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Tornano i neocon. Contro la Turchia
13 Giugno 2010
Chi era troppo giovane l’11 settembre 2001, probabilmente non ne ha mai nemmeno sentito il nome. Ma Paul Wolfowitz era numero 2 al Pentagono sotto Rumsfeld, Douglas Feith altro viceministro, il rabbino Dov Zakheim anche lui viceministro, Richard Perle dirigeva al Pentagono uno strano «ufficio di consulenza» chiamato Defense Policy Board: in breve, sono quelli che prepararono l’invasione di Afghanistan ed Iraq appena scoppiata «la nuova Pearl Harbour», il super-attentato a firma Al Qaeda alle Twin Towers e al Pentagono.
Erano i neocon, ex trotzkisti divenuti d’estrema destra, allievi di Leo Strauss, ora al sottogoverno. Qualunque giornalista inviato a Washington in quei giorni (come il vostro cronista) frequentava attentamente le conferenze che costoro ed altri loro compari tenevano nelle loro «fondazioni culturali»: l’American Enterprise, il Washington Institute for Near East Policy, il più segreto Jewish Institute for National Security Affairs (JINSA), e si leggevano le loro riviste (il Weeekly Standard di Bill Kristol, Commentary della famiglia Podhoretz, eccetera) perchè si capiva che erano loro a comandare.
Una folla di altri neocon si mostravano in TV, John Bolton, Daniel Pipes, Robert Kagan, o scrivevano editoriali sui grandi giornali (come Charles Krauthammer) che compulsavamo per capire cosa avrebbe deciso Bush jr. l’indomani.
Wolfowitz preparava personalmente l’invasione, e il governo da piazzare in Iraq al posto di Saddam, e diceva: «Sarà una passeggiata». Erano tutti ebrei e non facevano mistero di agire nell’interesse supremo di Israele. Il solo non-ebreo della compagnia era James Woolsey, già direttore della CIA, che faceva un po’ la figura che fa l’agente Betulla nel gruppone della Nirenstein.
Pochi mesi dopo, i tre viceministri se ne andarono alla chetichella, lasciando Rumsfeld nelle peste della supposta «passeggiata». Wolfowitz fu nominato da Bush a capo della Banca Mondiale (da cui dovette dimettersi per uno scandalo sessuale), Douglas Feith tornò al suo studio d’avvocato che si occupa esclusivamente di trasferimenti di armi fra USA e Sion, Dov Zakheum alla sua azienda, la System Planning Corporation che produce sistemi avanzati di teleguida per aerei senza pilota a scopo militare. Missione compiuta.
Adesso, invece, sono ricomparsi. Per esigere che la Turchia sia espulsa dalla NATO. Richard Perle, James Woolsey e John Bolton [l’ex ambasciatore all’ONU di Dubya (Bush)] guidano ancora il JINSA, ente di collegamento informale tra le grandi industrie militari americane e gli Stati Maggiori d’Israele.
Un rapporto recentissimo del JINSA da loro scritto recita:
«Se la Turchia trova che i suoi migliori amici sono l’Iran, Hamas, la Siria e il Brasile, la sicurezza delle informazioni d’intelligence che riceve come membro della NATO sono in pericolo. Gli Stati Uniti devono seriamente valutare di sospendere la cooperazione militare con la Turchia, come preludio per la sua rimozione dall’organizzazione».
Dal settimanale ebraico Forward, Michael Rubin (una creatura di Perle all’American Enterprise) ha accusato Ankara di «essere diventato il canale per contrabbandare armi ai nemici di Israele» – analisi che per moderazione ed oggettività supera quelle della Nirenstein.
Sul Weekly Standard Stephen Schwartz (un altro della cricca) asserisce: «La Turchia rappresenta attualmente un elemento maggiore nel panorama dell’Islam radicale», insomma pronta per essere inserita nella lista degli «Stati-canaglia» contro cui estendere la Guerra Globale al Terrorismo.
Di nuovo, rispetto a dieci anni fa, c’è che essendo il Wall Street Journal diventato proprietà di Rupert Murdoch (o Marduk), dalle sue pagine si dichiara che la IHH, la organizzazione non governativa che ha organizzato la flottiglia della pace, è «un gruppo terroristico collegato ad Al Qaeda», e si accusano Erdogan e il suo ministro degli Esteri Davutoglu di essere «demagoghi che eccitano i peggiori elementi nel loro Paese e nel Medio Oriente in generale».
Come nota il giornalista Jim Lobe, questa furia ha qualcosa di ironico: proprio i neocon, dieci anni fa, premevano perchè la Turchia (da cui speravano collaborazione nell’invasione dell’Iraq) fosse fatta entrare nell’Unione Europea, in quanto – dicevano – era la sola democrazia del mondo islamico. Proprio loro promossero l’alleanza militare turco-israeliana, consolidata negli anni ‘90.
Anzi Richard Perle e il viceministro Douglas Feith sono stati in passato lobbysti pagati dal governo turco, e hanno mosso le leve della Israel Lobby, potenti sul Campidoglio, per affermare gli interessi di Ankara in USA. I servizi israeliani e quelli turchi hanno persino spiato assieme segreti militari americani, come ha rivelato la traduttrice Sibel Edmonds. Ma questa è un’altra storia. (Neoconservatives Lead Charge Against Turkey)
Il fatto è che, come molti analisti cominciano ad accorgersi, i neocon non sono mai scomparsi, anzi restano molto influenti presso il governo di Obama, quasi quanto con George W. Bush. Stephen Walt (il professore che con Mearsheimer ha scritto «The Israel Lobby and the Us foreign policy»), dice che è la cricca a far sì che l’amministrazione Obama «continui l’atteggiamento di Bush verso l’Iran, anche se con una faccia più gentile». Un analista della Brooking’s Instituzione, Justin Vaisse, ha pubblicato un rapporto dal titolo «Perchè il neoconservatorismo conta ancora» (Why Neoconservativism Still Matters), e cerca di spiegare perchè, nonostante i fallimenti e le tragedie che la loro politica ha provocato, «siano ancora una voce molto significativa nell’establishment di Washington».
«Il motivo», spiega, è «l’abilità di questo gruppo (i cui membri lavorano in stretto collegamento da tren’anni nei corridoi del governo) nell’incistarsi in alcuni organi di sottogoverno e da lì condurre la politica americana secondo i loro progetti».
Benjamin Balint, un politologo dello Hudson Institute, si stupisce di questa loro rinascita, eppure «non hanno mai fatto l’ombra di un mea culpa, non un riesame dei loro principii, anzi il contrario».
Trattandosi di ebrei con doppio pasaporto, sarebbe strano il contrario; come tali sono intoccabili e difesi dalla lobby, dai media, e dal complesso-militare industriale. Balint ha scritto un saggio sul problema, «Commentary (la rivista, ndr), ossia come un discusso periodico ha trasformato la sinistra ebraica in destra neocon» (Running Commentary: The Contentious Magazine that Transformed the Jewish Left into the Neoconservative Righ).
Sicchè i neocon sono tornati e – se l’esperienza ci dice qualcosa – otterranno da Obama ciò che vogliono: l’iscrizione della Turchia nella lista degli Stati terroristici islamici e, soprattutto, l’attacco all’Iran, o almeno l’assenso ad un attacco israeliano all’Iran.
Resta solo da sperare che non ritengano di aver bisogno di una «nuova Pearl Harbour», un nuovo 11 settembre, per convincere l’opinione pubblica americana alla nuova tornata di guerre per Sion.
L’ipotesi è paventata da Gordon Duff, l’ex Marine che dirige la rivista dei reduci (Veterans Today), che rievoca una storia inquientante sulle dieci testate atomiche che il regime sudafricano dell’Apartheid fabbricò con l’assistena tecnica di Israele nel tardi anni ‘70. Il nuovo governo negro ha consegnato quelle bombe all’Occidente, per essere distrutte. Effettivamente, sei delle testate sudafricane furono trasportate in USA e smantellate. Altre tre furono consegnate agli inglesi ma «sono state dirottate» o rapinate non si sa da chi. Si sa invece che Israele è sempre stata prodiga di indicazioni sui colpevoli del furto atomico: dapprima sostenne che le bombe si trovavano in mano di Saddam Hussein, ragion per cui era necessario invadere l’Iraq. Poi offrì le prove che le tre bombe erano invece in Siria. Anzi, la lobby ha persino cercato di affermare che tali bombe potevano apparire da un giorno all’altro nella striscia di Gaza dove sicuramente Hamas le avrebbe fatte esplodere in Israele, portandole attraverso i tunnel – ragion per cui è stato necessario costruire il Muro di 700 chilometri (per quanto inverosimili, queste cose sono state scritte per il pubblico americano; ma non è impossibile farle credere anche agli italiani, che già sono stati convinti che i pacifisti sono terroristi).
Si noterà che si parla fin qui di nove bombe, sei smantellate in USA e tre «scomparse». E la decima? La decima, asserisce Israele sempre prodiga di informazioni, ce l’ha il Pakistan, che l’ha comprata dai contrabbandieri: è la ragione per cui è necessario destabilizzare il Pakistan e sottrargli le testate nucleari, onde non cadano in mano ai talebani o – peggio – a Bin Laden, che attualmente si trova (come assicura l’intelligence sionista) in Iran.
Per Gordon Duff, invece, la decima bomba è quella che è esplosa in Nord Corea. E per lui, le tre bombe scomparse sono da 18 anni in mano di Israele. Ci si può non credere, ma qualcosa del genere fu ventilato persino da Henry Kissinger. (Kissinger: Israel Swiped NuclearFuel)
Dopo l’eccidio sulla Mavi Marmara, l’ostilità della Turchia e la protesta internazionale per il lager di Gaza, la psicosi sionista si sente in qualche modo messa al muro – nonostante la propaganda, la verità verrà affermata da qualche tribunale internazionale, e in ogni caso l’isolamento di Israele cresce. Gli psicotici di Sion sanno di aver poco tempo e, ora che hanno gettato la maschera dello «Stato come tutti gli altri», sono spinti ad accelerare i loro progetti, in primo luogo l’attacco dal cielo all’Iran. In un atto di disperazione.
Già hanno stretto accordi con la monarchia saudita per avere un corridoio aereo lungo cui passare per bombardare l’Iran. Quale migliore «nuova Pearl Harbour» giustificatrice dell’attacco che una esplosione di un’atomica nascosta in un container, in un porto americano o europeo? La propaganda incolperebbe Teheran, che come tutti sanno «si sta facendo la Bomba»; i neocon tornati in auge prepararebbero anche questa nuova fase. Con Obama al posto di Dubya.
Sono ipotesi senza precise prove, certo. Ma, come abbiamo spesso segnalato, un numero sospetto di politici americani – da McCain a Lieberman a Chertoff, il ministro della Homeland Security – hanno «profetizzato» che terroristi islamici sono in possesso di una Bomba e possono farla esplodere sul suolo americano, in ogni momento e dovunque. E i nostri eroi hanno già dato ampia prova di non arretrare davanti ad atti atroci.
Inoltre, come rivela il New York Times, « lo scorso febbraio una delegazione d’alto livello israeliana è andata a Pechino» per convincere il regime cinese a dare il suo voto alle sanzioni contro l’Iran al Consiglio di Sicurezza. Pechino, che dall’Iran compra quantità enormi di greggio, non voleva. Ma a convincere la giunta cinese sono state le prove che Israele è in grado di bombardare l’Iran e che lo farà, sicchè è bene per i capi cinesi che «considerino le conseguenze che l’attacco avrà sulle forniture petrolifere, da cui dipendono».
I cinesi sono stati così spaventati, che hanno votato le nuove sanzioni all’Iran per scongiurare l’aggressione israeliana: vuol dire che la minaccia era credibile al massimo grado. (Israel Makes Case to China for Iran Sanctions)
Israele non darà certo spiegazioni alla Cina se l’attacco sarà giustificato da un «attentato islamico» nucleare. Ad aggravare il senso d’urgenza degli israeliani c’è poi – oltre la loro propria psicosi – una dichiarazione di Gerhard Schroeder, l’ex cancelliere socialdemocratico tedesco, alla Die Welt. Commmentando l’eccidio della Mavi Marmara e il nuovo atteggiamento di Ankara verso Israele, Schroeder ha detto: «L’Unione Europea può esistere in modo indipendente dai centri di potere di USA e Cina solo unendo le forze. Bisogna approfondire i rapporti con la Turchia ed associare (la UE) con la Russia». (US-Turkish tensions and the Israeli assault on the Gaza flotilla)
Schroeder era già la bestia nera dei neocon da quando, all’ONU, la sua Germania votò contro l’invasione americana dell’Iraq; ed oggi è uno dei capi e garanti della Gazprom. La sua pubblica ed aperta proposta per un asse politico tedesco-turco-russo per rendere indipendente l’Europa dalla tenaglia americano-cinese, indica che la situazione si evolve molto più rapidamente di quanto si poteva credere, e che esistono personalità e gruppi pronti a seguire l’esempio di Ankara.
Israele «sa di avere poco tempo», come il Satana dell’Apocalisse. (Apocalisse 12, 12: «Guai a voi terra e mare! Il diavolo è sceso tra voi con gran furore, perchè sa di avere poco tempo»).
Post Scriptum: Fatto singolare, trovo su La Stampa di domenica che Barbara Spinelli – insospettabile di letture dell’Apocalisse, in quanto figlia del laicissimo Altiero e amante di Padoa Schioppa – viene fuori quasi con la stessa espressione:
«… In questo mondo in mutazione, Israele (appare) sempre più ingabbiata dalle inferriate che si è fabbricato. Sempre più prigioniero della propria tendenza a considerare equivalenti due minacce che non lo sono: la minaccia alla sua legittimità, e la minaccia alla sua sopravvivenza (...). Equiparare all’Olocausto l’atomica iraniana significa impedire a se stessi correzioni di rotta e sforzi di rilegittimazione... Se adotta uno sguardo lungo, Israele dovrà per forza scoprire che di tempo ne ha pochissimo».
Questa, da parte di una amica del sionismo, mi pare una risposta almeno parziale alla domanda del lettore che chiede:
«Ma alla fine dei conti, perchè Israele vuole attaccare l’Iran? Solo per supremazia nucleare? Sembra un po’ poco effettivamente...».
L’errore del lettore, come della Spinelli, è far appello alla ragione di Israele. Il punto è che Israele, nei suoi ultimi atti, non è razionale. Si vive come Dio o Messia di se stesso, vicino all’intronazione nel Tempio ricostruito; e dunque vive ogni contrasto e contraddizione come una intollerabile offesa alla sua insindacabile, divina onnipotenza.
Sì, sul piano del buon senso, uno Stato che ha 2-300 testate atomiche non si dovrebbe preoccupare tanto se un altro Stato se ne sta costruendo forse una o due. Ma Israele esige la sicurezza assoluta, la superiorità assoluta, la garanzia assoluta di immortalità – che solo Dio può avere.
Il fatto è che tutto ciò che è accaduto negli ultimi 50 anni lo ha convinto del suo destino divino, di Messia vittorioso: l’arrivo in massa degli ebrei in Terrasanta è un sicuro segno messianico da fine dei tempi, ma anche tutti gli omaggi e i segni di subordinazione e venerazione che tutti i grandi del mondo gli tributano, li vive come conferme della sua natura divina. La superpotenza più potente della storia è ai suoi ordini, vinta, legata, pronta a scatenare per lei ogni guerra. Pontefici si inchinano a chiedere continuamente il perdono di Israele, identificata con l’Ebreo Collettivo (l’immagine è della Niresntein). Nessun potere nè autorità terrena è in grado di richiamarla al rispetto delle norme internazionali della civiltà, a cui tutti gli altri sono soggetti. Ha ogni giorno la prova di poter commettere atrocità e violazioni di gravità inaudita, senza che i media e i governi esprimano una qualche condanna, o almeno rimprovero. E, cito ancora la Spinelli, «Israele ha avuto per 43 anni uno speciale privilegio cui si è abituata, essere l’unico Paese nucleare della zona»: conferma suprema dell’onnipotenza.
Pensateci: è la condizione in cui, nell’impero romano, sorsero i «Cesari pazzi», Nerone, Caligola, Commodo: che non si sa se erano pazzi davvero, ma le cui stranezze e arbitrii a volte sanguinari o folli «prosperavano sul terreno dell’onnipotenza, dell’imperium, del culto imperiale, dell’assenza di una leale e legittima opposizione a sua Maestà, a Roma inconcepibile: ogni opposizione equivale ad alto tradimento» (cito dallo storico Paul Veyne, «L’impero greco-romano»). Il fatto che poi a questa onnipotenza arbitraria si accompagnassero continui tentativi di usurpazione, delazioni false e vere, avvelenamenti, congiure che minacciavano la vita (ben pochi imperatori hanno trasferito il potere ai figli) contribuiva non poco a far vacillare le menti più salde.
Israele è oggi il Cesare pazzo del mondo, che si vive e si incensa come dio, ma che dovunque vede alti tradimenti, complotti per eliminarlo, e non considera amici i suoi servitori, ma solo falsi amici che approfitteranno dell’occasione proprizia per pugnalarlo. Perchè, dopotutto, nel fondo sa di non essere Dio. Ogni volta, perciò, ha bisogno di commettere atti più gravi e atroci, più imperdonabili e irreparabili, per trovare conferma della sua divinità, ogni volta per vedere che i capi di Stato spregiati si inginocchiano davanti alla sua ultima malvagità, condonano il suo ultimo eccidio, scusano e giustificano ogni sua illegalità. Esige la sicurezza assoluta, totale, che nemmeno le sue centinaia di testate, nè l’appoggio della massima superpotenza possono darle: ciò che vuole è l’impossibile immortalità e la assoluta legittimità del Monarca che aspira a scalzare.
Ha imposto il suo ordine malato, l’adorazione di sè come Vittima, all’intero Occidente (post)cristiano; e tuttavia teme come fatale ed epocale ogni minima ribellione e insubordinazione; esige che chi gli dice la verità sia censurato oggi, e domani ucciso, che ogni popolo che non partecipa al culto sia sradicato. Per questo ogni Papa che ha incensato Israele è, in fondo, complice della sua mostruosa metamorfosi. Magari per illusione, per poca informazione, per convinzione neo-teologica. Ma è impossibile non vedere che Israele somiglia ogni giorno di più a quella realtà paurosa che San Paolo descrive nei Tessalonicesi II:
«Si rivela l’uomo d’iniquità, il figlio della perdizione, colui che si oppone e si innalza a su tutto ciò che è chiamato Dio o che è oggetto di culto, fino a sedersi egli stesso nel tempio di Dio, chiamando Dio se stesso».
E ancora:
«La parusia dell’iniquo avviene per opera di Satana, con ogni genere di potenza, con miracoli e prodigi di menzogna, con tutte le seduzioni dell’iniquità per quelli che si perdono, perchè non hanno accolto l’amore della verità per essere salvi. Ecco perchè Dio manda ad essi una forza d’errore, affinchè credano alla menzogna».
Mi sembra impossibile che chi, per ragioni d’ufficio, conosce queste righe di Paolo, non sappia vedere che esse descrivono il nostro oggi. Quell’agghiacciante «forza di errore» per cui tutti «credano alla menzogna», non la sperimentiamo oggi, qui, tra noi?
Sono convinto che il Cesare pazzo, sempre bisognoso di riconfermare la sua onnipotenza, arriverà fino all’attacco atomico (1). Lo paventa anche la Spinelli: «Possedere la bomba senza ammetterlo ha finito col congelare il pensiero, dando ad Israele l’impressione di un tempo immobile, di un monopolio non scalfibile».
Il tempo immobile di Dio, appunto, in cui Israele vuol vivere. Ma se il mondo si muove e l’Iran e forse domani la Turchia si daranno un’arma atomica per deterrenza, «allora la bomba comincia a farsi reale, forse usabile».
Mi pare che la Spinelli intuisca i segni dei tempi meglio, ne colga in qualche modo la natura anticristica. E la Chiesa?
1) Si ricordi che i capi dell’Unione Sovietica non usarono mai il loro arsenale atomico mostruoso. Sì, i loro militari studiarono l’ipotesi di «sferrare e vincere una guerra nucleare», cioè scatenare a sorpresa un attacco nucleare preventivo con la prospettiva di sopravvivere come impero alla ritorsione americana; ma i politici, esaminato lo studio (lo firmava il celebre maresciallo Ogarkov) rinunciarono. Perchè erano ancora accessibili alla ragione, si poteva contare sulla loro capacità di fare calcoli razionali, e di tener conto delle forze reali nel mondo. Ma i capi dell’URSS, in fondo, non si sentivano come Dio. Non possiamo contare sulla pari razionalità di Israele il Messia.
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