania, in Gran Bretagna…c'era tempo per gli estremi rimedi, per forzare la mano invisibile del mercato, per retribuire gli operai.
Ford tornò in fabbrica e di fatto aumentò le paghe dei suoi operai.
Ma era solo, e non servì. Nelle settimane seguenti, cominciarono a fallire le prime banche, e le altre furono assaltate dai risparmiatori ansiosi di ritirare i depositi.
La crisi bancaria cominciò a diventare crisi economica nel 1931. il numero dei disoccupati decuplicò nel 1933, passando da 1,5 a 15 milioni.
Consumi, investimenti e produzione erano nel fondo del baratro.
Il Dow Jones, intanto, ha perso l'89% del suo valore: da 381 del settembre '29, l'indice tocca i 157 nel 1930, il 73 nel 1931 e 41 nel 1932.
Soffrono, finalmente, anche i ricchi. L'azione Goldman Sachs, passa da 104 dollari del 1929 a 1,75 nel 1932. General Motors scende da 1075 dollari a 40.
Il fondo d'investimento American Founders Group scende da 75 dollari a 75 cents.
I Vanderbilt perdono 40 milioni di dollari, J. P. Morgan tra 20 e 60, i Rockefeller l'80% del loro patrimonio. Quando il presidente Roosevelt assume l'incarico, il suo primo atto è di ordinare la chiusura delle banche, ancora una volta prese d'assalto.
Il suo New Deal promette una ripresa debole, nel 1937 si produce una ricaduta della crisi e della disoccupazione di massa.
Solo con l'entrata in guerra, nel 1941, l'America conosce di nuovo la ripresa produttiva e il pieno impiego.
Ma il Dow Jones risalirà al vertice che aveva raggiunto nel settembre 1929 soltanto nel novembre 1954.
I plutocrati dei mercati finanziari, che vantano la Borsa come il più acuto metodo per allocare con efficienza i capitali, volatilizzarono in fin dei conti 72 miliardi di dollari in tre anni, e devastarono l'economia reale più potente e il mercato reale più ricco.
Oggi, lo hanno rifatto.
Jospeh Stiglitz, il Nobel, è solo (come Ford allora) a dire che il mondo sta per cadere nella stessa trappola del credito del 1930, e che il fiscal stimulus e il credito ribassato dalla Fed non serviranno (3).
«La gente ha succhiato valore dalle proprie case (ipotecandole) per 700-800 miliardi l'anno. E' stato un grosso acceleratore dei consumi, ma ora è finita. I prezzi degli immobili (ipotecati) continueranno a scendere, e bassi tassi d'interesse non li fermeranno.
Come keynesiano, io ritengo che uno stimolo più immediato e utile sarebbe l'assistenza alla disoccupazione e la detassazione dei poveri. Anche se, data la dimensione dei problemi, uno stimolo fiscale da 150 miliardi di dollari (quello decretato da Bush) non è abbastanza».
Anche perché, per il suo meccanismo, la detassazione dello stimolo beneficerà soprattutto le famiglie con redditi oltre i 70 mila dollari annui.
Perché, ha spiegato, «i fondamentali restano sani».
Per i sussidi ai disoccupati, c'è tempo.
Note
1) Robert Peston, «Pointing fingers at the plutocrats», Telegraph, 26 gennaio 2008. E' la prima volta da decenni che un giornalista economico britannico usa la parola «plutocrati». Robert Peston è autore di «Who runs Britain?» (Chi comanda in Gran Bretagna?) che per la prima volta accusa gli scandalosi arricchimenti dei gestori di fondi speculativi, e l'assrevimento ai loro interessi della classe politica.
2) Robert Peston, «Hedge funds: the new global superpowers», Telegraph, 27 gennaio 2008.
3) Michael Kitchen, «The great fiscal stimulus package ... of 1929», Marketwatch, 26 gennaio 2008.
4) A. Evans-Pritchard, «US slides into dangerous 1930s 'liquidity trap'», intervista a Stiglitz, Telegraph, 25 gennaio 2008.
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